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CAPITOLO 2: IL MODELLO DELLE COMPETENZE

2.1. INTRODUZIONE ED ORIGINE DEL MODELLO DELLE COMPETENZE

DELLE COMPETENZE

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Era il 1973 quando sul periodico “American Psychologist” venne pubblicato l’articolo scritto da David C. McClelland intitolato “ Testing for Competence Rather Than for ‘Intelligence’ ” a cui, ad oggi, viene dato il merito di aver dato avvio al Modello delle Competenze.

David Clarence McClelland, nato a Mt. Vernon nello stato di New York il 20 Maggio 1917, si laureò in psicologia nel 1941 all’Università di Yale. Divenne dapprima insegnate al Connecticut College ed in seguito professore alla Wesleyan University. Nel 1956 entrò alla Harvard University dove restò per trenta anni, in carica di Presidente del Department of Social Relations. Nel 1987 si trasferì alla Boston University con il ruolo Distinguished Research Professor of Psychology, che tenne fino alla sua morte nel Marzo del 1998, all’età di 80 anni. Tra i suoi lavori più importanti vanno ricordate le sue teorie sulla motivazione, derivata dagli studi di Murray’s (1938) sulla personalità. Fu anche presidente e fondatore della società di consulenza della McBer & Co.

L’articolo “Testing for Competence Rather than for Intelligence” iniziava con una pesante critica ai test attitudinali di rilevazione del Quoziente Intellettivo (I.Q.), o così detti “test di intelligenza”, utilizzati negli Stati Uniti per valutare l’accesso ai più prestigiosi college. Nel tempo, infatti, questi test hanno assunto un grandissimo potere in quanto, essendo largamente utilizzati, condizionano pesantemente la vita degli studenti americani. Come affermato dallo stesso McClelland:

“Those test have tremendous power over the lives of young people by stamping some of them “qualified” and others “less qualified” for college work.”

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Tratto da: “Testing for Competence Rather Than for ‘Intelligence’ David C.

Il problema, secondo lo studioso, è che l’importanza che questi test hanno raggiunto nel tempo, non è stata supportata da un’altrettanto importante opera di convalida e controllo del sistema di valutazione e dei relativi risultati. Infatti, uno studio critico e approfondito dei test attitudinali, quale è stato quello svolto da McClelland, permette di riscontrare due profondi difetti di tale tipologia di test, che ne renderebbero impossibile l’utilizzo ai fini a cui vengono destinati oggigiorno. Infatti, i test attitudinali:

1. Non predicono l’attitudine al lavoro o il successo nella vita;

2. Sono viziati da pregiudizi nei confronti delle minoranze, delle donne e dei ceti sociali meno abbienti.

Questi risultati indussero l’autore a definire regole di ricerca capaci di predire la performance effettive in una mansione e non distorte da pregiudizi. Le caratteristiche che, secondo McClelland dovevano possedere tali regole di ricerca erano:

1. Utilizzare campioni differenziati: confrontare gruppi di persone particolarmente produttive sul lavoro o di successo nella vita con persone meno brillanti, al fine di identificare per confronto, le caratteristiche associabili al successo; in questo modo si potevano individuare in modo chiaro quali fossero le competenze distintive per il raggiungimento di performance superiori nella mansione;

2. Individuare schemi cognitivi operativi e comportamenti causalmente correlati alla riuscita sul lavoro o nella vita. In altre parole le misure della competenza devono riguardare situazioni aperte a tutte le possibilità in cui l’individuo deve decidere autonomamente come comportarsi. Queste misure sono quindi differenti dalle misure di risposta come quelle che chiedono al candidato di definire se stesso scegliendo fra un certo numero di risposte già date, quella che meglio descrive la sua reazione a situazioni predefinite e opportunamente strutturate, situazioni che nel lavoro e nelle vita si presentano raramente.

Ma McClelland andò oltre la semplice formulazione del modello: era infatti il presidente e fondatore della società di consulenza McBer & Co., e questo gli diede l’opportunità di testare sul campo e di mettere alla prova le sue teorie. Infatti, agli inizi degli anni ’70, il Dipartimento di Stato Americano, si rivolse alla McBer & Co. per una consulenza sulla selezione e l’assunzione di funzionari Fsio (Foreign Service Information Officers) il cui compito era quello di rappresentare gli USA all’estero. Nel 1970 quasi tutti i Fsio erano maschi bianchi. Il Dipartimento di Stato aveva infatti sempre selezionato i Fsio tramite un apposito esame che aveva alcuni grossi difetti. Il primo era che a causa dei punteggi troppo elevati richiesti per superarlo, le minoranze e i gruppi sociali meno abbienti avevano scarse probabilità di riuscita. Il secondo, evidenziato da un rapporto curato dal dott. Kenneth Clark, era che il risultato dei test attitudinali e di cultura generale non predicevano il successo dei Fsio nella mansione:

“Un alto punteggio all’esame di inglese o anche nei test attitudinali non prediceva come se la sarebbe cavata in Etiopia un giovane Fsio!”

McClelland e la McBer & Co., decisero di applicare il nuovo modello a questo caso. Vennero quindi seguiti i seguenti passi di sviluppo:

Passo_1. Prima di tutto, si decise di usare un campione di elementi chiaramente migliori agli occhi di superiori, colleghi e degli stessi stranieri e un campione di confronto composto da elementi medi e o scadenti, che svolgevano il loro lavoro bene quanto bastava per non essere licenziati. La scelta dei gruppi fu domandata al Dipartimento di Stato.

Passo_2. Fu sviluppata una tecnica di intervista chiamata BEI – Behavioral Event Interview. Originariamente si pensò di osservare direttamente sul lavoro i funzionari dei due campioni, per scoprire che cosa facessero i migliori di più o di diverso dai mediocri. Questa soluzione si rivelò troppo costosa e poco pratica. Così si decise di chiedere a quei funzionari di raccontare dettagliatamente che cosa avevano fatto nelle situazioni più critiche incontrate nella loro mansione. La procedura BEI, che

analizzeremo in modo dettagliato nel seguito della trattazione, chiede ad un soggetto di descrivere sotto forma di racconto breve, tre grossi successi e tre grossi fallimenti. L’intervistatore pone domande quali:

Come si arrivò a quella situazione?

Chi vi era coinvolto?

Che cosa pensò, provò e decise di fare per risolvere quella situazione?

Che cosa fece effettivamente?

Che cosa accadde?

Quale fu l’esito dell’episodio?

Passo_3. A questo punto si analizzarono tematicamente i protocolli delle interviste per identificare le caratteristiche che distinguevano i due gruppi: in particolare i comportamenti osservati nei migliori e non presenti nei mediocri. Queste differenze tematiche vennero tradotte in valutazioni oggettive codificate tramite metodo CAVE. La codifica CAVE, infatti, consente ai ricercatori di misurare empiricamente e di testare statisticamente la significatività delle differenze fra le caratteristiche osservate negli elementi migliori e nei mediocri nelle loro varie mansioni.

Passo_4. L’ultimo passo fu la convalida del modello di competenza il che fu fatto in due modi. Prima furono identificati altri due campioni di Fsio e fu rifatta la procedura che portò alle stesse conclusioni, il che permise di convalidare le competenze che comparivano nei racconti delle BEI. Poi vennero usati altri metodi di misura delle competenze per vedere se il metodo era in grado di evitare pregiudizi di sesso, razza, religione.

Questa metodologia di lavoro, permise, agli psicologi, di compiere un notevole passo avanti nel loro lavoro di mettere la persona giusta al posto giusto. Nel metodo delle competenze, infatti, l’analisi comincia con la persona già nella mansione, e non presume quali caratteristiche siano necessarie per svolgere bene un certo lavoro. In questo modo si attribuisce

la massima importanza alla validità dei risultati, ovvero all’individuazione di “che cosa effettivamente causa la prestazione superiore in una determinata mansione”, validità che inoltre è sensibile al contesto, alla specifica organizzazione, alla specifica cultura. Per questi motivi la selezione basata sulle competenze si dimostrò in grado di predire la performance superiore e la sua continuità senza pregiudizi di razza, sesso o di altro genere.

Dal 1973, anno di pubblicazione dell’articolo di McClelland, ad oggi, il modello delle competenze è stato teorizzato in molteplici modi da diversi autori, molti dei quali sono stati analizzati nelle fasi iniziali dello svolgimento della tesi al fine di individuare il modello teorico di riferimento per il progetto. Nei prossimi paragrafi, introduciamo i modelli delle competenze così come sono stati teorizzati da:

1. William Levati e Maria V. Saraò nella loro opera “IL MODELLO

DELLE COMPETEZE: un contributo originale per la definizione di un nuovo approccio all’individuo e all’organizzazione nella gestione delle risorse umane.” Franco Angeli MILANO 1998

2. L. M. Spencer, S. M. Spencer nella loro opera “COMPETENCE AT

WORK: Models for Superior Performance” John Wiley NEW YORK 1982

Questi autori sono stati scelti, per la chiarezza e la completezza del loro lavoro, per la definizione del modello teorico di riferimento e per questo motivo ne introduciamo i contenuti nei seguenti paragrafi