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1.2 Mesoamerica ispanica

2.1.1 José María Arguedas

L’opera più significativa del peruviano José María Arguedas, è Los ríos

profundos (1958) nella quale approfondisce i temi affrontati in Agua (1935)

e Yawar Fiesta54 (1941).

L’opera è strettamente connessa alla sua esperienza autobiografica: rimasto orfano di madre all’età di due anni, Arguedas trascorse molto

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tempo in una comunità indigena alla quale era stato affidato da suo padre, un avvocato di provincia.

Imparò il quechua prima del castigliano, divenne un esperto della musica, del canto e dei costumi indigeni, e all’inizio della sua carriera pubblicò un’antologia della lirica quechua.

Pur considerando la tradizione autoctona come l’autentica cultura peruviana, tutte le sue opere in prosa, a differenza di quelle in verso, non furono scritte in quechua, lingua esclusivamente orale, ma in castigliano.

Nelle opere successive ai racconti di Agua, considerati fallimentari per l’uso dello spagnolo letterario, utilizzò un “castigliano speciale” cercando di rendere la musicalità e i significati della lingua indigena e introdusse, inoltre, poesie e canti in quechua, tradizionali o scritti da lui stesso.

La triste osservazione di un paese diviso in due culture, la quechua e la europea, è accompagnata, in tutte le sue opere, da un costante desiderio di un’unione armonica tra esse.

Il protagonista del romanzo Los ríos profundos – alter ego dell’autore – è Ernesto, un ragazzo di quattordici anni, allevato dai quechua, che “ritorna” al mondo dei bianchi quando il padre, avvocato, decide di “educarlo” lasciandolo in una scuola-convitto di Abancay, una piccola città posta su una collina abitata da cholos55 e circondata da comunità indigene che lavorano le terre.

Il racconto è chiaramente autobiografico: la nostalgia dell’infanzia felice tra gli indios è contrapposta all’adolescenza vissuta dolorosamente tra l’indifferenza e l’ingiustizia dei bianchi nei confronti dei quechua.

Per sopportare quella condizione, Ernesto, come afferma Mario Vargas Llosa:

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«ha due armi: la prima è il rifugio interiore, il sogno. La seconda, una disperata volontà di comunicazione con ciò che resta del mondo, escludendo gli uomini: la natura»56.

Nel collegio sente di essere diverso dagli altri, e la sua diversità lo costringe a vivere in solitudine, ma sa che fuori c’è un mondo pieno di bellezze naturali, quello de los ríos profundos, il mondo del canto, della poesia e delle magiche tradizioni degli indios, il mondo del passato nel quale si rifugia.

Dal rifugio interiore Ernesto esce poche volte, la prima avviene quando vede lo zumbayllu, la trottola sibilante di un suo compagno di collegio, che diventa un oggetto di venerazione perché legato ai suoi ricordi:

«La terminación quechua yllu es una onomatopeya. Yllu representa en una de sus formas la música que producen las pequeñas alas en vuelo; música que surge del movimiento de objetos leves. […] Se llama tankayllu al tábano zumbador e inofensivo que vuela en el campo libando flores. [...] Al tankayllu no se le puede dar caza fácilmente, pues vuela alto, buscando la flor de los arbustos. [...] En los pueblos de Ayacucho hubo un danzante de tijeras, que ya se había hecho legendario. Bailó en las plazas de los pueblos durante las grandes fiestas; [...] tragaba trozos de acero, se atravesaba el cuerpo con agujas y garfios; caminaba alrededor de los atrios con tres barretas entre los dientes; ese danzak’ se llamó «Tankayllu». [...] El canto del zumbayllu se internaba en el oído, avivaba en la memoria la imagen de los ríos, de los árboles negros que cuelgan en las paredes de los abismos. […] Para mí era un ser nuevo, una

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Mario Vargas Llosa, prefazione a José María Arguedas, I fiumi profondi. Traduzione di Umberto Sonetti, Giulio Einaudi, Torino, 1997, p. VI.

aparición en el mundo hostil, un lazo que me unía a ese patio odiado, a ese valle doliente, al colegio»57.

Le altre volte sono quelle in cui Ernesto partecipa alla lotta tra gli indios e i padroni: la sommossa delle cholas che rivendicavano il sale che è stato loro rubato e la sciagura della peste. La malattia che invade la città e causa la chiusura del collegio è, probabilmente, un segno della vendetta della natura.

Il finale del romanzo è criptico: Ernesto lascia il collegio e, cercando di sfuggire alla peste, ritrova il contatto con la natura e la speranza nei suoi poteri:

«Si los colonos, con sus imprecaciones y sus cantos, habían aniquilado a la fiebre, quizá, desde lo alto del puente, la vería pasar, arrastrada por la corriente, a la sombra de los árboles. Iría prendida en una rama de chachacomo o de retama, o flotando sobre los mantos de flores de pisonay que estos ríos profundos cargan siempre»58.

La speranza di congiungere due mondi ostili rappresenta il fulcro di tutti i romanzi di Arguedas, una speranza che, però, non si concretizzò nella sua esperienza personale, tanto che il mancato adattamento alla realtà peruviana lo spinse al suicidio alla fine del 1969. Il suo ultimo romanzo, El zorro de

arriba y el zorro de abajo (postumo) alterna capitoli di romanzo a brani del

suo diario, ribadendo il falimento dello scrittore e dell’uomo incapace di far convivere – e di scriverne – “sincreticamente” le due anime del mondo peruviano e, più in generale, latinoamericano.

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José María Arguedas, Los ríos profundos, Casa de las Américas, La Habana, 2010, pp. 80-81-85-86.

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