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intervista a Francesco Bonami

Nel documento Nuove esperienze di giustizia minorile (pagine 82-87)

Nonostante il suo tempo di permanenza a roma fosse esiguo, Francesco Bona-mi è riuscito a trovare mezz’ora per parlare con noi, senza spazientirsi per il telefonico pedinamento, dall’america a roma, messo in atto dalla redazione nella speranza di po-terlo intervistare, incuriositi da Youprison, la mostra sulle prigioni. Bonami ci ha donato, oltre al suo tempo, la disponibilità a collaborare con la Giustizia minorile, per avvicinare ragazzi ed operatori all’arte e per pensare, se così si può dire, ad un progetto di carcere più a misura di ragazzo.

D: Cosa ha spinto un artista, critico d’arte e curatore di mostre a occuparsi di carcere?

r: Ci guardiamo intorno, gli architetti costruiscono musei, statue, monumenti, ponti … tantissime cose, ma non il carcere che in fondo è un edificio importante per-chè rappresenta un problema non risolto per la nostra società. Nessuno è interessato a disegnare carceri ... anche per motivi morali; per esempio, lo studio di un architetto inglese, richard rogers alla mia richiesta di disegnare un carcere, mi ha risposto che per statuto, nel suo studio, non si fanno progetti legati alla limitazione di spazi di libertà dei diritti umani. per realizzare questa mostra ho pensato di invitare architetti provenienti da paesi che, come mi piace affermare con una metafora “in un modo o nell’altro hanno a che fare con la giustizia” dalla Cina alla russia, all’iran, al libano, ad israele, all’america, al Giappone. a questi architetti all’inizio ho chiesto di pensare ad una cella in modo molto pratico e funzionale. Ho contattato architetti che mi hanno rivelato che in realtà, per loro, è stato un problema pensare al carcere, si sono trovati spiazzati; infatti l’oggetto della mostra si è trasformato, non è più la cella ideale e la sua funzionalità ma un’idea e una riflessione sulla libertà in generale.

D: Come hanno realizzato la sua richiesta gli artisti che lei ha contattato e che ricadute ci sono state rispetto ad una praticabilità dei progetti presentati?

r: la riflessione più interessante l’ha fatta l’architetto Navarra, che ha realizzato a Caltagirone un progetto con i detenuti che hanno disegnato la loro cella ideale e realizzato dei modellini tridimensionali appesi alla rete della cella, tipo la prigione di Guantanamo a Cuba. Nella realizzazione dell’idea c’è stato questo rapporto diretto con i detenuti.

lo stesso Navarra si chiedeva come mai una società in cui anche l’individuo libe-ro vive in un sistema di contlibe-rollo così diffuso, non sia capace di creare delle strutture di controllo in cui l’individuo possa essere controllato ma, nello stesso tempo, possa restare individuo. il carcere, inoltre, rimane una struttura dove c’è tanta promiscuità e che non risolve la diversità dei crimini.

D: Pensa che la nostra società possa fare a meno del carcere e che questa utopia possa diventare realtà?

r: Bisogna essere realisti, la società e il crimine hanno imparato a convivere.

sarebbe utopico pensare che il crimine possa essere eliminato quando ci sono contesti sociali che lo generano, cioè delle situazioni sociali che diventano oggettivamente ge-neratrici di crimini. Negare ciò forse è anche più terribile che non trovare una soluzio-ne. il problema è creare luoghi che non siano università del crimine; negli stati uniti è statisticamente provato che un altissimo numero di persone che entra con dei crimini relativamente minori esce dal carcere assolutamente pronta a commettere reati più efferati. Ma deve essere, invece, possibile creare delle strutture dove il criminale possa fare una riflessione su se stesso e possa poi veramente trovare un inserimento.

D: Da questa mostra viene fuori qualche suggerimento ... c’è qualcosa che potrebbe suggerire a chi si occupa di carcere in maniera più pragmatica, per migliorare la qualità della vita di chi è detenuto?

r: Beh si, credo che venga fuori il problema dei modelli sociali, nel senso che da questa mostra si tende ad individuare il modello, di fatto la mostra non è una soluzione, è una domanda che rimane aperta sul fatto di creare una società in cui si ritrovino dei modelli umani; in questa mostra a modelli diversi di società, le risposte sono diverse. per esempio, l’architetto libanese mi diceva che l’idea della mostra è un’idea astratta, perché ci sono paesi che sono essi stessi delle carceri per i loro cittadini; il concetto di carcere in libano per noi occidentali è difficile da capire: è una gabbia, un luogo di mera segre-gazione, non è insito nel carcere il concetto di rieducazione. in america il carcere serve a ridurre le statistiche sulla disoccupazione, cioè i carcerati non vengono calcolati come disoccupati. il carcere quindi non ha solo una funzione di contenimento, ma è un’econo-mia, infatti in america ha una gestione privata e non istituzionale.

D: Si parla di luoghi e di non luoghi, dal punto di vista antropologico, architettonico, sociologico, ecc., una sorta di attenzione ad una pedagogia degli spazi; allora, anche alla luce di questa esperienza, come dovrebbe essere, secondo lei, un carcere per un ragazzo, individuo in piena trasformazione e quindi per certi aspetti incontenibile…

r: Considerando i numeri bassi della popolazione detenuta minorile in italia, la sfida e l’utopia potrebbero essere quelle di trasformare il carcere in una scuola, in una scuola di vita, e in una scuola per l’arte. Credo fondamentalmente che la cultura, l’arte siano in fondo quei territori dove il concetto di libertà viene percepito in modo più pro-fondo. davanti all’arte tutti noi abbiamo un senso di libertà profondo e quindi l’idea di trasformare un istituto penale minorile in una scuola legata alla cultura, al cinema, alla musica o all’arte in generale dà valore al senso di libertà.

D: Nei nostri istituti ci sono molte attività di tipo artistico, forse hanno una dimensione dell’intrattenimento.

r: Forse l’idea più radicale sarebbe che la punizione diventi imparare qualcosa;

questo è il problema della società di oggi: abbiamo l’ossessione dell’intrattenimento, l’ossessione che la cultura deve essere intrattenimento e non può più essere esperienza spirituale, interiore, in cui si deve fare anche un po’di fatica per entrare in un certo linguaggio; la competizione è sempre con la televisione, con il piccolo spot, non c’è più un tentativo di far capire che un museo è un’esperienza spirituale, che è una esperien-za in cui uno sceglie di andare da solo; quindi penserei a realizesperien-zare una struttura dove possa esprimersi questo concetto.

D: C’è già, nel lavoro che ha visto realizzato in questa mostra, un’ipotesi trasferibile alla nostra specificità, o ha un’idea di come potrebbe essere?

r: Navarra ha lavorato con i detenuti, ma lavorare sulla cella è pensare al nega-tivo; forse per i ragazzi va pensato a qualcosa di più aperto, in modo anche rigoroso offrire al ragazzo la sfida di ricercare dentro se stesso delle qualità creative: può essere il teatro o altre forme d’arte, facendo capire che non tutti possono essere artisti, poeti o attori, che c’è un lavoro a monte; questo è infatti il grosso rischio quando viene pre-sentata l’arte solo come forma di intrattenimento e di divertimento, e non di fatica, di studio e di ricerca su se stessi.

D: Da una parte la prospettiva di investire per avvicinare i ragazzi all’arte come uno strumento per conoscere se stessi; d’altra parte, ritornando all’idea generale, come può essere uno spazio pedagogicamente buono, quando un ragazzo deve scontare una pena…“ la stanza tutta per sé” va bene per un adolescente?

r: Forse “una stanza tutta per sé” per un adolescente non va bene, forse creare gli spazi comuni in cui si fa vita collettiva e dove possano, se si dovesse decidere di far diventare questi luoghi delle scuole, far convivere spazi individuali e spazi collettivi e quindi l’aspetto del controllo con quello della vita. il problema è costruire una meto-dologia ed anche una sperimentazione: potrebbero aprirsi strutture sperimentali – i problemi sono sempre economici – attraverso professionisti collegati al mondo ed alla cultura contemporanei, come succede nel resto del mondo dove gli artisti sono anche insegnanti e maestri d’arte. Bisogna cioè offrire agli adolescenti un confronto con una realtà vera, non con persone che in un certo senso sono fuori dal mondo come le star e le veline. Credo quindi che la cultura e l’arte siano un’apertura simbolica verso la società, che potrebbe funzionare. sarebbe, soprattutto, interessante dimostrare che l’arte ha una funzione anche all’interno dei problemi, che non parla solo dei problemi della società ma li affronta.

Box Biografia

Una inconsueta carriera di militanza sul campo ha portato Francesco Bonami, fiorentino, 48 anni, alla direzione della sezione Arti Visive della Biennale di Venezia per il 2003. Lavorando tra Milano e New York, cominciò a collaborare con una nota rivista d’arte, “Flash Art”, assumendone la corrispondenza dagli Usa. Di qui una rapida ascesa come critico aggiornato e sensibile, aperto alle novità. Nel 1993 viene invitato da Achille Bonito Oliva a curare una sezione di “Aperto” proprio nella Biennale veneziana. Negli USA diviene senior curator del Museo di Arte Contemporanea a Chicago; in Europa fa parte del comitato di “Manifesta” a Francoforte.

ier

Nel documento Nuove esperienze di giustizia minorile (pagine 82-87)

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