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L’ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano

Per quanto il minore possa assumere, in alcuni procedimenti, il ruolo di parte in giudizio – parte in senso formale o parte processuale –, ai fini della trattazione del diritto in esame non cambia nulla. L’ascolto del minore, infatti, prescinde dal fatto che questi sia o meno parte in giudizio, poiché non costituisce un atto probatorio, ma un semplice mezzo processuale. Esso è strumentale all’acquisizione di tutti quegli elementi che, in vista del superiore interesse del minore, possano permettere al giudice di pervenire ad una decisione che sia il più possibile vicina e conforme alle ragioni della sua preminente e reale tutela52. L’ascolto del minore, in altri termini, come ha bene precisato la Corte di Cassazione, con la sent. 1838/2011, costituisce «un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda processuale in cui risulta coinvolto»53. Per questo, nei casi in cui il minore non assume il ruolo di parte in giudizio, nel presupposto che il procedimento nel quale è coinvolto non può non incidere sui suoi fondamentali interessi, parte della dottrina ha elaborato il concetto generico di “parte in senso sostanziale”. In tal modo, essa intendeva riferirsi a quel soggetto che, risultando tra i destinatari del provvedimento conclusivo, riceveva una tutela soltanto indiretta o mediata54. Tuttavia, una simile conclusione non ha ricevuto un ampio consenso, poiché, pur volendosi qualificare il minore, anche in questo caso, come “parte”, rimane fermo il fatto che si tratta di un soggetto

52 G. Ballarini, Contenuto e limiti del diritto all’ascolto nel nuovo art. 336 – bis c.c.:

il legislatore riconosce il diritto del minore a non essere ascoltato, in «Il diritto di

famiglia e delle persone», 2014, p. 853. Cfr. G. Savi, L’atto processuale dell’ascolto

ed i diritti del figlio minore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2013, p. 1346.

53 G. Dosi, L’avvocato del minore, G. Giappichelli editore, Torino, 2015, p. 47. 54 G. Savi, L’atto processuale dell’ascolto ed i diritti del figlio minore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2013, p. 1360.

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che è e resta privo di tutti quei diritti e poteri processuali, strictu sensu, che gli possano permettere di tutelare le proprie posizioni soggettive.

A questo punto, bisognerebbe, quindi, chiederci quanto sia davvero importante inquadrare, da un punto di vista meramente processualistico, la posizione del minore in tutti quei procedimenti in cui non assume la qualifica di “parte”. La sua posizione, infatti, risulta ugualmente tutelata da uno strumento – quale è l’ascolto del minore – additato dalla Corte di Cassazione, con la sent. 7478/2014, come idoneo a salvaguardare i propri diritti e i propri interessi, in tutti quei casi in cui, trovandosi coinvolto in vicende processuali che vedono come protagonisti esclusivi i genitori, con essi si trova in una situazione di conflitto di interesse55. Tra l’altro, come anticipato nel primo capitolo, esistono due norme specifiche che riconoscono al minore il diritto di essere ascoltato, a prescindere dal suo essere o meno parte in giudizio: l’art. 315 – bis c.c., co. 3, il quale stabilisce che «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano» e l’art. 336 – bis c.c., che attribuisce al minore lo stesso diritto «nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano». Tuttavia, per quanto il minore abbia il diritto di essere ascoltato e, dunque, il diritto di “dire la sua”, sia nel primo, che nel secondo caso, occorre chiarire che l’ascolto del minore ha natura e funzioni profondamente diverse, a seconda del contesto e dell’istituto in cui viene calato.

Ora, in relazione alle ipotesi di affidamento familiare, occorre distinguere a seconda che si tratti di affidamento consensuale o affidamento contenzioso. Nel primo caso, quando, cioè, i genitori o il tutore abbiano espresso il consenso all’affidamento, esso, ai sensi dell’art. 4 della l. 184/1983, come modificato dalla l. 173/2015, viene

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«disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento». Il provvedimento – prosegue l’articolo in esame – verrà, poi, reso esecutivo con apposito decreto dal giudice tutelare del luogo ove si trova il minore. Nel secondo caso, invece, ove manchi «l’assenso dei genitori esercenti la responsabilità o del tutore», l’affidamento sarà pronunciato dal tribunale dei minori con decreto motivato, a seguito di un procedimento camerale attivato dal servizio locale, dagli affidatari o d’ufficio, venendo conseguentemente applicati gli artt. 330 e seguenti del codice civile56.

Un discorso diverso, invece, va fatto per quanto riguarda l’adozione. Ai sensi dell’art. 7 della l. 184/1983, perché il minore possa essere adottato, laddove abbia compiuto il quattordicesimo anno di età, occorre che presti il proprio consenso, il quale va manifestato anche quando l’età predetta venga raggiunta nel corso del procedimento. Laddove, invece, abbia compiuto il dodicesimo anno di età, il minore dovrà essere sentito personalmente, così come dovrà essere sentito personalmente anche nel caso in cui abbia un’età inferiore: in quest’ultimo caso, però, l’ascolto del minore andrà commisurato in relazione a quella che è la sua capacità di discernimento. Ora, mentre nel primo caso (adozione di un minore quattordicenne) il consenso del minore costituisce un requisito essenziale e indispensabile perché si possa procedere all’adozione, nel secondo (adozione di un infraquattordicenne) l’ascolto del minore dodicenne o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, non assume alcun valore di elemento essenziale e costitutivo della stessa, ma assume una finalità meramente istruttoria, volta ad acquisire tutti quegli elementi utili per capire il giudice se il minore versa o meno in

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una situazione di abbandono57. Pertanto, se, nel primo caso, sarà il minore quattordicenne a decidere, in qualche modo, se essere adottato o meno, poiché senza il suo consenso non potrà farsi luogo all’adozione, nel secondo, sarà il giudice stesso a dover prendere una decisione, verificando, previo ascolto del minore infradodicenne, «la mancanza di assistenza morale e materiale dei genitori e dei parenti entro il quarto grado tenuti a provvedervi». Questa differenza di trattamento trova la propria ratio nel fatto che, mentre il minore quattordicenne è in grado di capire ciò che per lui è meglio o peggio, bene o male, giusto o sbagliato, per cui si dà per acquisita una sua capacità di discernimento, lo stesso discorso non può farsi per il minore infradodicenne: in tal caso, il giudice occorre che instauri con lui un colloquio per capire se davvero risulta titolare o meno di una, seppur minima, capacità di discernimento.

Ora, rispetto a quelle che sono le procedure di adottabilità, la Corte di Cassazione è intervenuta nel 1997 con la sent. n. 6899, con la quale ha osservato che «nella disciplina ex legge n. 184/1983, l’esigenza di ascoltare il minore – nella duplice previsione dell’audizione obbligatoria per l’ultradodicenne e facoltativa per l’infradodicenne – costituisce una costante intesa a riconoscere ed attribuire concreta rilevanza alla personalità ed ai bisogni essenziali del minore stesso, ogniqualvolta devono essere adottati provvedimenti nel suo interesse; tali provvedimenti, pertanto, non vanno adottati a priori sulla base di un criterio di adeguatezza generica, ma in rapporto diretto con le specifiche circostanze d’ogni caso concreto e con le correlative esigenze minorili, che non possono non emergere da un diretto colloquio con l’adottando». In particolare, la Corte di Cassazione aveva cassato per “vizio di motivazione” una sentenza di merito della Corte d’appello di Milano che aveva dichiarato l’adottabilità di un

57 G. Manera, L’ascolto dei minori nelle istituzioni, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1997, pp. 1556 – 1557.

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infradodicenne, profondamente legato alla famiglia d’origine, senza averlo ascoltato personalmente e direttamente. Secondo la Suprema Corte, infatti, i provvedimenti nell’interesse del minore non devono essere stabiliti a priori, ma devono essere rapportati alle reali esigenze del caso concreto, previo colloquio diretto con il minore stesso. Tuttavia, per quanto la pronuncia in esame potesse avere alla base una sua logica, a mio parere non del tutto errata, bisogna mettere in evidenza anche taluni aspetti critici che lasciano trapelare la dubbia ragionevolezza e fondatezza delle conclusioni a cui è giunta la Corte nel caso in esame. Ciò che, infatti, si potrebbe, in primo luogo, contestare alla Corte è l’assurdità della decisione presa di cassare una sentenza di un giudice d’appello che abbia ritenuto opportuno di non ascoltare il minore, tra l’altro anche infradodicenne, discostandosi, così, da quanto stabilisce la legge stessa 184. Essa, in più parti, infatti, considera come obbligatoria solo l’audizione del minore ultradodicenne e non anche quella del minore infradodicenne, che risulta, invece, facoltativa e discrezionale. In secondo luogo, la pronuncia della Cassazione appare anche superficiale, poiché, nel considerare le disposizioni che giustificherebbero la decisione presa (artt. 7, comma 3°; 25; 10, comma 5°; 15, comma 2°; 22, comma 4°; 23, comma 3°), non tiene conto della loro diversa natura e portata, messa più volte in evidenza dalla stessa dottrina e giurisprudenza. Come detto, prima, infatti, ed è il caso di ribadirlo, mentre l’audizione del minore quattordicenne è prevista ad substantiam (essendo il consenso del minore ultradodicenne elemento costitutivo dell’adozione, senza il quale l’adozione stessa non può considerarsi valida ed efficace), l’audizione del minore dodicenne, o anche di età inferiore ove capace di discernimento, è prevista ad probationem: assume, infatti, una finalità meramente istruttoria, volta ad acquisire il maggior numero di elementi e informazioni possibili per verificare la sussistenza o meno dello stato di abbandono del minore stesso. In terzo

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luogo, occorre contestare alla Cassazione anche la stringata e laconica motivazione della sentenza in esame. Non si comprende, infatti, se la Corte abbia contestato al giudice di merito il fatto di non aver voluto proprio ascoltare il minore personalmente (come sembrerebbe dalla massima), o di non aver tenuto minimamente conto della sua volontà di non volere abbandonare la sua famiglia d’origine, alla quale si sentiva profondamente legato. Infine, paradossalmente, bisogna notare come la Corte stessa si contraddica da sola: se, da un lato, infatti, riconosce la natura obbligatoria dell’audizione del minore ultradodicenne e facoltativa quella dell’infradodicenne, dall’altro, di fatto, considera obbligatoria anche quella di quest’ultimo, senza porsi in alcun modo il problema di quelle che sarebbero le conseguenze derivanti dalla mancata audizione del minore e senza chiarire soprattutto se tale audizione debba essere prevista a pena di nullità58. In particolare, sulle conseguenze della mancata audizione del minore torneremo in seguito: basti, al momento, chiarire la natura obbligatoria dell’ascolto per il minore ultradodicenne e la natura discrezionale per quello infradodicenne.

Nei procedimenti di separazione e divorzio, l’ascolto del minore acquisisce una finalità ancora più diversa rispetto a quella che assume in ambito di adozione. In tali contesti, infatti, i minori, per quanto non siano di per sé abbandonati o trascurati dai loro genitori, non possono non risentire dei pregiudizi derivanti dalla crisi familiare. Il giudice, quindi, nell’affidare i figli all’uno o all’altro genitore, laddove non sia stato possibile disporre l’affidamento condiviso, dovrà necessariamente ed esclusivamente preoccuparsi di quello che è il loro interesse superiore. Il giudice opterà, quindi, per l’affidamento a quel genitore che, secondo lui, risulta essere maggiormente in grado di dare le giuste e maggiori garanzie in relazione a quelli che sono principali

58 Id., Brevi osservazioni sulla pretesa necessità dell’audizione del minore nella

procedura di adottabilità, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1998, pp. 1382

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interessi dei figli stessi (l’allevamento, l’educazione e l’istruzione), tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni (artt. 147 e 315 – bis c.c). In tali procedure, quindi, i figli minori devono essere opportunamente ascoltati, proprio in ragione del fatto che il giudice è chiamato ad assumere quella che, secondo lui, risulta essere la soluzione più adatta ai loro bisogni, alle loro esigenze, alle loro necessità, finanche ai loro desideri. In altri termini, il giudice deve assicurarsi che il minore riceva il minor danno possibile dalla disgregazione familiare. Per questo, nella scelta del tipo di affidamento da disporre e del genitore al quale attribuire l’affidamento stesso, il giudice dovrà utilizzare, quale criterio – guida e punto di riferimento esclusivo, l’interesse morale e materiale del minore stesso. Il motivo per cui ad orientare il giudice, nell’assunzione di una certa decisione piuttosto che di un’altra, sia l’esclusivo interesse del minore, risiede nel fatto che, in tal modo, il legislatore ha voluto assicurare ai figli la possibilità di mantenere con entrambi i genitori relazioni idonee ad integrare un effettivo rapporto educativo, ma ha voluto anche garantire l’esigenza che, in tale materia, sia affermato in termini rigorosi il principio della imparzialità e terzietà del giudice. Questi, infatti, nella prospettiva di perseguire e garantire il superiore interesse del minore, si terrà ben lontano dal patteggiare per l’uno o l’altro genitore, i quali, molto spesso, rischiano di ridurre i loro figli a meri oggetti di contesa. Per questo, la l. 54/2006 ha introdotto l’istituto dell’affidamento condiviso, richiamato all’art. 337 ter c.c. (introdotto dal d.lgs. 154/2013), sancendo il principio della c.d. bigenitorialità. Stabilisce, infatti, l’art. 337 ter c.c. che, al fine di garantire al figlio minore la possibilità di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, nei casi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio, «il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con

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esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli». L’affidamento congiunto (o condiviso) presuppone, quindi, un spirito collaborativo tra i due coniugi, i quali sono chiamati ad agire nell’esclusivo interesse del minore, garantendo a quest’ultimo la possibilità di mantenere con essi un rapporto equilibrato e a crescere secondo un unico e concorde progetto educativo. In questo senso, quindi, il modello dell’affidamento condiviso presuppone la partecipazione attiva, “paritaria” e, preferibilmente, concordata di entrambi i genitori alla cura e all’educazione dei figli. Ciò non significa che ogni decisione, persino la più piccola o la più banale, debba essere presa necessariamente sulla base di una volontà concorde di entrambi i genitori: certo, una cosa del genere, sarebbe auspicabile e preferibile. L’attenzione va spostata semmai rispetto a quelle che sono le decisioni di maggiore interesse per i figli, ossia quelle relative all’istruzione, all’educazione, alla salute, alla scelta della residenza abituale del minore ecc. Tali, decisioni, ai sensi dell’art. 337 – ter, co. 3, c.c., «sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli».

Per quanto concerne il modello dell’affidamento esclusivo, richiamato all’art. 337 – quater c.c, esso costituisce ipotesi meramente residuale, poiché il giudice, come ribadito più volte, è chiamato a «valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori». Laddove l’affidamento condiviso non sia possibile, perché contrario all’interesse del minore, il giudice, con provvedimento motivato, disporrà «l’affidamento dei figli ad uno solo

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dei genitori», con la conseguenza ulteriore che, a differenza di quanto accade con l’affidamento condiviso, la responsabilità genitoriale, salva diversa disposizione del giudice, sarà esercitata in via esclusiva dal genitore affidatario. Su di esso, però, gravano alcuni doveri di fondamentale importanza: dovrà, infatti, attenersi alle condizioni determinate dal giudice, ma, soprattutto, in ossequio a quel principio della bigenitorialità, dovrà assumere le decisioni di maggiore interesse dei figli con la concorde volontà del genitore non affidatario. Questi, però, non resta esonerato dal svolgere il suo ruolo di genitore nei confronti dei propri figli. Secondo quanto stabilisce l’ultimo comma dell’art. 337 – quater c.c., «salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli», in ossequio, sempre, al principio della bigenitorialità, «sono adottate da entrambi i genitori». Inoltre, prosegue la disposizione in esame, sul genitore non affidatario grava il dovere specifico di vigilare sull’istruzione e sull’educazione dei figli, potendo ricorrere al giudice qualora «ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse».

Ora, alla luce di tali considerazioni, appare del tutto ragionevole che il giudice, nel decidere quale modello di affidamento adottare e quali provvedimenti assumere, proceda ad ascoltare il minore, soprattutto per capire lui, in prima persona, quali sono i suoi bisogni, i suoi desideri, la sua volontà. In particolare, a tal proposito, l’art. 337 – octies, co. 1, c.c. prevede che il giudice, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti relativi ai figli, di cui all’art. 337 – ter c.c., oltre a poter assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova, deve procedere all’ascolto del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei casi, invece, in cui «si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli», il giudice, prosegue il primo comma dell’art. 337 – octies c.c., «non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o

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manifestamente superfluo». La norma, appena richiamata, fa un chiaro riferimento all’istituto della mediazione familiare, introdotta dalla l. 54/2006 – sull’affidamento condiviso –, quale modalità per favorire il raggiungimento di un accordo tra i coniugi, in ordine a determinate questioni, quali, in primo luogo, l’affidamento e il mantenimento in favore dei figli.

In realtà è doveroso precisare che l’audizione del minore, in passato, era espressamente prevista dalla legge soltanto nelle procedure di divorzio, e non anche al momento primordiale della crisi coincidente con la separazione. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza sono state sempre concordi nella possibilità di inquadrare il momento formale dell’audizione anche nelle procedure di separazione. Tanto le une, quanto le altre, infatti, vanno considerate unificate, in ragione del fatto che sono entrambe accomunate da una stessa ratio. Anzi, a maggior ragione, il momento dell’audizione deve potersi considerare possibile nelle procedure di separazione, poiché è soprattutto la separazione che, dando origine alla frattura del rapporto coniugale, può produrre effetti maggiormente traumatici per i figli minori, per cui occorre sin dall’inizio intervenire a tutelare quello che è l’interesse superiore dei figli stessi59.

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