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Quando Ippolito Pindemonte pubblicò la propria traduzione dell'Odissea, nel 1822, trovava compimento un'intensa opera di elaborazione poetica che aveva impegnato il traduttore per più di un quindicennio107 ed era stata anticipata, nel 1809, dalla pubblicazione dei soli primi due canti del poema108. A quest'opera è massimamente legata la fama e la fortuna del poeta veronese, il quale si era già intensamente dedicato al volgarizzamento dei classici nei decenni precedenti109, prima di cogliere la più alta sfida letteraria che il secolo XVIII aveva lanciato: la traduzione omerica. Pindemonte accompagnò la sua più che quarantennale attività di traduttore con una costante attenzione ai problemi teorici da essa implicati. In vari scritti di accompagnamento alle proprie o altrui traduzioni possiamo cogliere i nodi cruciali dell'impostazione adottata, e individuare una linea evolutiva che ha come sua ultima tappa proprio l'Odissea. Per Pindemonte gli studi letterari e lo stretto contatto con i classici sono una tradizione di famiglia: il prozio Marc'Antonio tradusse le Troadi di Seneca, la Batracomiomachia d'Omero e l'Argonautica di Valerio Flacco, mentre il fratello Giovanni realizzò una versione dei Remedia Amoris di Ovidio. All'eredità familiare si aggiunge il legame con esponenti di spicco del classicismo veronese quali Girolamo Pompei e Giuseppe Torelli. Verona inoltre era stata la patria di Scipione

107 Pindemonte dimostra un vivo interesse per l'Odissea già a partire dai primi anni del XIX secolo, ma intraprende la traduzione solo a partire dal 1806, pubblica i primi due libri nel 1809 e attende alacremente all'opera fino al 1818, quando può dichiarare di aver completato la traduzione; dopo tre anni di labor limae deciderà di darla alle stampe (cfr. M. GAMBARINI, Sull'Odissea di Pindemonte, «GSLI», CXLIV, 1967, pp. 292-94).

108 I.PINDEMONTE, Traduzione de' due primi canti dell'Odissea e di alcune parti delle Georgiche, Verona, Gambareti, 1809.

109 Queste sono le tappe fondamentali dell'attività di traduzione di Pindemonte, precedente all'Odissea: Berenice tragedia del signor Racine tradotta in versi italiani, Verona, Carattoni, 1775; Volgarizzamenti dal latino e dal greco del marchese Ippolito Pindemonte cavaliere di Malta e di Girolamo Pompei gentiluomini veronesi, Verona, eredi di Marco Moroni, 1781, in cui Pindemonte traduce Catullo, Orazio e Saffo; Volgarizzamento dell'inno a Cerere scoperto ultimamente e attribuito ad Omero, Bassano, Remondini, 1785.

Maffei, letterato di grande fama e attivo traduttore dei classici, il quale si dedicò con senno ed acume anche alla disquisizione sui criteri del tradurre, proponendo un paradigma che influenzò i contemporanei e le generazioni successive. Anche Pindemonte fu inizialmente legato a tale impostazione metodologica, che aveva trovato espressione nella prefazione al catalogo dei

Traduttori italiani110 di Maffei, opera realizzata con l'obiettivo di porre nel dovuto rilievo la tradizione di volgarizzamento dei classici greci e latini che si produsse in Italia a partire dal XVI secolo, e di proporre una trattazione specifica sui principi e i metodi della traduzione. Maffei individua due contrapposte modalità di traduzione, attribuendo peraltro ad esse una connotazione nazionale:

Ma quanto al paragone de' trasportamenti, era mio pensiero di trattar singolarmente del quasi doppio genio che corre nel tradurre, e delle due diverse idee che in certo modo distinguono i traduttori: perché altri poco altro cura, se non di fare un libro che da ogni sorte di persone della sua nazione con piacere e senza difficoltà si legga: onde a questo accomoda il suo stile, e non ha punto riguardo a mutar colore e né pure a render vocaboli e nomi con voci odierne, che non corrispondono o che impropriamente ad antichi autori si attribuiscono; altri all'incontro si studia d'insister sempre nel suo testo, e non solamente di rappresentar fedelmente i concetti, ma le parole ancora, e la misura e l'aria del dire e l'indole del suo autore. Generalmente parlando, inclinano alla prima strada i Francesi, e abbracciano gl'Italiani la seconda: in che veramente par che debbano questi anteporsi, poiché dalla fedeltà, dall'inerenza e dall'esattezza trae suo pregio più essenziale un interprete; e chi fa traslazione non par che debba studiarsi di lavorare una bella figura ma un bel ritratto.111

L'autore distingue dunque nettamente due «diverse idee», fra loro alternative, che determinano gli obiettivi e regolano i criteri della traduzione,

110 S. MAFFEI, Traduttori italiani o sia Notizia de' volgarizzamenti d'antichi scrittori latini, e greci, che sono in luce, Venezia, Sebastian Coleti, 1720. Notizie sull'origine del proposito di composizione dell'opera e sui relativi contenuti si trovano in G. P. MARCHI, Storia e tecnica della traduzione in Scipione Maffei in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto, (a cura di G. Coluccia, B. Stasi), Galatina, Mario Congedo, 2006, pp. 149-152.

riprendendo una dicotomia tradizionale che sarà a sua volta al centro della riflessione dei traduttori della seconda metà del secolo. Chi traduce secondo la prima di queste modalità concede netta priorità alla piacevolezza e godibilità del testo d'arrivo, venendo incontro al gusto letterario nazionale, anche attraverso scelte stilistiche modernizzanti, che in alcuni casi però rischiano di travisare il significato dell'originale. Una diversa concezione prevede, all'opposto, il più alto grado di aderenza al testo di partenza: non soltanto si richiede un trasferimento puntuale dei contenuti, nel rispetto del contesto storico-sociale e narrativo, ma si prevede pure una riproduzione del tessuto stilistico del testo, anche a livello metrico e lessicale, cercando di conservare il tono dell'elocutio. Una simile formulazione del problema prevede un'idea piuttosto stringente di fedeltà: essa non si applica soltanto ai significati del testo, ma riguarda anche la forma in cui essi si concretizzano. Posta la diversità sostanziale dei mezzi espressivi di una lingua rispetto ad un'altra – diversità ancora più evidente nel rapporto fra lingue antiche e moderne – questa impostazione predilige, per le traduzioni, una qualità verbale straniante, volta a sottolineare la distanza storico culturale e linguistica che separa il lettore dall'opera, rispetto ad una accomodante, ovvero volta ad avvicinare l'opera al gusto e alla sensibilità del lettore moderno. Maffei si professa dunque sostenitore di questa forma di fedeltà letterale, che egli ritiene propria dei traduttori italiani. Certamente molte versioni italiane dei classici non rispondono a un ideale di fedeltà così formulato e l'identificazione delle due diverse modalità di traduzione con l'attitudine francese o italiana potrebbe apparire un'indebita generalizzazione; tuttavia è opportuno riflettere più a fondo sulla questione e capire le ragioni che muovono Maffei. Il XVII secolo è stato per la Francia il periodo delle belles infidèles, prodotti esemplari di traduzione libera e attenta, prima di tutto, al pregio stilistico del testo di arrivo e al piacere del lettore. In Italia, al contrario, agli inizi del secolo XVIII, personalità quali Anton Maria Salvini e Scipione Maffei si levano quali illustri portavoce del partito della

fedeltà, trovando larga e positiva accoglienza presso accademici e letterati. L'ideale di una traduzione letterale, realizzata sulla base del principio di «inerenza», ovvero di rispondenza la più esatta possibile ai caratteri del testo di partenza, trova radicamento soprattutto in alcuni ambienti culturali, come ad esempio presso vari esponenti del classicismo veronese. Fra questi figura Ippolito Pindemonte, illustre erede di una famiglia da lungo tempo legata alla pratica letteraria e allo studio dei classici.

La prima attestazione dell'interessamento del poeta alle questioni teoriche e metodologiche riguardanti la pratica traduttiva proviene proprio dalla prefazione alla versione dell'Argonautica, realizzata da Marc'Antonio Pindemonte già nel 1730 e pubblicata dal nipote Ippolito nel 1776112. In questa sede il curatore dichiara il proprio ideale di «perfetta traduzione», riferisce alcune vicende riguardanti la realizzazione e il destino editoriale dell'opera e, prima di esaminare alcuni aspetti stilistici e contenutistici del poema latino, propone un confronto fra la traduzione dello zio e l'edizione milanese a cura di Massimigliano Buzio, inserita nella Raccolta di tutti gli

antichi poemi latini con la loro versione nell'italiana favella113; segue una Lettera

dell'editore sopra lo Stazio volgare di Selvaggio Porpora. I paratesti che precedono

e seguono la traduzione dello zio offrono una preziosa testimonianza, in merito alla traduzione letteraria, del pensiero di Pindemonte, allora ventitreenne, il quale ritiene

esser ardua, e difficil cosa una traduzione, qualunque siasi l'autore, e la lingua, da cui si trasporta. Io però, che che ne dicano gli altri, se per bella, e perfetta traduzione s'intende quella, che nulla toglie di sua bellezza all'originale, e tale veramente qual si è, con altra favella, lo mi rappresenta; io chiamerò sì fatta traduzione impresa più presto

112 L' Argonautica di C. Valerio Flacco volgarizzata dal marchese Marc'Antonio Pindemonte. Si aggiunge una lettera dell'editore sopra lo Stazio volgare di Selvaggio Porpora, Verona, Domenico Carattoni, 1776.

113 Raccolta di tutti gli antichi poemi latini con la loro versione nell'italiana favella, Milano, Giuseppe Richino Malatesta, 1731-1765, XXXVI tomi; la traduzione dell'Argonautica a cura di Don Massimigliano Buzio, del 1736, è contenuta nei tomi XIV e XV.

impossibile, che malagevole: lasciando sempre però fra tali lavori la prima lode a quello, nel quale l'autore avrà meno di se medesimo, e di sue fattezze perduto.114

La visione qui proposta non pare sostenuta da coerenza inoppugnabile e, come vedremo in seguito, le idee espresse non seguono una linearità evidente, bensì un percorso a tratti tortuoso al termine del quale al critico spetta il ruolo di trarre le somme. Fin da subito si percepisce la cautela con cui si muove l'autore, che evita affermazioni ardite o perentorie: sostiene per prima cosa la difficoltà insita nel tradurre, per poi riconoscere l'impossibilità di una traduzione che conservi appieno il valore estetico e le forme dell'originale. Sostenere che la migliore delle traduzioni è quella che riproduce con esattezza le fattezze del testo di partenza e lo rappresenta «qual veramente si è» significa affermare il valore di una traduzione letterale e conservativa; è qui possibile ravvisare un richiamo all'immagine usata da Maffei, quando sosteneva che la traduzione corrisponde non a figura d'invenzione bensì a un «bel ritratto». L'affermazione dei meriti di una riproduzione esatta e puntuale delle fattezze dell'originale è però puramente ipotetica, dal momento che tale modalità viene subitamente ritenuta «impossibile» e di fatto negata, in quanto alla sua piena realizzazione115. Nel proseguo della trattazione si apre un confronto fra alcuni passi dell'originale latino, la versione di Buzio e l'opera dello zio, in cui Pindemonte evidenzia interpretazioni erronee o incomplete, omissioni e aggiunte sconvenienti nell'edizione milanese, mentre le scelte dello zio sono spesso giustificate sulla base del proposito di ridurre l'oscurità del testo latino. Una liberà moderata nella traduzione è dunque ammessa, se la complessità del rapporto fra lingua di partenza e lingua d'arrivo lo richiede:

114 M. PINDEMONTE, Prefazione a L'Argonautica di C. Valerio Flacco volgarizzata, Verona, Domenico Carattoni, 1776, p. V.

115 Cfr. I. CALIARO, L’idea di traduzione di Ippolito Pindemonte, in Teoria e prassi della traduzione, Padova, Esedra, 2009, p. 71: «La traduzione «bella e fedele» è un'utopia, un valore inattingibile, cui ci si può solo approssimare, in una tensione poeticamente e linguisticamente feconda».

La maniera di scrivere rotta forse un po' troppo, e concisa di Valerio Flacco, […] non so di vero, se da conservarsi era nell'Italiana favella, e se la natura di questa lingua in pace sofferto avrebbelo. Senza che una traduzione affatto inerente d'un tal poeta, non l'ineleganza soltanto, ma seco recar potrebbe eziandio parte di quella oscurità, che tutto cinge d'intorno l'autor latino. Or che si direbbe di una traduzione oscura? Virgilio, il cui stile è molto meno ristretto, e tanto più chiaro, poteva forse venir trasportato con fedeltà rigorosa, [...] e pure il Caro, che con arbitrio grandissimo già lo tradusse, non solamente non fu biasimato, ma laude meritò somma ed applauso.116

Pindemonte è consapevole di quanto il «genio delle lingue» incida sui criteri e i metodi della traduzione, poiché ogni singolo idioma è dotato di specifiche potenzialità ed esigenze espressive; a ciò si aggiunge la peculiarità stilistica di ogni autore, che deve in qualche modo essere trasferita o assorbita nella lingua d'arrivo. Alcuni stilemi potranno dunque essere riprodotti fedelmente, mentre altre tendenze linguistiche, quali la sinteticità o l'estrema densità, richiederanno uno specifico trattamento, in modo che la lingua della traduzione non ne risulti appesantita o difficilmente intelligibile. Pertanto, nel caso dell'Argonautica, gli usi linguistici propri dell'autore latino sconsigliano una fedeltà puntuale alla lettera del testo, in quanto una «traduzione affatto inerente» risulterebbe «inelegante», quindi esteticamente inadeguata, oltreché oscura. Come possiamo osservare l'adesione di Pindemonte ad un ideale di traduzione letterale non è, fin dagli scritti giovanili, né totale né incondizionata; il poeta è ben consapevole della complessità insita nella pratica traduttiva e della varietà delle problematiche proposte, evita pertanto forzati schematismi e riconosce la necessità di un trattamento specifico per una determinata opera o autore. Il successivo riferimento all'Eneide di Annibal Caro – immancabile termine di confronto per i traduttori neoclassici – ha poi una notevole portata sul piano teorico e

116 I.PINDEOMONTE, Prefazione a L' Argonautica di C. Valerio Flacco volgarizzata dal marchese Marc'Antonio Pindemonte, Verona, Domenico Carattoni, 1776, pp. XVI- XVII.

rivela un'aporia nello sviluppo argomentativo. La traduzione di Caro è infatti nota per l'alto grado di libertà e per la scarsa aderenza alla lettera del testo virgiliano; ad essa Pindemonte si riferisce senza alcuna nota di biasimo, legittimando di fatto il valore, o per lo meno l'ammissibilità, di una traduzione artistica, ben distante dal principio di inerenza inizialmente propugnato.

Dettagliate specificazioni in merito ai confini della libertà concessa al traduttore provengono dalla lettera a Giuseppe Torelli, posta a margine della traduzione dell'Argonautica, in cui Pindemonte raccoglie le proprie osservazioni sulla traduzione della Tebaide ad opera del cardinale Cornelio Bentivoglio, sotto lo pseudonimo di Selvaggio Porpora117. Sebbene la versione di Stazio avesse ricevuto una accoglienza generalmente positiva, l'opinione del recensore è decisamente critica: le bellezze del testo d'arrivo passano in secondo piano di fronte alla scarsa aderenza alla forma e alle immagini dell'originale118. Attraverso una comparazione diretta, limitata al primo libro, del testo italiano con quello latino Pindemonte mette in evidenza vari casi di mancata corrispondenza, sia a livello delle sentenze, e dunque dei contenuti, sia a livello formale. Egli tuttavia tiene a sottolineare che non una fedeltà rigorosa e integrale si pretende dal traduttore e «qualche libertà suol concedersi a chi traduce, ed io son forse d'ogni altro più liberale in proposito d'un tale arbitrio». I limiti di questa liberà sono poi specificati: sarà possibile «aggiungere» o «levare» qualche cosa, purché le aggiunte non producano un effetto deformante e le omissioni non riguardino elementi essenziali o bellezze non trascurabili. Tali interventi, che prevedono un allontanamento almeno parziale dal testo nella sua lingua primigenia, sono ammissibili

117 La Tebaide di Stazio, volgarizzazione di Selvaggio Porpora, Roma, Giovanni Maria Salvioni, 1729.

118 «Io per me credo, che la più parte de' leggitori dall'armonia de' versi rapita, ed abbagliata dallo splendore delle parole, abbia tosto fatti gli applausi grandissimi, senza poi considerare gran fatto, come renduti vengano i sentimenti, o sentenze che vogliam dire, dell'originale; e qual ne sia veramente la locuzione, ed il numero» (I. PINDEOMONTE, Prefazione a L' Argonautica di C. Valerio, cit., pp. 575-576).

soltanto se vi sia una valida motivazione, «la quale può derivare dalla lingua, o dall'andamento del verso», ovvero dalle esigenze metriche e formali della lingua d'arrivo; all'opposto la modifica delle immagini, dei sentimenti, e dunque del significato, causata da una mala interpretazione del testo è «ciò che rigorosamente si vuol proibire». Come già affermato, l'andamento argomentativo di questi paratesti pindemontiani non appare lineare ma piuttosto ondulatorio, così che alle aperture ad una misurata libertà del traduttore, almeno per quanto concerne la forma, segue una riaffermazione del principio di fedeltà letterale, chiaramente espresso:

esser opera, e fine primo del traduttore di far così, che il poeta cambiando veste il meno cambi, che possibil sia, di sue primitive fattezze. Per conseguir ciò egli non basta, che rendute vengano con rigorosa fedeltà le sentenze; ma convien anco, che le parole, ed il numero vi concorra, ed in ciò s'adopri massimamente. […] Volendosi significar con ciò, che la locuzione, ed il verso esser deve corrispondente ed adatto all'original suo non meno che le sentenze […]. Saranno armoniosi, io già nol nego, i suoi versi, ed ancora degni di molta lode, se considerar si vogliono in se medesimi solamente, non così forse se a fronte sono posti dell'originale.119

Oltre a ribadire l'opportunità di conservare il più possibile le fattezze dell'originale, attraverso la consueta immagine delle vesti apposte al corpo, il letterato veronese si spinge ad auspicare delle corrispondenze anche a livello metrico, retorico, e linguistico in senso lato. L'armonia e i pregi del testo d'arrivo non sono dunque sufficienti ad affermare la bontà dell'operazione, che può essere stabilita soltanto attraverso un confronto con l'originale; il che corrisponde ad una negazione di fatto dell'autonomia estetica delle traduzioni. Poco oltre, a dimostrazione della tesi sostenuta, Pindemonte cita Annibal Caro come esempio di traduttore capace di conservare abilmente le forme del poema virgiliano120. Ovviamente non può che stupirci il

119 Ivi, pp. 597-598.

riferimento ad un traduttore generalmente – e da lui stesso – considerato modello di una traduzione libera e aggraziata, soprattutto in considerazione del fatto che, a fronte di un effettiva riproduzione di alcuni stilemi virgiliani, Caro si permette cospicue variazioni, anche a livello delle immagini. La parte conclusiva della lettera a Torelli riguarda il metro delle traduzioni e comprende considerazioni piuttosto calzanti: Pindemonte ritiene necessario, nell'uso dell'endecasillabo sciolto, variare continuamente il ritmo dei versi, attraverso inarcature e un'appropriata disposizione degli accenti. L'obiettivo e quello di evitare la monotonia che potrebbe generarsi in una «lunga testura di versi sciolti», come nel caso della traduzione di Bentivoglio; obiettivo pienamente raggiunto da Annibal Caro, i cui endecasillabi hanno valore esemplare.

La prefazione all'Argonautica e la lettera a Torelli si dimostrano dunque documenti preziosi per comprendere le idee giovanili di Ippolito Pindemonte in merito allo stile poetico e alla traduzione, sebbene la proposta teorica non appaia nitida. L'opportunità di una traduzione perfettamente letterale, che rispetti non soltanto i contenuti ma anche i tratti stilistici dell'originale, è affermata a più riprese; al contempo tale risultato, nella sua integrità, è ritenuto impossibile e non mancano evidenti aperture ad una moderata liberà del traduttore, per lo meno in relazione alle esigenze della lingua d'arrivo. Da un lato il giovane letterato risente dell'ambiente culturale e dei modelli che lo circondano, e lo spingono a sostenere il valore dell'«inerenza», dall'altro il problema del «genio delle lingue» e la ricerca di uno stile poetico vario e raffinato rendono l'adesione al «partito della fedeltà» soltanto parziale fin da queste prime attestazioni, in cui già troviamo, in nuce, le premesse al futuro mutamento di prospettiva.

A cinque anni di distanza, nel 1781, Pindemonte pubblica con Girolamo Pompei i Volgarizzamenti dal greco e dal latino, in cui compaiono, in

nell'immortal suo lavoro di conservare l'espressione stessa dell'originale, per quanto comportare il potevano le parole della sua lingua, mentre ognun sa, che una lingua atta è più ad esprimer le cose, ed un'altra meno» (ivi, p. 600).

versi italiani, Le nozze di Teti e di Peleo e l'Epitalamio di Catullo, l'Ode a Lice

invecchiata di Orazio e l'Ode a Venere di Saffo. Precede i componimenti una

breve Prefazione, in cui Pindemonte ritorna sul metodo della traduzione e afferma:

Fra queste [regole] io sempre riposi una discreta inerenza, come e nel Poemetto, e nell'Epitalamio di Catullo, amendue in verso sciolto recati, ciascun può vedere. Nondimeno vedrassi ancora nell'Ode di Orazio ch'io non disprezzo una maniera diversa, avendo io questa con grande libertà trasportato.121

Al poeta è chiaro che un principio generale, come quello dell'inerenza, non può essere applicato indistintamente ad ogni opera e ad ogni autore: le