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I L PALAZZO O RSINI A C AMPO DEI F IOR

2. Jean Boulanger nel Palazzo Ducale di Sassuolo

Nell’Idea di prencipe et eroe christiano, voluta nel 1659 da Alfonso IV per commemorare il padre defunto, il gesuita Domenico Gamberti ricordava la costruzione

del Palazzo Ducale di Sassuolo come esempio della virtù della Magnificenza106. Come

ogni virtù del principe eroe cristiano canonizzata da Gamberti e incarnata nella vicenda biografica di Francesco I, anche la Magnificenza permetteva di guadagnare quella reputazione che assolveva al duplice compito di avvicinare l’umano al divino e di assicurare il favore dei sudditi. Guidato dalla virtù nella sua azione di governo, il principe otteneva una duplice legittimazione del proprio potere, ovvero da Dio e dal popolo. La Magnificenza non sfuggiva a questa logica che, in ultima istanza, si appellava alla moralità del principe, come ormai da tempo teorizzato da quella corrente

del pensiero politico cristiano che va sotto il nome di antimachiavellismo107. Gamberti,

nel concepire gli exempla della Magnificenza di Francesco I, seguì la scia del movimento che già nel Cinquecento, rispolverando l’ideologia scolastica, impugnò i principi morali cristiani contro la dissacrante critica di Machiavelli. Campioni di

questa nuova concezione furono soprattutto i gesuiti, specialmente in Spagna108, ma

non mancarono eruditi italiani che si pronunciarono in favore di una nuova ‘ragion di stato’. Era questo il caso del veneziano Paolo Paruta, storiografo pubblico della Serenissima che, nel 1579, pubblicava a Venezia la prima edizione Della Perfettione della vita politica. L’opera riportava fedelmente l’animata discussione che aveva coinvolto una quindicina di persone nell’estate del 1563, a chiusura dei lavori del Concilio di Trento, e ribadiva il primato della buona politica, quella basata sul buon governo dell’uomo la cui la volontà è indirizzata al bene dalla «ragione» e dall’«appetito». Tra le nobili virtù dei governanti figurava anche la Magnificenza, che, a parere dell’autore,

106 GAMBERTI 16592, pp. 217-218. 107 LAVIN 19982, pp. 34-35.

108 Gamberti e la sua produzione letteraria al servizio degli Este saranno specificamente affrontati nel capitolo V, qui si vuole rimarcare la discendenza della virtù della magnificenza dalla corrente dell’antimachiavellismo.

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non ha occasione di spesso dimostrarsi; ma in quelle cose solamente si adopera, le quali rare volte si fanno; come sono i conviti, le nozze, le fabriche; ove conviensi spendere senza havere consideratione alla spesa, ma solamente alla grandezza, et alla bellezza dell’opra: peroché di rado ci viene occasione di spendere in così fatte cose. Et sotto a quelle, ch’io dissi più generali, ponno ridursi tutte l’altre anchora, come feste, giuochi publici, livree, edificationi de’ tempi, de’ palazzi, o d’altri edificii privati, o publici: le quali cose, se hanno del grande, et se fatte sono con nobile apparecchio, et con decoro conveniente, rendono l’huomo veramente degno del nome di magnifico109.

Per quanto feste, palazzi, templi spettassero, in ultima istanza agli artisti, Paruta ribadiva la precedenza della virtù morale del governante, essenziale per ben guidare la loro opera e poteva così contare, tra gli esempi della Magnificenza, «diverse

nobilissime fabriche con deliciosi giardini da’ moderni fondate»110. In queste delizie

l’«honorevolezza» si accompagnava al piacere e alla necessità, criteri che ricompaiono anche nelle pagine dell’Idea che Domenico Gamberti dedicava alla «fabrica veramente Reale di Sassuolo»111. Il palazzo sorgeva tra colline feconde e fruttuose, ed era «ricevuto da una piazza proportionata, che gli fa degno teatro», fiancheggiato da pianure fiorite e da «gratiosi colli, dilettevoli alla vista, ed utili alla coltura». A volo d’uccello Gamberti descriveva «l’esteriore facciata di tutto l’edificio» che sorgeva «presso il braccio ondoso del fiume Secchia», e riferiva l’incanto dei giardini capricciosi, dove si ammiravano le varie fogge delle fontane, «gli ameni ripartimenti de’ boschetti, e lunghe strade, cinte da ombrose spalliere», «le pergolate de’ Giardini, e le fila de’ Cedri che circondano l’ampio cortile», «le statue or gigantesche, or di ordinaria statura, che acconciamente il popolano». Nelle parole del gesuita, il Palazzo Ducale di Sassuolo assurgeva a prova della magnificenza a scapito del «Ducale Palagio» di Modena, opera che, per quanto in pianta già dimostrasse «il corpo di un gran Colosso», era deliberatamente tralasciata perché «solo principiata». La delizia sassolese, in effetti, deve essere intesa come il manifesto più rappresentativo della

109 PARUTA 1599,pp.282-283.Cfr. Gino BENZONI, Paruta, Paolo, in DBI, vol. 81, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014, pp. 482-486.

110 Ibidem, p. 287. E alla pagina seguente: «Però chiunque aspira alla vera lode della magnificenza deve non meno usare il consiglio della ragione, che si convenga fare in qual sia altra virtù. Onde con tale scorta la magnificenza sempre ci condurrà all’honeste operationi».

187 politica artistica di Francesco I, l’unico interamente completato e a cui fu totalmente delegata l’immagine del suo governo112. La trasformazione della rocca sotto il suo

ducato comportò l’allestimento di un costosissimo cantiere, l’assunzione di maestranze tra le più qualificate, la ricerca di artisti che mettessero in opera un complesso programma celebrativo, tutti aspetti che fanno del palazzo l’espressione più alta del disegno politico di Francesco I, mosso da un’ossessiva quanto urgente ansia di «reputazione», una prova ‘magnifica’ che permettesse al piccolo ducato estense di

riguadagnare prestigio nello scacchiere europeo dopo l’umiliante perdita di Ferrara113.

Ne era ben consapevole Gamberti che decantava la delizia come perfettamente corrispondente «a’ lumi Serenissimi» ed il cui progetto era ricondotto proprio a Francesco, «il quale l’ha colle linee della sua verga d’oro splendidamente

disegnato»114. Alla prosa concettosa del gesuita faceva eco la vivida scenetta incisa ad

accompagnamento della virtù (fig. 26), dove il duca è rappresentato intento a valutare il progetto in compagnia dei suoi architetti, mentre sul fondo le brulicanti maestranze sono impegnate sui ponteggi della nuova facciata, in ossequio alla plurisecolare iconografia che faceva del cantiere il simbolo per eccellenza della magnificenza

costruttiva del signore115. Gamberti elencava poi «le dipinte Gallerie, le gran Sale, e

vaghe fila di Camere, in alcune delle quali ò gli storiati fregi, messi in oro di basso rilievo, co’ pavimenti lastricati di mischia pietra, ò gli sforzi di eccellenti pennelli avanzano le ricchezze degli addobbi, che in altre si ammirano». Degli interni Gamberti riferiva sommariamente la «Ricchezza delle pitture del Palagio» e di tutte le pitture

112 Vincenzo VANDELLI, Da castello a delizia, in TREVISANI 2004, pp. 21-38. Il concetto era già stato sostenuto dall’autore in un contributo precedente: «Non ancora disponibile la reggia modenese, è proprio nella delizia sassolese, dove i lavori risultano assai più rapidi, che si rintraccia il programma politico e l’idea di “reputazione” del Principe Estense» (Vincenzo VANDELLI, L’«immagine» del

principe d’Este nella facciata della delizia di Sassuolo: iconografia, autori e materiali, in FAGIOLO, MADONNA 1992, p. 611). E ancora, la trasformazione della rocca è intesa come «la materializzazione, immediatamente percepibile, della politica dell’immagine voluta da Francesco I».

113 VANDELLI 1999.

114 GAMBERTI 16592, pp. 217-218 (anche per le citazioni seguenti).

115 Ripa (Della novissima iconologia 1625, pp. 405-406) aveva canonizzato l’allegoria della Magnificenza con l’attributo di «una pianta di sontuosa fabrica». Il suo effetto «è l’edificar templi, palazzi, et altre cose di maraviglia, e che riguardano o l’utile publico, o l’honor dello stato, dell’imperio, e molto più della Religione, et non ha luogo quest’habito se non ne Principi grandi, e però dimanda virtù heroica, della quale si gloriava Augusto, quando diceva haver trovato Roma fabricata de’ mattoni, et doverla lasciar fabricata di marmo». Il cantiere, che riemerge tanto nelle illustrazioni dell’Idea di Gamberti che nelle scene dipinte da Boulanger a Sassuolo, è un topos iconografico impiegato a scopo celebrativo fin dal XIV secolo. A questo proposito si vedano i contributi di BARAGLI 2003 e MARCONI

188 menzionava solamente la «Galeria, in cui finge il pennello bellissimi Arazzi di Fiandra», ovvero la Galleria di Bacco, citata anche nell’elogio in latino che chiude

questa dimostrazione ducale di magnificenza116. Questo ambiente del palazzo, tra gli

ultimi dipinti da Jean Boulanger, era assunto a metonimia della ricchezza decorativa

degli interni. Prima di lui, già Scannelliaveva citato il «Palazzo di Sassuoli» come il

luogo in cui il curioso osservatore avrebbe potuto conoscere la maestria del pittore francese, «massime nella Galeria», ornata «di diverse belle figure ad ogni veduta, ed altri laudabili adornamenti» e con lui la storiografia artistica del Sette e dell’Ottocento

avrebbe saldamente associato il nome dell’artista francese a quell’ambiente117. A

parere di Giuseppe Fabrizi, autore nel 1784 della prima descrizione a stampa del palazzo, Boulanger «in questa Galleria superò se stesso, e senza tema di errore può

asserirsi essere il suo Capodopera»118.

Nell’affrontare la decorazione pittorica della Galleria di Bacco, contrariamente a quanto fatto finora, non si può prescindere dall’architettura dell’ambiente e,

specialmente, dalla sua funzione119. La galleria, lunga 29 metri e larga 7 (figg. 27, 28),

si iscrive in un sapiente e calibratissimo programma celebrativo che si affidò in primis all’architettura e solo in seconda istanza alla pittura120. L’iconografia stessa delle sale,

di cui Boulanger fu interprete assoluto, discende dal calcolo distributivo degli ambienti, dalla loro definizione nello spazio della rocca e dal loro ruolo nel cerimoniale ducale che qui, per la prima volta dai tempi ferraresi, arrivò a maturazione, riflettendosi perfettamente nella pianta della delizia e rispondendo a nuove esigenze di rappresentanza. D’altro canto la precedenza dell’ars aedificatoria e la sua rilevanza nella politica artistica di Francesco I in quanto strumento ‘principe’ della magnificenza

116 GAMBERTI 16592, p. 218: «Quin immo Franciscus Aedes basilicas suae Gloriae fecit Oracula, / Quibus aurum lucem attulit, Pictura linguam, / Nomen Conditoris Aeternitatem. / Ita splendide personam veritatis obduxit fabualae, / Ut marmoris exotici maculas, et Belgica texta vix laudet, / Quia ficta coloribus aulaea spectaverit». Traduzione: «Che anzi Francesco fece templi e basiliche oracoli della sua gloria, con i quali l’oro portò la luce, la pittura portò l’eloquenza, il nome del fondatore portò l’eternità. Così splendidamente condusse la figura della verità del racconto, che a stento [lo spettatore] loda le macchie del marmo straniero e gli arazzi di Fiandra, poiché avrà mirato i sipari finti a colori».

117 Per la cronologia delle sale, di cui si ripercorreranno gli elementi che ne hanno permesso la datazione, si veda: PIRONDINI 1969, pp. 20-22.

118 SCANNELLI 1966,p.370;FABRIZI 1784, p. 54. 119 VANDELLI, op. cit., in TREVISANI 2004, p. 31.

189 ducale erano rimarcate a Sassuolo già in facciata, dove entro nicchie albergavano le due monumentali statue dell’Architettura Civile e dell’Architettura Militare, di cui non

restano oggi che cumuli di macerie (figg. 29-30)121.

«Una pianta da indovinarla»: origine e funzione della galleria sassolese

Le scelte in campo architettonico del giovane Francesco I avanzano in parallelo al progressivo consolidamento politico dello stato, rafforzato da accorte politiche matrimoniali. In quest’ottica sono da intendersi i primi progetti estensi di Girolamo Rainaldi (1570-1655), il celebre architetto romano richiesto da Francesco I a Odoardo Farnese nel 1631, anno in cui il duca di Modena sposava la sorella di lui, Maria Farnese. Rainaldi fu impiegato nell’ammodernamento del Palazzo Ducale di Modena, la cui costruzione era stata bruscamente interrotta dalla peste del 1630, e per la progettazione del giardino ducale in collaborazione con l’ingegnere reggiano Gaspare

Vigarani122. Le soluzioni sperimentate alla corte farnesiana da Rainaldi si

arricchiscono nella residenza ducale di Modena di contaminazioni spagnole, dall’Alcazar di Madrid in particolare, come dichiarava lo scalone che, già presente nei disegni di Antonio Vacchi, viene ad assumere una monumentalità senza precedenti. Questo accadeva proprio nel momento in cui Modena coglieva i frutti della sua

121 L’iconografia delle due sculture era ben chiara a CODEBÒ (1662-74, c. 5v: «e di sotto verso il piano terreno due grandi statue laterali, una rappresentante l’Architettura civile, l’altra la militare») e a PANELLI (1722, c. 2r: «Parimente l’altre due statue, che sono nella facciata, una delle quali rappresenta l’Architettura Militare, e l’altra Civile sono dello stesso scultore»). Le due statue in stucco su un nucleo in laterizio erano dedicate a Borso d’Este (quella militare) e a Francesco I (quella civile), come chiarito da Lidia RIGHI GUERZONI (La scultura a Modena nel Seicento: collezionismo e commissioni ducali, in SPAGGIARI,TRENTI 2001, vol. I, pp. 335-336) sulla base di due descrizioni contenute in ASMo, Archivio

per materie, Arti Belle, Cose d’Arte, b. 19. Le statue sono citate anche da Monica ZAMPETTI (2010,pp. 617-622) che le intende come incipit dell’elogio dinastico intessuto nella delizia e a partire dalla sua facciata. Dello stesso avviso era Vincenzo VANDELLI (1992, p. 618), che attribuì l’esecuzione delle due statue a maestranze locali dirette dal romano Lattanzio Maschio.

122 Alice JARRARD, La residenza tra castello e palazzo, in CONFORTI, CURCIO,BULGARELLI 1998, pp. 99-123 e EADEM 2003, pp. 99-106. Sul tema si veda: Vincenzo VANDELLI, Gaspare Vigarani: la

“prospettiva nuova” dei giardini ducali di Modena e la Grande Peschiera della reggia di Sassuolo, in

BARICCHI,DE LA GORGE 2009, pp. 44-61. Per i rapporti tra la corte ducale e Rainaldi si veda anche: Sonia CAVICCHIOLI, Considerazioni sugli interessi artistici di Francesco I attraverso la corrispondenza

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alleanza con la Spagna ottenendo il ducato di Correggio123. Nel 1634 la chiamata di un

secondo architetto romano, Bartolomeo Avanzini, conferma l’urgenza della costruzione di una reputazione e l’avvio di nuove ricerche di grandiosità edilizia124. Nominato architetto civile a soli ventisei anni, dopo una formazione presumibilmente nei cantieri maderniani a fianco di Gian Lorenzo Bernini, Bartolomeo Avanzini è subito inviato a Sassuolo per l’avvio dei lavori che avrebbero trasformato la rocca duecentesca nel più maturo e ‘delizioso’ frutto dell’architettura residenziale patrocinata da Francesco I125.

Rispetto alla rallentata gestazione progettuale del castello di Modena126, i lavori di

rifacimento della rocca sassolese avanzano speditamente. Il cortile è assunto a punto nevralgico dell’intero riammodernamento, come più tardi sarebbe accaduto anche a Modena. Nel riassetto dell’Avanzini, il cortile della rocca, un bisquadro irregolare formato dai corpi di fabbrica che si erano aggiunti dal Quattrocento, è posto in comunicazione con l’esterno attraverso un calcolato gioco di spazi. L’architetto crea una piazzetta di fronte alla facciata principale e su di essa fa convergere un nuovo viale d’ingresso, realizzato attraverso la demolizione delle preesistenti strutture del borgo. La facciata, posta alla fine del viale, viene così assunta a vera e propria quinta teatrale

concepita secondo la logica centralizzante dell’arte barocca (fig. 31)127. Il fondale è

studiato per apparire gradualmente attraverso il viale e la piazzetta, punto di raccordo tra il palazzo e il paese. L’osmosi tra l’interno e l’esterno del palazzo è garantita dai tre monumentali fornici che, al centro della facciata, permettono al viale d’accesso di proseguire visivamente attraverso un piccolo atrio che conduce al cortile. Il punto di

123 Sergio BERTELLI, Modena: una corte barocca, in CORRADINI,GARZILLO,POLIDORI 1999, pp. 149- 163.

124 Per Bartolomeo Avanzini si veda: Vincenzo VANDELLI, Bartolomeo Avanzini «Architetto di sua

Altezza Serenissima il Duca di Modena». Le difficoltà di una biografia, in CASCIU,CAVICCHIOLI, FUMAGALLI 2013, pp. 97-115, con bibliografia precedente.

125 Vincenzo VANDELLI,Dalla rocca al palazzo: la costruzione seicentesca e le trasformazioni del

XVIII secolo, in PIRONDINI 19822, pp. 20 e p. 38, nota 19, dove si ricorda che Bartolomeo Avanzini risulta registrato nella bolletta dei salariati ducali il 9 aprile del 1634 con provvigione di dieci ducatoni d’argento al mese e operante a Sassuolo

126 Si ricorda che i progetti per la riqualificazione del Palazzo Ducale di Modena furono consegnati dall’Avanzini nel 1650, quando l’architetto aveva maturato «nuovi pensieri» dopo un soggiorno nella città natale. I palazzi romani rappresentavano il necessario termine di paragone nella riconfigurazione della struttura modenese e a ribadirlo fu la scelta di sottoporre i disegni dell’Avanzini al giudizio dei più importanti architetti attivi nell’Urbe, ovvero Bernini, Borromini e Pietro da Cortona. A questo riguardo si vedano: i contributi di Alice JARRARD e Tod Allan MARDER in CONFORTI, CURCIO, BULGARELLI 1998, pp. 125-137.

191 fuga, attentamente calcolato, converge sulla statua del Dio Marino collocata al centro del lato occidentale del cortile ed eseguita sul noto modello di Antonio Raggi (fig. 32)128.

La regolarizzazione architettonica perseguita dall’Avanzini si traduce in facciata nella distinzione netta dei piani attraverso cornici marcapiano e nell’impiego di lesene laterali a bugnato per suggerire all’esterno l’esistenza di maniche interne. L’impaginato è animato da elementi decorativi ad alto rilievo e, nel piano terra, da due portali a nicchia129. La normalizzazione è affidata anche alle pitture, in gran parte perdute, eseguite da Agostino Mitelli e Angelo Michele Colonna sulle pareti del cortile e dello scalone130. Quest’ultimo, accessibile dall’atrio, è impostato su una doppia rampa e arieggiato dai trafori, secondo una soluzione altamente scenografica che lascia intendere una collaborazione dell’Avanzini con il più abile Gaspare Vigarani, geniale inventore di macchine teatrali. Lo scalone offre poi un accesso diretto alla galleria

posta al piano nobile, perno dell’intera struttura e «matrice del nuovo impianto»131. Lo

studio della galleria è testimoniato da un disegno (fig. 33), unico frammento superstite dell’intensa fase progettuale, che documenta la porzione più interessante dell’intera

risistemazione planimetrica e cioè il sistema dell’atrio-scalone-galleria-salone»132.

La nuova galleria sorge su un ambiente precedente, concepito quando il castello era

ancora residenza della famiglia Pio di Carpi133. I più recenti restauri hanno evidenziato

128 Sull’argomento si veda: Andrea BACCHI, Sculture e apparati decorativi, in TREVISANI 2004, pp. 41-54.

129 VANDELLI, op. cit., in FAGIOLO,MADONNA 1992, p. 611

130 Per la decorazione del cortile e sull’iconografia originaria delle pitture eseguite da Colonna e Mitelli, su cui si tornerà in seguito, si rinvia a LucianoSERCHIA, L’architettura del cortile, in Restauri

a Sassuolo 1982, pp. 13-18; Cristina ACIDINI LUCHINAT, La prima decorazione del cortile, in Ibidem, pp. 19-27; MATTEUCCI 1991 e MATTEUCCI 1993. Per i due quadraturisti, celebri allievi di Girolamo Curti detto il Dentone si rinvia a FEINBLATT 1992.

131 VANDELLI,op.cit., in PIRONDINI 19822, p. 20.

132 VANDELLI,op.cit., in PIRONDINI 19822, p. 20. La pianta è conservata in ASMo, Mappario Estense,

Fabbriche, n. 107. Essa presenta sul retro la scritta «Pianta da indovinarla». A matita, con grafia non

coeva, sono riportate alcune indicazioni sugli ambienti riportati in pianta, ovvero «Galleria di Bacco», «Cortile», «Gran Sala», oltre a una scala. L’attribuzione del progetto all’Avanzini è avanzata dubitativamente.

133 Il feudo di Sassuolo, nel 1499, fu permutato da Ercole I con una porzione del territorio di Carpi, passando così alla famiglia Pio, dopo oltre un secolo di dominazione estense (dal 1373, per esattezza, quando gli Este cacciarono i Della Rosa). Con Giberto II dei Pio, la rocca fu oggetto di un’ampia campagna decorativa, il cui maggior vanto fu l’ingaggio di Nicolò dell’Abate per alcune pitture nell’appartamento d’Orlando, pitture andate perdute (cfr. MANCINI 2000 e MAZZA 20002). Ultimo Pio a governare su Sassuolo fu Marco, morto casualmente nel 1599 dopo essersi recato a Modena a colloquio con il suo signore, il duca Cesare, da poco orfano di Ferrara (Massimo PIRONDINI, L’antica

192 che la ristrutturazione dell’Avanzini, su questo lato della vecchia rocca, comportò un ampliamento di una galleria preesistente e un suo abbassamento, nel generale

inglobamento delle vecchie strutture nella nuova facciata134. Sotto agli attuali

Appartamenti del Duca (Camera dell’Aura, dell’Alba e della Notte) è stata infatti rinvenuta la cortina merlata dell’antico castello che, all’origine, era sormontata da un camminamento di ronda protetto da una merlatura (figg. 34, 35). Rispetto alla quota originaria di questo camminamento il piano è stato abbassato di circa 90 centimetri e l’intervento è confermato anche dalle istruzioni che l’Avanzini lasciava al capocantiere il 7 gennaio 1640135.

Con ogni probabilità la Galleria di Bacco è dunque frutto della ridefinizione di quella che un inventario del 1600 descrive come «Galeria delle Statue»136. Per quanto la decisione di salvaguardare la galleria preesistente rientrasse nella logica generale del progetto dell’Avanzini, vincolato a conservare il più possibile dell’esistente per ridurre

tempi e spese137, non si spiegano però il suo ampliamento e la scelta di risparmiarla

dal frazionamento in camerini, che sarebbero perfettamente rientrati nell’enfilade degli appartamenti privati, secondo un canone distributivo adottato nel Palazzo Ducale di

Modena138. Rispetto a quest’ultimo, dove si preferirà la successione di camere e

anticamere secondo un percorso di parata, la Galleria di Bacco si distingue, rimanendo un caso del tutto isolato in terra estense per la funzione che è chiamata a svolgere nella

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