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L'ARTE DELL'ARTIGIANATO

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1977 (pagine 68-72)

Piera Condulmer

Difficile è stabilire una netta linea di demarcazione tra l'arte e l'artigianato, dove finisce l'uno e dove e quando co-mincia l'altra; sia quando nella realiz-zazione del completo suo pensiero l'idea-tore deve ricorrere all'artigianato e tra-sformarsi egli stesso in artigiano, sia quando nella realizzazione della idea altrui, l'artigiano interpretandola, di-venta egli stesso artista.

Artista e artigiano hanno del resto la stessa radice, e artifex era per i latini anche il facitore di versi, perché si ar-rovellava nell'ars della parola, del me-tro, del ritmo, degli accenti, delle ce-sure, delle figure retoriche, per poter ridare il suo fantasma poetico, e il mu-sicista il suo momento sonoro, cosi come il pittore, lo scultore, l'architetto de-vono prepararsi a lungo sull'arte dei colori, della pietra, sulla tecnica del-l'arco per potersi esprimere. Era l'ars

longa in cui si formavano nei lunghi

anni di bottega dei nostri artisti rinasci-mentali, quelle maestranze dalle quali emergeva poi la singola personalità, che, assimilato e superato il momento tecni-co, era pronta per realizzare tecnica-mente anche le sue intuizioni.

Solo in questo punto di passaggio è possibile intravedere la differenza tra artigianato artistico e arte, in quanto l'artista investe della sua idea la tecni-ca, l'artigianato sostanzia della sua tec-nica l'idea altrui, o attua quelle che vengono dette le arti minori o di con-torno.

Questi pensieri riaffiorano con una cer-ta insistenza quando si ha l'impressione che stiano per divenire desueti in certe radicali trasformazioni sociali, nel pre-valere di organizzazioni tecniche, di valori che l'industrializzazione impone. Purtroppo il gigantismo industriale fa perdere la proporzione dell'umano, ci rende insensibili a certi valori, accen-tuandone altri. D'altra parte il concetto dell'artigiano solitario o con piccola schiera di aiuti, che si rovella nell'im-pegno e nel gusto del capo d'opera, co-me ragione di prestigio personale, si per-de ora nel concetto per-del lavoro in serie, della produzione in serie per soddisfare bisogni seriali di masse sempre cre-scenti, in cui l'artigiano può sentirsi

travolto. Ma se sopravvive vuol dire che ha una sua funzione sociale da svol-gere, e io lo vedo come la coscienza ammonitrice dell'alienante -civiltà dei consumi, che ci rende tutti estranei a tutto; ci spersonalizza, ci priva della possibilità di aderire spiritualmente alle cose, sia nell'impegno del farle, sia nella durata della loro fruizione, assillati dal consumare per produrre e dal produrre per consumare in una spirale infinita. Nella civiltà dei consumi tutto si con-suma, ma nulla si gode, perché il godi-mento implica l'attimo di sosta, di rac-coglimento per percepire il piacere, per contemplare la propria fatica, per sen-tirsi nelle cose, per arricchirle di valori non solo venali ma affettivi, per uma-nizzarle infatti, rendendole partecipi della nostra vita, dotandole di un pas-sato e di un avvenire. Operazioni psi-cologiche che la teoria del consumismo ad ogni costo, della distruzione e del rinnovamento continuo di tutto, del pro-durre velocemente per velocemente con-sumare, più non consente, impoverendo colpevolmente l'uomo, svuotandolo di ogni senso di validità e di durata, che dal campo materiale si trasferisce al campo spirituale, e crea quell'indiffe-renza morale i cui effetti stiamo vi-vendo.

Bisogna avere il coraggio di riconoscere che c'è anche una ecologia dello spirito, dell'animo, basata anch'essa come quel-la ambientale naturale, su di un equili-brio di forze e di fattori, che non pos-sono impunemente venire inquinati o violentati, o soppressi. E allora occorre-rebbe prendere in mano un vocabolario per rintracciare, esumare parole (e per-ciò concetti) scomparsi dal linguaggio usuale, anzi divenuti tabù, per non of-fendere la cosiddetta libertà dell'indivi-duo, in realtà reso schiavo dall'eccesso dei bisogni di cui pretende l'immediato soddisfacimento.

Il discorso iniziale sull'artigianato ci ha portati molto in là, fuori strada può pensare qualcuno; ma non credo del tutto, perché il lavoro artigianale è for-se l'ultima espressione di un'attività non alienante nel suo produrre metodico e paziente, dove chi lavora si sente vera-mente artefice di qualcosa dall'inizio

alla fine, e chi lavora se lo vede cre-scere tra mani questo suo manufatto, come un qualcosa di suo, e si preoccupa della sua durata. Riandando al tempo aureo dell'artigianato, poniamoci di fronte ad una cattedrale gotica, o ro-manico-gotica, e guardiamo ad una ad una la serie innumerevole di pinnacoli, di edicolette merlettate di trine di pie-tra, sotto cui si slanciano le longilinee figure di santi, di beati, d'imperatori, di verginali Madonne, con varietà di volti e di espressioni; guardiamo la sconfi-nata libera varietà inventiva dei capi-telli di colonne all'esterno e all'interno, carichi di allegorie, di diavoli caudati, di mostri a simboleggiare i vizi, di figu-re umane, angeliche o demoniache piene di espressività, latori di un messaggio. Guardiamo tutto ciò e ci renderemo

conto della grandezza dell'artigianato medievale, al quale era commessa non solo la parte esecutiva, ma spesso la parte inventiva dei particolari di un complesso architettonico, sculture od af-freschi, confidando nell'apporto della ricchezza della sua fede religiosa, nella sua cultura biblica, della sua sensibilità interpretativa, si da costituire, una cat-tedrale, il più grandioso inno elevato coralmente dall'umanità al divino. E l'artigiano mentre scalpellava diventava giudice inappellabile del bene e del ma-le, esaltava gli umili, abbatteva i super-bi, condannava i colpevoli, esaltava i giusti, in inferni, in purgatori, in para-disi di pietra. Pensiamo a tutti i tesori di abilità e d'intelligenza profusi dagli artigiani nelle cappelle delle loro asso-ciazioni o corporazioni, rimanendo per lo più anonimi, artefici oscuri di opere luminose, che nel lavoro della bottega si formavano l'abito dell'arte da gar-zoni, ad apprendisti, ad aiutanti, a col-laboratori, fino a divenire essi stessi mastri, maestri; aprendo a lor volta una bottega per insegnare a nuovi appren-disti i tesori della loro esperienza, della loro tecnica, della loro arte, del loro stile, della loro scuola insomma, spesso imprimendo nelle loro opere un segno distintivo, o sigla, o marchio per farla riconoscere collettivamente. Spesso dal-l'artigiano si evolveva l'artista. È umano pensare che questi cultori del-l'arte loro divenissero gelosi custodi delle loro tecniche, della serietà, della correttezza dei lavori che uscivano dalle loro botteghe, che volevano eseguiti ap-punto a regola d'arte, e come inclinas-sero perciò a chiudersi in consorterie, in compagnie per acquisire anche privi-legi, privative, esclusività, tutela giuri-dica contro ogni contraffazione. Privi-legi utili al progresso tecnico delle diverse arti, fino a che queste non diven-nero esclusivistiche e tiranniche e per-ciò ingiuste.

Certo in Piemonte queste associazioni delle arti non poterono assurgere all'im-portanza assunta altrove, per la diffe-rente evoluzione storisociale del co-mune, per le diverse vicende politiche, e scarsa ne è rimasta a Torino la docu-mentazione. Il che non vuol dire che le

categorie artigianali non si siano for-mate con i loro statuti, il loro santo pro-tettore, e appena possibile con il patro-nato di una cappella in qualche chiesa, e di cui si ha ancora notizia, cappella 11 cui decoro era un punto d'onore per gli associati.

Anche se non sappiamo con precisione l'origine medievale di queste associa-zioni, che d'altra parte avevano i loro precedenti nei collegio romani, dotati di

privilegia et munera, se le loro finalità

fossero economiche o spirituali o miste, erano l'organizzazione democratica del popolo lavoratore cittadino di fronte alle magnae parentellae, cioè a quelle catene di famiglie benestanti ed impor-tanti nel Comune, i cosiddetti grandi

al-berghi della città. Organizzazioni

popo-lari che almeno una volta all'anno pren-devano la rivincita nell'occasione della festa popolare di S. Giovanni, in cui le grandi famiglie non erano ammesse a portare i ceri per la processione, perché a ciò erano deputati i cerei, che dove-vano provvedere anche ad bibendum et

illuminandum. Anche se la Società di

S. Giovanni Battista a carattere demo-cratico, non aveva in se stessa scopi pro-fessionali, i cerei che uscivano da essa, erano investiti di una certa dignità, e già un Ordinato del Consiglio Maggiore di Credenza del 29 maggio 1328, detta-va loro norme precise per l'organizza-zione della importantissima festa citta-dina; non solo, ma in un Ordinato del 12 giugno del 1375 e seguenti, dove sono indicate ventisei categorie partecipanti: mercanti, sarti, macellai, albergatori, vi-gnolanti, speziali, scolari, asini (lapsus, forse intendendo asinari, stante l'impor-tanza che questi avevano per i trasporti in collina), fabbri, falegnami ecc., i cerei non vi sono elencati, perché pro-babilmente erano collegati con l'autorità vescovile nell'ambito della parrocchia; perché è da notare che questa categoria artigianale era anche obbligata, se chia-mata dal vescovo, a prestare servizio di difesa militare.

Una attrazione delle categorie artigianali verso l'ambito del potere civile, venne esercitata da Amedeo V i l i con i suoi

Statuto del 1430 « artes et artistae

me-canici, artes et artistae liberales et ope-rarli ad salaria quotidiana extra domos eorum », come esercitanti funzione di pubblico interesse, dovevano essere sot-toposti ad una forma di controllo du-cale. Amedeo VIII poi col suo metodo organizzativo gerarchicamente ordinato, stabiliva una graduatoria di valori e di dignità, dove doveva esprimersi anche esteriormente nel vestiario: fogge di abiti e qualità di panni che potevano essere portati dagli uni e non dagli altri, in modo che anche dall'esterno stesso

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QUARTA ESPOSIZIONE D'INDUSTRIA E DI BEILE ARTI

A L R E A f . V A L E N T I N O

GIUDIZIO

DILLA

REGIA CAMERA DI AGRICOLTURA E DI COMMERCIO

DI TOIUNO E

N O T I Z I E

S U L L A P A T R I A I N D U S T R I A c o w i u n D A C A R L O I G N . G I U L I O •CLVIOH CENTRILE

Torino — Dilla Stamperia Bruir.

si poteva avere una idea della composi-zione sociale del paese. Potrebbe sem-brare questa una divisione in caste, ne-gativa ed opprimente, in vista di una dinamica propulsiva della società nel medioevo piemontese e torinese? Forse. Tardi sono gli Statuti datisi da queste associazioni d'arti e mestieri, facendo risalire il più antico al secolo XVII, che mi riprometto di esporre insieme ad altri che mi venga fatto di trovare; ma che esistessero i raggruppamenti artigia-nali l'abbiamo già constatato, e possia-mo ancora comprovarlo in base a testi-nianze e resoconti di antichi eventi e documenti archivistici. Sfogliamo per esempio ancora gli Ordinati del Comu-ne di Torino all'anno 1574, e tra la con-citazione delle delibere prese con mesi di anticipo in occasione della venuta in questa città di Enrico III di Valois, il neo eletto re di Francia, troviamo una precisa elencazione dei doveri di con-tribuzione agli addobbi per le diverse categorie artigianali, a ciascuna delle quali era imposto di tapizzar con frasche un ben delimitato tratto del percorso del corteo reale. Per primi sono nomi-nati i minusieri, seguiti dai maestri di legname, i muratori, gli speronari, i sei-lari, i serraglieri, i ferrari, i maniscalchi, gli ortolani, i testori di tela, i pellet-tieri, i rettagliatori, i pelleteri, i pelliceri, i sartori, i calzolari, gli aifaytatori, i doreri, i librai, i profumieri, i barberi, gli armareri, gli sparari, gli spetiali, i mercanti (Arch. St. Comunale Ordinati 1574 f. 31 v.). Gli insolventi sarebbero stati colpiti da una « multa di 25 lirre e interdition da gli offitii loro ».

D'altra parte l'antica toponomastica cit-tadina è interessantissima al riguardo, e sta ad indicare la distribuzione zonale e stradale delle varie attività, di cui oggi si mantiene il ricordo solo in pochissime vie, come quella degli Stampatori, dei Mercanti (di panni), ecc.

La circa trentennale occupazione fran-cese del Piemonte e di Torino nel se-colo XVI, la demolizione di tante chiese hanno disperso molte memorie della vita medievale cittadina; ma Emanuele Filiberto al suo rientro nello stato avito, volendo ricostruire le forze di lavoro, fu molto favorevole alla costituzione o ricostituzione di società artigianali, che tra gli scopi loro ponevano anche quelli benefici e assistenziali, nonché quelli religiosi: su questi il duca voleva posto l'accento a scopi controriformistici, e come mezzo di ricostruzione morale del popolo e dei suoi costumi paurosamente decaduti. Il duca riteneva inoltre tali associazioni utili per il miglioramento dell'industria e perché facilitavano in-sieme quella vigilanza, direi ingerenza.

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sovrana in momenti di illuminato asso-lutismo ricostruttivo.

Nel 1560 viene perciò istituita la Giun-ta dei Cognitori Giudici e Soprainten-denti con a capo il Gran Cancelliere e con la presidenza dell'Arcivescovo, le-gando così direttamente le alte gerarchie laiche ed ecclesiastiche alle forze pro-duttive della città. Con lo stesso intento benefico religioso e produttivo veniva fondato l'Albergo di virtù, basato non sulla pura carità degradante e favorente l'ozio, ma sull'avvio al lavoro dei bam-bini derelitti. Carlo Emanuele I perfe-zionò nei suoi ordinamenti tale istitu-zione, nel 1587, per fare di quell'Alber-go di virtù un seminario di nuove forze di lavoro, specie nel campo delle arti meccaniche e nella lavorazione dei vel-luti di seta, mentre nel 1582 aveva reso obbligatoria per l'artigiano l'iscrizione alla matricola dell'arte o del mestiere prescelti.

Questo collegamento tra corporazione d'arte, autorità sovrana e religiosa si mantenne nel tempo e forse ha rappre-sentato una delle ragioni di coesione del popolo piemontese con il sovrano, dal quale ricevevano impulso, senza es-sere ostacolate nel libero svolgimento di quella evoluzione interna inerente ad ogni società, per il migliore persegui-mento dei suoi scopi.

All'inizio dell'era riformistica, con Car-lo Alberto, certi privilegi divennero ana-cronistici e antisociali nei confronti del-la libera iniziativa e deldel-la libera scelta del lavoro da parte di chiunque voglia imprendere un'attività, senza dover pas-sare sotto le forche caudine di un mono-polio corporativo.

Dalle antiche associazioni d'arti si enu-cleano allora i forti contenuti sociali ca-ritativi che avevano presieduto insieme a quelli di carattere professionale di ca-tegoria, giuridici e di privilegi, al costi-tuirsi della compagnia, e si trovano pronti per configurare quelle Pie asso-ciazioni con scopi prettamente assisten-ziali, di solidarietà verso coloro che, già esercitanti lo stesso lavoro, si tro-vano nella impossibilità di continuarlo o per vecchiaia o per malattia, e sono bisognosi di soccorso. Queste Pie unio-ni, associaziounio-ni, leghe ecc. costituiranno quel capitale morale della società popo-lare torinese che sarà vanto di questa città, e oggetto di ammirazione di viag-giatori e sociologi; da questo ambiente, come non ultima ragione, usciranno quelle grandissime figure della carità umana e cristiana che si propone la co-struzione morale e civile della gioventù, o il suo recupero sociale, attraverso il lavoro artigianale; figure che hanno illu-minato tutto il secolo XIX e le cui isti-tuzioni nulla riesce a scalfire.

OTTOCENTO

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1977 (pagine 68-72)