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L'ascolto del minore: uno strumento di autodifesa

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

L’ascolto del minore: uno strumento di autodifesa

Relatore:

Prof. Claudio Cecchella

Candidato:

Giorgio Pulizzi

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Indice

CAPITOLO

PRIMO

P

ROFILI GENERALI

1.1 L’ascolto del minore nel contesto internazionale………..5

1.2 La disciplina nazionale………12

1.2.1 Riferimenti costituzionali………...18

1.3 Sulla natura e sul contenuto del diritto di ascolto del minore...20

1.3 Ascoltare e non semplicemente sentire………...24

CAPITOLO

SECONDO

L’

ASCOLTO DEL MINORE NEL PROCESSO CIVILE 2.1 Capacità d’agire e capacità processuale del minore………29

2.2 L’ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano...32

2.3 Il rapporto tra giudice e minore………...41

2.3.1 Il giudice: un educatore?...44

2.4 Le conseguenze del mancato ascolto da parte del giudice……..48

CAPITOLO

TERZO

P

RESUPPOSTI E MODALITÀ DI ASCOLTO DEL MINORE 3.1 Ascoltare in vista del superiore interesse del minore………….52

3.1.1 Il dibattito sulla nozione di interesse del minore………...55

3.1.2 Il diritto di ascolto come diritto di partecipazione……….58

3.2 Il diritto di ascolto e la capacità di discernimento………..63

3.2.1 La capacità di discernimento come capacità critica……...67

3.2.2 Capacità di discernimento e capacità di agire……...69

(4)

CAPITOLO

QUARTO

L’

ASCOLTO DEL MINORE FUORI DALL

AMBITO PROCESSUALE

4.1 Dalla potestà alla responsabilità genitoriale ed il peso che questa

ha nelle questioni familiari………85

4.2 La mediazione, una strada alternativa e/o preliminare al

processo………...90

4.3 La via della negoziazione assistita………104

(5)

5

C

APITOLO PRIMO

Profili generali

1.1 L’ascolto del minore nel contesto internazionale

Il quadro normativo che si presenta oggi, in relazione al diritto di ascolto del minore, è frutto di un lungo e complesso percorso normativo che, utilizzando un’espressione del prof.re F. Danovi (Università di Milano – Bicocca), potremmo definire, in qualche modo, «a doppio binario»1. Da un lato, infatti, occorre tenere in debita considerazione quelli che sono i capisaldi del diritto in esame, aventi carattere internazionale: la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata dall’Italia con l. 27 maggio 1991 n. 176) e la Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 25 gennaio 1996 (ratificata con l. 20 marzo 2003 n. 77); dall’altro, invece, occorre considerare la disciplina legislativa nazionale.

Partendo dalla Convenzione di New York 1989, ai sensi dell’art. 12, «gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo riguarda», dandogli, così, la possibilità «di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale». A tale diritto, ovviamente, non potrà che corrispondere il dovere dell’adulto di tenere debitamente in considerazione le opinioni

1 F. Danovi, L’ascolto del minore nel processo civile, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2014, p. 1594. Cfr. anche P. Virgadamo, L’ascolto del minore in famiglia

e nelle procedure che lo riguardano, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2014,

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6

del fanciullo, «tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità»2.

Quanto alla Convenzione europea di Strasburgo del 1996, innanzitutto, sembra interessante ripercorrere le diverse fasi che hanno portato il Comitato dei ministri europei della giustizia all’approvazione del testo in esame3. Nel 1990, l’Assemblea

parlamentare del Consiglio d’Europa adottò la Raccomandazione n°1121, con la quale, da un lato, insisteva sulla necessità di accordare ai fanciulli aiuto, protezione e cure particolari, dall’altro, ribadiva che la relativa responsabilità, pur spettando in primo luogo ai genitori, costituisse un obbligo anche per la società e lo Stato. L’Assemblea, inoltre, esprimeva soddisfazione per l’avvenuta adozione nel 1989 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, e raccomandava al Comitato dei ministri d’invitare gli Stati membri a fare tutto il possibile per ratificarla e attuarla. Sempre nel 1990, il Comitato d’esperti sul diritto di famiglia studiò l’opportunità di predisporre un progetto di Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, evitando, però, una qualunque ripetizione della Convenzione del 1989: per quanto i due testi fossero complementari, infatti, non dovevano considerarsi l’uno la fotocopia dell’altro. Del resto, lo stesso art. 4 della Convenzione ONU del 1989 impegnava – e impegna tuttora – gli Stati Parti ad adottare «tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione»4. Un primo progetto di Convenzione venne approvato dal Comitato d’esperti sul diritto di famiglia durante la ventisettesima riunione, nel novembre del 1994, e dal Comitato europeo di

2 L. Fadiga, Problemi vecchi e nuovi in tema di ascolto del minore, in «Minori e giustizia», 2006, p. 133.

3 Tale processo, in particolare, è ben delineato nella Relazione di accompagnamento alla Convenzione di Strasburgo del 1996.

4 In tal senso, la Convenzione europea avrebbe potuto essere d’aiuto agli Stati membri del Consiglio d’Europa, ma anche ad altri Stati.

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cooperazione giuridica durante la sessantatreesima riunione, tra il maggio e il giugno del 1995. Tale progetto venne, poi, sottoposto al Comitato dei ministri europei della giustizia per la relativa approvazione e sottoscrizione, avvenuta il 25 gennaio del 19965.

Ora, tra le varie disposizioni contenute in tale Convenzione, rispetto a quello che è l’oggetto della mia tesi, assumono particolare significato:

- l’art. 3, secondo cui «ad un fanciullo considerato dalla legge interna come avente sufficiente capacità di comprensione, in caso di procedure che lo riguardino davanti ad un’autorità giudiziaria, sono garantiti i seguenti diritti, di cui egli stesso può chiedere il riconoscimento:

a) ricevere tutte le informazioni pertinenti;

b) essere consultato ed esprimere la propria opinione;

c) essere informato sulle possibili conseguenze dell’attuazione dei suoi desideri e sulle possibili conseguenze di ogni decisione»;

- l’art. 5, il quale stabilisce che «le Parti esaminano l’opportunità di riconoscere ai fanciulli dei diritti processuali supplementari nelle procedure giudiziarie che li riguardano e, in particolare:

a) il diritto di chiedere di essere assistiti da una persona idonea

di loro scelta, al fine di essere aiutati ad esprimere la propria opinione;

b) il diritto di chiedere, personalmente o per mezzo di altre

persone od organismi, la nomina di un diverso rappresentante e, nei casi appropriati, un avvocato;

c) il diritto di nominare il proprio rappresentante;

5 G. Magno, Il minore come soggetto processuale, Giuffrè editore, Milano, 2001, pp. 88 – 89.

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d) il diritto di esercitare, in tutto o in parte, le prerogative delle

parti in simili procedure.»;

- l’art. 6, il quale prevede che «nelle procedure che interessano un fanciullo, l’autorità giudiziaria, prima di prendere qualsiasi decisione, deve:

a) considerare se dispone di sufficienti informazioni per

prendere una decisione nel superiore interesse del fanciullo e, se del caso, ottenere informazioni supplementari, in particolare dai detentori di responsabilità parentali;

b) quando il fanciullo è considerato dal diritto interno come

avente un discernimento sufficiente:

- assicurarsi che il fanciullo abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti;

- ascoltare il fanciullo di persona nei casi appropriati, se necessario separatamente, direttamente o per mezzo di altre persone od organismi, in maniera appropriata alla sua capacità di discernimento, a meno che ciò sia manifestamente contrario al superiore interesse del fanciullo;

- permettere al fanciullo di esprimere la sua opinione;

c) tenere debito conto dell’opinione da lui espressa.».

Da quanto emerge dalle disposizioni appena enunciate, l’autorità giudiziaria dovrà permettere, quindi, al minore di esprimere la propria opinione, tenendola in debito conto in relazione a quelle che sono le opportune decisioni che andrà ad assumere nel superiore interesse di quest’ultimo6.

Con la Convenzione di Strasburgo 1996, il minore diventa soggetto processuale a tutti gli effetti: non solo risulta maggiormente agevolato e tutelato nell’esercizio dei suoi diritti sostanziali, ma risulta anche

6 F. Danovi, op. cit., p. 1595.

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9

titolare di tutta una serie di diritti processuali che possono essere da lui stesso esercitati, personalmente o per il tramite di altre persone od organi. In tal modo, la Convenzione, più che garantire una maggiore protezione dei diritti dei fanciulli, ha inteso perseguire una maggiore promozione degli stessi. Conseguentemente, al minore non è consentita solo la possibilità di far valere i suoi diritti sostanziali, ma gli vengono attribuiti anche diritti processuali – prima, ancora non esistenti – e rafforzati quelli già eventualmente esistenti nelle singole legislazioni nazionali7. Pertanto, ad oggi, il minore potrà stare in giudizio, agire, essere presente, essere ascoltato, non più come oggetto di interessi altrui, ma come un vero e proprio soggetto, titolare di propri diritti e interessi. Non a caso la Convenzione utilizza il termine “fanciulli” e non “infanti”, proprio a voler indicare l’idea per cui il minore debba considerarsi, non solo come centro di imputazione giuridica, ma anche come un vero e proprio soggetto processuale. Il termine “infanzia”, infatti, di derivazione latina, indica il “non avere voce”, mentre la Convezione ha voluto proprio dare voce al fanciullo, consentendogli di assumere una posizione centrale nel processo e dargli, quindi, la possibilità di prendere la parola – in proprio o mediante rappresentanti – per avanzare il proprio punto di vista e far valere le proprie ragioni. Le questioni familiari, infatti, non sono soltanto affari degli adulti, ma interessano anche, e soprattutto, i diritti e gli interessi dei minori8. Per questo, la Convenzione non intende solo e soltanto perseguire e garantire una maggiore protezione giudiziaria dei diritti del fanciullo attraverso la garanzia del giusto apprezzamento delle sue ragioni, ma intende, più che altro, spostare l’attenzione, in caso di conflitto familiare, dalle ragioni degli adulti, spesso prepotentemente avanzate, a quelle del bambino, di solito inascoltate o sottaciute. Tuttavia, nonostante l’interesse preminente della

7 G. Magno, op. cit., p. 89 – 90. 8 Ivi, prefazione, pp. IX – XV.

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Convenzione europea del 1996 fosse quello di attribuire al minore la qualità di parte, il diritto dello stesso di essere ascoltato e di esprimere la propria opinione non deve considerarsi confinato ai soli casi in cui egli assume tale qualifica – ossia nei casi in cui sussistano dei conflitti fra lui e i genitori –, ma deve poter trovare riconoscimento e attuazione anche in tutti quegli altri casi in cui essa viene meno. Per quanto, infatti, la res judicanda concerna una questione che interessa i soli genitori, essa tocca ugualmente gli interessi vitali del minore stesso.

In particolare, la qualità di parte sussiste e merita di essere riconosciuta laddove il minore agisce o resiste in giudizio a difesa di un proprio diritto, per esempio, in materia di stato, di lavoro, patrimoniale in genere o anche per la rivendicazione di diritti, la cui titolarità gli è direttamente riconosciuta dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali e dalle leggi. In questi casi, non essendo il minore abilitato a stare in giudizio da solo, la rappresentanza dei suoi interessi e l’assistenza da parte di adulti – quali il genitore, il tutore e il curatore –, e l’eventuale assistenza in giudizio da parte di esperti, non sono sufficienti. Perché il minore possa assumere la qualifica di parte processuale, occorrono l’assistenza e la rappresentanza della c.d. “difesa tecnica”, ossia di un professionista legale9. Su tale questione

occorre ricordare un importantissimo intervento della Corte Costituzionale, la quale, con la sent. 185/1986, rigettò l’eccezione di incostituzionalità, formulata dal Tribunale di Genova con le ordinanze del 1982 e 1984, delle norme che non prevedevano, nel giudizio di divorzio o di separazione dei coniugi, l’intervento del figlio minore attraverso la nomina di un curatore speciale. Secondo la Corte, infatti, la tutela del figlio minore, nei casi di giudizio di separazione e divorzio dei genitori, doveva ritenersi adeguatamente garantita da tutta una serie di misure, quali l’intervento obbligatorio del p.m., le amplissime facoltà istruttorie del giudice ed il potere del collegio di decidere ultra

9 Ivi, pp. 5 e 6, 17 – 19.

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petita le questioni relative alla prole. In altri termini, la Corte non

ravvisava l’opportunità della nomina di un curatore speciale per il minore, data la mancanza, nel caso specifico, di una reale ed effettiva conflittualità, la quale sussisterebbe, invece, nei casi richiamati agli artt. 320, 321, 330 e 333 c.c. Tra l’altro, la mancata nomina di un curatore speciale per il minore, in casi del genere, non inficiava o escludeva, in alcun modo, la possibilità per il giudice di ascoltare il minore stesso. Sul punto, non si può fare a meno di rilevare che l’audizione dei figli minori, nei giudizi di divorzio, entro strettissimi limiti, è stata legislativamente disposta dall’art. 11 della l.74/1987, che ha sostituito l’art. 6 della vecchia legge sul divorzio (l.898/1970)10. Altresì, a sostegno della propria pronuncia, la Consulta sosteneva che l’attribuzione della qualità di parte ai figli minori, nei giudizi di separazione e divorzio, avrebbe potuto pericolosamente istituzionalizzare il conflitto fra genitori e figli stessi, e ciò, inutilmente, a discapito di quest’ultimi. In sostanza, secondo l’orientamento della Corte Costituzionale, i giudizi di separazione e divorzio non incidono, né si riflettono, ovviamente da un punto di vista prettamente processualistico, sullo status dei figli minori, come invece accade nei giudizi di disconoscimento e di adottabilità11.

Infine, sempre in contesto comunitario occorre menzionare altri due provvedimenti normativi:

- la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina del 4 aprile 1997, la quale pone l’accento sul parere del minore rispetto al trattamento medico da eseguire sulla persona, ritenendo che esso debba essere preso in considerazione come fattore determinante per la decisione in ragione dell’età e del grado di maturità del minore stesso;

10 Ivi, p. 18

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- la Carta di Nizza del 18 dicembre 2000, la quale, all’art. 24, stabilisce che i bambini «possono esprimere liberamente la propria opinione», venendo questa presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità12.

1.2 La disciplina nazionale

Nel nostro ordinamento una formale disciplina sull’ascolto del minore è stata per lungo tempo scarna, se non del tutto assente. In origine, infatti, la legge sul divorzio all’epoca vigente (l. 898/1970), agli artt. 4 e 6, prevedeva che l’audizione dei minori avrebbe dovuto avvenire soltanto ove il Presidente (o il giudice istruttore) lo avesse ritenuto «strettamente necessario, anche in considerazione della loro età». A seguito delle modifiche apportate dalla l. 74/1987, tale regola non rimase più confinata al solo processo di divorzio, ma venne estesa anche al processo di separazione. Tuttavia, rimaneva un inconveniente di fondo: ossia il fatto che l’audizione continuava a costituire un atto facoltativo, rimesso non soltanto alla discrezionalità del giudice, ma, anzi, ad una rigorosa valutazione circa la sua indispensabilità, con la conseguenza ulteriore che nella prassi trovava scarsa applicazione13.

Rispetto, invece, al procedimento di adozione, nel quale il coinvolgimento della sfera esistenziale del minore è sicuramente maggiore e più profondo, con l’entrata in vigore della l. 8 febbraio 2006 n. 54, sul c.d. “affidamento condiviso”, si è assistito ad un primo rilevante cambiamento di impostazione. La legge in questione, infatti, con l’introduzione nel codice civile dell’art. 155 – sexies, prevedeva che il giudice, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti temporanei, disponesse l’audizione del figlio minore

12 P. Virgadamo, op. cit., p. 1657. 13 F. Danovi, op. cit., p. 1597.

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che avesse compiuto dodici anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Tuttavia, tale disposizione, a seguito delle modifiche apportate in materia dal d.lgs. 154/2013 (in attuazione della legge delega sulla filiazione 219/2012), è stata sostituita con l’art. 337 –

octies c.c., il quale, pur confermando lo stesso contenuto di carattere

precettivo del vecchio art. 155 – sexies c.c., stabilisce che «il giudice dispone l’ascolto del figlio che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento», come se fosse per lui un preciso obbligo. Laddove, però, ci si trovi nell’ambito di procedimenti «in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli», «il giudice non procede all’ascolto, se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo»14.

Altresì, il d.lgs. 154/2013 ha ripreso il tema in numerose altre disposizioni, come, ad esempio, all’art. 252 c.c., il quale, al comma 2, stabilisce che «l’eventuale inserimento del figlio nato fuori del matrimonio nella famiglia legittima di uno dei due genitori può essere autorizzato dal giudice qualora ciò non sia contrario all’interesse del minore e sia accertato il consenso dell’altro coniuge e dei figli che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e siano conviventi, nonché dell’altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento». A tale articolo è stato aggiunto, poi, un 5° comma, secondo il quale «in caso di disaccordo tra i genitori, ovvero di mancato consenso degli altri figli conviventi, la decisione è rimessa al giudice». Questi, dal canto suo, prima di procedere all’adozione del provvedimento, dovendo tenere conto dell’interesse dei minori stessi, è tenuto ad ascoltarli, purché abbiano compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore, ove capaci di discernimento.

Ancora, con la riforma del 2013 sono stati modificati ulteriori articoli del codice civile, quali:

14 P. Virgadamo, op. cit., pp. 1659 – 1660.

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- l’art. 262, ult. co., c.c., secondo cui «nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento»15. A tal riguardo, la Corte Costituzionale, con la sent. 297/1996, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo in esame «nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell’assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale».

- l’art. 273 c.c., il quale, in tema di azione giudiziale di paternità o maternità, stabilisce che essa può essere promossa dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale prevista dall’art. 316 o dal tutore; laddove, però, il figlio abbia compiuto l’età di quattordici anni, perché l’azione possa essere iniziata o proseguita, occorre che questi presti il suo consenso16;

- l’art. 316 c.c., secondo cui «la potestà genitoriale è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori, ciascuno dei quali, in caso di contrasto su questioni di particolare importanza, può ricorrere senza formalità al giudice». Questi, «sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di

15 Ibid. 16 Ibid.

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discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare». Se, poi, «il contrasto dovesse permanere, il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio»17;

- l’art. 336 c.c., il quale detta la disciplina dei procedimenti relativi all’esercizio della responsabilità genitoriale e all’amministrazione del patrimonio, i quali non assumono tanto natura contenziosa, giacché non vi è alcuna contrapposizione tra le parti in causa, ma si pongono solo l’esigenza di realizzare il superiore interesse del minore, potendo anche qui il giudice disporne l’ascolto in applicazione del principio generale contenuto nell’art. 315 – bis c.c., 3° comma18;

- l’art. 336 – bis c.c. – interamente dedicato all’ascolto del minore – il quale predispone una disciplina unitaria, ma non del tutto esaustiva, dell’ascolto del minore nelle diverse procedure che lo riguardano19. In particolare tale disposizione

stabilisce che «il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento, dandone atto con

17 Ibid. 18 Ibid.

19Ibid. Cfr. anche G. Ballarini, Contenuto e limiti del diritto all’ascolto nel nuovo

art. 336 – bis c.c.: il legislatore riconosce il diritto del minore a non essere ascoltato,

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provvedimento motivato. L’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. I genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il p.m., sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice, al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento. Prima di procedere all’ascolto il giudice informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto. Dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale è descritto il contegno del minore, ovvero è effettuata registrazione audio video»20.

- l’art. 38 – bis disp. att. c.c., sulle modalità operative inerenti l’ascolto, secondo cui i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, ed il pubblico ministero, qualora l’ascolto del minore avvenga in un luogo diverso da quello in cui si trova e la salvaguardia del minore stesso è assicurata con idonei mezzi tecnici, quali l’uso di un vetro specchio unitamente ad impianto citofonico, possono seguire il compimento dell’atto senza dover chiedere l’autorizzazione al giudice prevista dall’art. 336 bis, 2° comma c.c.21.

Sempre a seguito della grande riforma sulla filiazione, è stato introdotto anche l’art. 315 – bis c.c., il quale, al 3° comma, stabilisce che «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età

20 L’audizione, dunque, oggi, a differenza di quanto si ammetteva in passato, rappresenta un dovere personale del giudice, il quale, però, prima di procedervi, deve sempre valutare l’interesse del minore, potendo farsi assistere da esperti, ma non potendo loro delegare il compimento di tale atto.

21 F. Danovi, op. cit., pp. 1597 – 1598 e 1601 – 1602. Cfr. anche G. Manera,

L’ascolto dei minori nelle istituzioni, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1997,

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inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano». Significativo è il richiamo fatto alle “questioni” e “procedure” che riguardano il minore: il legislatore, in tal modo, ha voluto sottolineare la necessità che l’ascolto non debba esplicarsi solo ed esclusivamente sul versante della tutela giurisdizionale, ma anche e soprattutto nell’ambito delle stesse relazioni familiari e in tutti i procedimenti amministrativi in cui sia necessario assumere determinate scelte che riguardano la vita del minore, quali, ad esempio, le scelte inerenti la salute (i procedimenti autorizzativi dell’interruzione volontaria di gravidanza relativi a minorenni), quelle relative a diritti connessi all’identità (l’acquisto di un’ulteriore cittadinanza o il rilascio del passaporto) ecc22.

Altresì, l’ascolto del minore deve ritenersi consentito anche nei procedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale previsti dagli artt. 330 e 333 c.c. Si tratta, in particolare, di procedimenti che hanno «natura composita», ossia natura sanzionatoria degli abusi della potestà genitoriale già commessi, e natura preventivo – protettiva, in quanto tendenti ad evitare la ripetizione dei danni già causati o la protrazione dei loro effetti. In particolare, si tratta di misure che, nella prospettiva di garantire la posizione e la personalità del minore, mediante l’eliminazione della situazione pregiudizievole, possono essere adottate dal giudice ex officio, senza la volontà delle parti, con la conseguenza ulteriore che il giudice potrà assumere tutte le informazioni che reputa necessarie e opportune, compresa anche l’audizione del minore23.

Infine, occorre considerare l’ascolto del minore in materia di tutela dei suoi interessi, patrimoniali e personali. In campo patrimoniale, l’art. 321 c.c. prevede, su richiesta del minore stesso, la nomina di un curatore speciale per il compimento di atti di straordinaria

22 F. Danovi, op. cit., p. 1601.

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amministrazione che i genitori, o uno di essi, non vogliono compiere. In ambito personale, invece, abbiamo, da un lato, l’art. 348, comma 3 c.c., il quale stabilisce che «il giudice, prima di procedere alla nomina del tutore, dispone l’ascolto del minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento», e, dall’altro, l’art. 371 c.c., secondo cui il giudice tutelare, compiuto l’inventario dei beni, «delibera sul luogo dove il minore deve essere allevato e sul suo avviamento agli studi o all’esercizio di un’arte, mestiere o professione, sentito lo stesso minore se ha compiuto gli anni dieci e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Si tratta, in realtà, di decisioni che riguardano più questioni economiche che personali, poiché mirano a garantire l’educazione del minore con il patrimonio di sua competenza, ossia con i mezzi economici a lui appartenenti e risultanti dall’inventario24.

1.2.1 Riferimenti costituzionali

Sul piano costituzionale, l’ascolto del minore, a seconda della dimensione in cui lo si consideri, trova aggancio in diverse disposizioni della Costituzione25.

In prima battuta, il diritto del minore ad essere ascoltato, nel confronto anche con quanto stabilito dalla Carta di Nizza, assume rango costituzionale, poiché lo si può inquadrare nell’alveo dei cc.dd. “diritti inviolabili della persona umana”. Esso, quindi, è riconducibile a quell’insieme di situazioni giuridiche di natura esistenziale afferenti alla persona umana, espressamente richiamate all’art. 2 Cost., con la conseguenza ulteriore, pertanto, che «non sono ammesse né deroghe, né scarti sulla base delle condizioni personali» (art. 3 Cost. e art. 21

24 G. Manera, op. cit., pp. 1554 e 1559. Cfr. anche G. Ballarini, op. cit., pp. 844 – 845.

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Carta di Nizza, che contempla l’età nel novero dei divieti di discriminazione)26. In secondo luogo, il diritto in esame può

certamente considerarsi materia di rango costituzionale, poiché riguarda, da un lato, il fondamento stesso del principio del contraddittorio nel processo civile e, quindi, gli artt. 24 e 111 Cost.; dall’altro, invece, attiene a quelli che possono considerarsi, e che la Costituzione stessa, al titolo secondo, chiama «rapporti etico – sociali», i quali fanno della responsabilità genitoriale un diritto – dovere dei genitori. Ci si riferisce, in particolar modo, all’art. 30 Cost., il quale, per l’appunto, pone in capo ai genitori il diritto – dovere di «mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio»27.

Infine, considerando il diritto di ascolto del minore nel suo contenuto proprio, lo si può considerare anche come esplicitazione del diritto di manifestazione del proprio pensiero e, quindi, riconducibile all’art. 21 Cost. Diritto di ascolto, infatti, significa, tra l’altro, diritto di esprimere la propria opinione e di vederla presa in considerazione. Tuttavia, occorre chiarire che, per quanto il diritto di ascolto possa considerarsi manifestazione della garanzia costituzionale di cui all’art. 21 Cost., esso non deve essere “confuso” (nel senso letterale del termine) con il diritto all’autodeterminazione. Quest’ultimo, infatti, si realizza, in termini giuridici, mediante il conferimento (legale) della piena capacità di agire, mentre, per potersi esercitare il primo, basta il fatto di possedere una sufficiente capacità di esprimersi. Il riconoscimento del diritto di parola e/o di opinione, infatti, appartiene all’ordine naturale delle cose e riguarda ogni essere umano dotato di giudizio sufficiente e di mezzi idonei per comunicare con altri esseri

26 Ibid.

27 P. Martinelli, Spunti di aggiornamento sugli ascolti del minore, in «Minori e giustizia», 2006, p. 148.

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umani28. Non a caso, l’art. 21 Cost., ma anche l’art. 24 Cost., utilizzano l’espressione “tutti”: «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…» (ex art. 21 Cost.) e «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (art. 24 Cost.). In sostanza, il diritto di manifestazione del proprio pensiero ed il diritto di autodeterminazione rappresentano, in qualche maniera, due facce della stessa medaglia: rappresentano, cioè, il graduale esercizio della libertà di un soggetto – da quella minima di espressione del pensiero a quella massima di autodeterminazione. Pertanto, una prima forma di abuso lieve del diritto di manifestazione del pensiero del minore consisterebbe nel trascurare o impedire che il soggetto esprima la propria opinione sulle faccende che rivestono una qualsiasi importanza della sua vita di relazione, per cui, in ragione di ciò, tra autorità dei genitori, ai quali appartiene il potere di decisione, e diritto di espressione dei minori dovrebbe instaurarsi più un rapporto di collaborazione. Non sarebbe, infatti, possibile concepire un corretto esercizio della prima, se l’attuazione del secondo non è da essa incoraggiato29.

1.3 Sulla natura e sul contenuto del diritto di ascolto

del minore

Passando ad analizzare la natura del diritto di ascolto del minore, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel considerare il diritto in esame quale diritto soggettivo assoluto, per cui, in quanto tale, va considerato come «fondamentale posizione di vantaggio accordata dall’ordinamento ad un soggetto in ordine ad un bene e consistente nella attribuzione dei relativi poteri, pretese e facoltà atti a consentirgli

28 G. Magno, op. cit., pp. 13 – 14. Cfr. anche B. Albanese, Scritti sul minore in

memoria di F.L. Morvillo, giuffrè, Milano, 2001.

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la piena realizzazione dell’interesse che quel bene rappresenta per lui»30. Sono due, quindi, le parole – chiave che, in tale prospettiva,

contraddistinguono un qualsiasi diritto soggettivo assoluto e, in modo particolare, nel nostro caso, il diritto del minore ad essere ascoltato:

- il bene, il quale, rispetto al diritto in esame, è da rintracciarsi «nell’affermazione della personalità e dell’identità del minore», al quale non si può non attribuire la possibilità di esprimere le proprie opinioni in ordine a tutte quelle scelte che, venendo assunte molto spesso da terzi, vanno ad incidere sulla propria sfera esistenziale e di relazione31;

- l’interesse, il quale, «essendo direttamente connesso al sano e armonico sviluppo psichico, fisico e relazionale del minore», si identifica nel fatto che quelle opinioni, che rispecchiano la sua visione, il suo modo di essere, la sua personalità, la sua identità, debbono essere certamente conosciute e tenute in debita considerazione in tutti quei procedimenti che, seppur non lo vedono parte in senso sostanziale o processuale, non possono non riverberare su di lui i loro effetti, diretti o riflessi, andando ad incidere, così, «sulla sua sfera esistenziale e sul suo sano e armonico sviluppo»32. A tal proposito occorre

ricordare un’importante pronuncia della Corte di Cassazione, la quale, con la sent. 22238/2009, ha chiaramente affermato che i minori, in tutti quei procedimenti in cui non possono considerarsi parti del procedimento – come ad esempio accade nei processi che hanno ad oggetto l’affidamento dei figli – in quanto portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei

30 G. Ballarini, op. cit., pp. 849-850. 31 Ibid.

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genitori, devono potersi considerare ugualmente parti in senso sostanziale33.

Ora, in quanto diritto soggettivo assoluto, il diritto del minore ad essere ascoltato va considerato anche sotto un’altra sfaccettatura, ossia come diritto a non essere ascoltato. Se, da un lato, infatti, l’esercizio del diritto in esame costituisce per il minore una facoltà discrezionale, dall’altro, non si vede per quale motivo l’esercizio dello stesso diritto non debba ricomprendere in sé la contrapposta facoltà al non esercizio. Se così non fosse, quello che per il giudice sarebbe più un dovere che una prerogativa discrezionale, diventerebbe per lui un vero e proprio obbligo – obbligo ad ascoltare il minore – con la conseguenza ulteriore, ed ancora più grave, che sul minore graverebbe, a questo punto, l’obbligo di esprimersi e l’obbligo ad essere ascoltato. Evidentemente una cosa del genere apparirebbe del tutto assurda e paradossale, per il semplice fatto che, già, in ossequio a quanto indicato nella Convenzione di Strasburgo del 1996, il diritto del minore ad essere ascoltato risulta funzionale a quello che, riprendendo la formula originaria dell’art. 1 della Convenzione stessa, è “the best

interest of the child”, ossia l’interesse superiore del minore. Pertanto,

a garanzia di questo interesse, il diritto del minore ad essere ascoltato non può non considerarsi sia in positivo, sia in negativo34.

Delineata ormai la situazione giuridica dell’ascolto come diritto soggettivo assoluto della personalità del minore ed individuatone il contenuto sia in positivo che in negativo, occorre adesso considerare tutte quelle che sono le implicazioni riconnesse alla natura propria di un diritto soggettivo assoluto.

In quanto tale, il diritto all’ascolto, oltre che risultare opponibile

erga omnes, potendo, cioè, essere fatto valere indistintamente verso

33 G. Dosi, L’avvocato del minore, G. Giappichelli editore, Torino, 2015, p. 117. 34 G. Ballarini, op. cit., pp. 850 – 851.

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tutti gli altri soggetti, si caratterizza per il rapporto immediato e diretto che si instaura tra il titolare del bene giuridico in questione ed il bene giuridico stesso. Esso, infatti, è costituito dall’affermazione della personalità e dell’identità del minore, per cui non si può non concedere a quest’ultimo la possibilità di esprimere le proprie opinioni in ordine a tutte quelle scelte che vanno ad incidere sulla propria sfera esistenziale e di relazione. In secondo luogo, quale diritto soggettivo assoluto, l’ascolto del minore implica la necessaria presenza di una contrapposta situazione passiva, ossia di tutta una serie di soggetti – terzi al minore – sui quali grava il dovere specifico di rendere realizzabile e, quindi, non impedire il concreto, reale ed effettivo esercizio del diritto in esame. Si tratta, in primo luogo, dei genitori, ma, poi, anche dei parenti, del giudice, del pubblico ministero, degli ausiliari del giudice, del curatore speciale, dei periti, degli operatori del servizio sociale ecc: tutti soggetti che sono chiamati, da un lato, a non impedire al minore di essere ascoltato e, dall’altro, di garantirgli il diritto a non essere ascoltato. In particolar modo, con riferimento al giudice, è su di lui che grava sia l’obbligo di disporre l’ascolto, sia di escluderlo tutte le volte in cui risulta che esso possa recare pregiudizio al minore e, dunque, essere contrario al suo interesse. In tal caso, però, il giudice dovrà dare contezza delle eventuali ragioni impeditive che sconsigliano di procedere al compimento dell’atto; così come è sul giudice che grava l’obbligo di verificare la capacità di discernimento del minore stesso35. Ulteriore conseguenza dell’inquadramento del diritto di ascolto del minore, entro i canoni del diritto soggettivo assoluto, riguarda il fatto che l’ascolto in se stesso ad opera del giudice o, meglio, il momento formale dell’audizione, per quanto possa far parte della fase istruttoria – poiché contribuisce a dare al giudice un elemento fondamentale di comprensione del thema decidendum –,

35 P. Virgadamo, op. cit., pp. 1669 – 1670. Cfr. anche G. Ballarini, op. cit., pp. 851 e 852.

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sarebbe del tutto errato considerarlo un vero e proprio atto istruttorio. Il momento dell’ascolto, infatti, è ben diverso dalla testimonianza, dall’interrogatorio libero della parte o dall’assunzione di sommarie informazioni, giacché costituisce semplicemente un momento formale del procedimento la cui vera funzione è quella di raccogliere le opinioni e i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto. In sostanza, si tratta di un atto che serve ad orientare il giudice nell’assunzione di tutte quelle decisioni necessarie o, comunque, opportune per il fanciullo, che vanno ad incidere sulla sua sfera personale ed esistenziale36.

1.4 Ascoltare e non semplicemente “sentire”

Già solo per la lingua italiana, ascoltare e sentire, per quanto possano assumere nella vita quotidiana un significato, tendenzialmente, molto simile, nella realtà stanno a significare due cose ben diverse. Il sentire, infatti, di per sé, non richiede tanto un atto di volontà, ma rimanda semplicemente ad un fenomeno di fisica acustica, per cui un qualunque individuo, in balia delle varie onde sonore che giungono al suo orecchio, si troverebbe costretto a recepirle, senza poter fare altrimenti. In altri termini, chiunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, è in grado ti poter “sentire” la voce di qualcuno o il suono di qualcosa, ma non tutti hanno la capacità di sapere ascoltare l’altro o qualcosa. Ascoltare implica uno sforzo della volontà da parte dell’ascoltatore. Questi, se veramente intende ascoltare colui che gli sta parlando, deve prestargli una particolare attenzione, poiché, è proprio decidendo di ascoltarlo che si mette in comunicazione con lui. Ascoltare significa recepire, ma, soprattutto, comprendere ciò che l’altro ha da dire e vuole comunicare, non solo con il suono delle parole, di un pianto o di un grido, ma anche con

36 Vd. nota 33. Cfr. G. Dosi, op. cit., p. 50.

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l’espressione del volto o del corpo. Non per nulla, lo stesso legislatore, con la riforma del 2013, introducendo gli artt. 336 – bis c.c. e 337 –

octies c.c., ha inteso sostituire il vecchio termine “audizione” con

quello nuovo di “ascolto”, volendo mettere in risalto quell’atteggiamento di attenzione, da parte del giudice, all’opinione del minore, che si realizza, sì, attraverso il momento formale dell’audizione, ma che non si esaurisce in esso37. Il termine “ascolto”,

infatti, rimanda a dei profili di vicinanza e di immedesimazione: non si tratta solo e soltanto di una mera raccolta di dati o di informazioni.

Visto in questa prospettiva, dunque, non appare del tutto esagerato escludere il momento dell’audizione del minore dal novero dei mezzi probatori. A tal proposito, occorre ricordare due pronunce della Corte di Cassazione: la sent. 1838/2011 e la sent. 12739/2011. Con la prima, la Corte ha espressamente affermato che l’ascolto del minore non costituisce un atto istruttorio, «bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto» 38; con la seconda, ha confermato l’orientamento di prima, aggiungendo che il compimento dell’atto, ossia l’ascolto del minore, in tema di adozione, deve svolgersi in modo tale che sia garantito l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione. Questi, quindi, potrà benissimo essere ascoltato da solo, senza che sia possibile l’interlocuzione con i genitori e i loro difensori39.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, l’ascolto del minore rappresenta di certo un’attività di non poco conto, ma soprattutto costituisce un’operazione assai delicata. Saper ascoltare, infatti, significa saper accogliere il minore come persona, in quanto tale, e poi

37 L. Fadiga, op. cit., pp. 132 – 133. Cfr. G. Dosi, op. cit., p. 50. 38 Ibid.

39 Cfr. F. Tommaseo, Per una giustizia “a misura del minore”: la Cassazione ancora

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saper cogliere appieno i suoi desideri, i suoi pensieri, le sue ansie, le sue paure, le sue richieste d’aiuto, considerando realmente la condizione di fragilità e vulnerabilità in cui vive. Pertanto, perché l’ascolto possa risultare davvero utile ed efficace occorre che i genitori, in primis, ma anche, e soprattutto, tutti coloro che si occupano istituzionalmente dei minori (giudici, avvocati, medici, insegnanti, assistenti sociali, psicologi ecc.), siano educati ad avere, non solo grande disponibilità ad ascoltare: essa stessa da sola non basta; occorre che abbiano, soprattutto, orecchie e cuore aperti a recepire, accogliere e comprendere fino in fondo i messaggi che i minori lanciano loro quando si trovano in difficoltà40.

L’ascolto autentico, però, perché possa veramente realizzarsi, presuppone che vi sia nell’adulto l’integrazione della dimensione razionale e cognitiva con quella emozionale: occorre, cioè, che vi sia integrità nella sua personalità, poiché solamente la consapevolezza di se stessi consente di interagire veramente con l’altro, tenendo sotto controllo il rischio inevitabile di proiezioni personali, letture precostituite e di pregiudizi vari. Seguendo questa impostazione, quindi, chi si assume la grande responsabilità di ascoltare l’altro, andando incontro a quelle che sono le sue esigenze, i suoi bisogni ecc., a maggior ragione, se si tratta di un minore, ha il dovere, utilizzando un’espressione dell’autrice Marisa Persiani, di «essere esatto a se stesso», poiché è solamente in questo modo che si può essere veramente capaci di ascoltare l’altro41.

In conclusione, possiamo dire che quella dell’ascolto non è tanto un’operazione auditiva, quanto “affettiva”. Essa implica, infatti, un’attivazione mentale che richiede particolare cura, attenzione, interesse e protezione da parte dell’ascoltatore. Questi, se veramente

40 G. Manera, op. cit., pp. 1570 – 1572.

41 M. Persiani, L’ascolto del minore: pregi e ambiguità di una norma condivisibile

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intende ascoltare l’altro, non può non assumere un atteggiamento di benevolo avvicinamento al soggetto che con lui sta interloquendo.

In termini psicologici ascoltare vuol dire sostanzialmente capire e, per poter capire veramente l’altro, bisogna con lui interagire, condividere, finanche mettere in comune: occorre, cioè, un ascolto partecipe ed empatico, rispetto al quale, però, bisogna anche assumere un atteggiamento di certo distacco. In tal modo, sarà possibile mantenere, contestualmente, il senso della differenza fra i due partners della comunicazione. Non di rado capita, infatti, che l’adulto si illude di ascoltare, quando, invece, tende ad attribuire al minore le proprie idee ed i propri sentimenti42. Non è quindi né semplice, né immediato saper creare un vero e proprio rapporto con il minore: ascoltare il minore nel vero senso della parola significa saper metterlo in condizione di aprirsi sulle varie difficoltà e sui suoi diversi problemi. Tra l’altro, anche parlando con il terapeuta o lo psicologo, il minore non è detto che si mostri sempre sincero e leale: può, infatti, continuare nelle sue fantasie e nascondere la realtà per difendersi. A tal riguardo, così si è espressa un’illustre autrice (D’Antonio): «ascoltare il minore può così non essere sufficiente se egli non ha modo o coraggio di esprimersi…Ascoltare il minore dovrebbe significare permettergli innanzitutto di “leggere” egli stesso, in modo più adeguato, la sua realtà, in uno spazio in cui poter riflettere su di essa senza il timore di alienarsi l’approvazione di quegli adulti di cui ha bisogno…»43. Occorre, quindi, considerare tutto l’ambiente in cui vive il minore: i genitori, le relazioni fra di loro e con il minore stesso, la comunità che ruota attorno alla famiglia, ossia i parenti, gli amici, i collaboratori e così via. In tal modo, conoscendo a fondo tutto l’ambiente in cui si svolge la vita del minore, il giudice, o comunque il soggetto che, in

42 C. Foti, Il bambino inascoltato. Quando si dice ascolto, in «Minorigiustizia», 2/’93, p. 30

43 E. Maschio, Minori ed interventi di sostegno in loro favore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1994, p. 1022. Cfr. D’Antonio, Ascoltare il minore, Milano, 1990, 127.

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concreto, procede all’ascolto del minore, è maggiormente in grado di trarre le conseguenze sulla tutela e protezione dell’interesse del minore stesso44.

44 E. Maschio, op. cit., p. 1022.

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C

APITOLO SECONDO

L’ascolto del minore nel processo civile

2.1 Capacità di agire e capacità processuale del minore

In via generale, capacità di agire e capacità processuale possono considerarsi due facce della stessa medaglia: sono, infatti, l’una speculare dell’altra. La capacità d’agire, espressamente richiamata all’art. 2 c.c., indica l’attitudine di un soggetto maggiorenne a compiere atti giuridici idonei a modificare la propria sfera giuridica; indica, cioè, l’idoneità di un soggetto, che abbia compiuto il diciottesimo anno di età, «a porre in essere un’attività giuridicamente rilevante, consistente nell’acquisto o nell’esercizio di diritti ovvero nell’assunzione di obblighi, mediante una manifestazione di volontà che l’ordinamento considera a priori cosciente e consapevole»45. La

capacità processuale, invece, consiste nell’idoneità di un soggetto, sempre maggiorenne, a compiere atti processuali. Stabilisce, a tal proposito, l’art. 75 c.p.c. che «sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere», per cui, seguendo questa logica, possiamo benissimo asserire che «ha capacità processuale chiunque ha la capacità d’agire sul piano sostanziale in relazione al diritto controverso»46.

Ma, attenzione, colui che in un processo compie determinati atti rappresenta la c.d. parte in senso formale. Ad essa si contrappone la parte in senso processuale, la quale è abilitata ad essere destinataria di quelli che sono gli effetti degli atti processuali. Si parla a tal proposito

45 U. Breccia – L. Bruscaglia – F.D. Busnelli – F. Giardina – A. Giusti – M.L. Loi – E. Navarretta – M. Paladini – D. Poletti – M. Zana, Diritto privato, tomo primo, Utet giuridica, Torino, 2009, p. 91.

46 F. P. Luiso, Diritto processuale civile, tomo I, Giuffrè editore, Milano, 2001, p. 208

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della «capacità di essere parte»47. Questa, di contro, è speculare alla c.d. capacità giuridica di cui all’art. 1 c.c., per cui si identifica con l’attitudine di un qualsiasi soggetto, maggiorenne o minorenne, ad essere titolare di diritti ed obblighi. Sulla base di quanto detto, dunque, il minore, può, certamente, considerarsi parte in senso processuale, ma non parte in senso formale. Egli, pur potendo essere destinatario degli effetti degli atti processuali, non potrà compiere autonomamente tali atti. Il minore, quindi, da quest’ultimo punto di vista, rappresenta un incapace. Di conseguenza, potrà stare in giudizio, quale parte in senso formale, solo e soltanto se rappresentato da uno dei due genitori o dal tutore, con la conseguenza ulteriore che, in tal modo, si viene a creare una scissione tra le due parti: parte in senso processuale, che si identifica col minore, e parte in senso formale, che si identifica col rappresentante. Tuttavia, laddove dovesse mancare il rappresentante o dovesse sussistere un conflitto d’interessi tra lui e il rappresentato, il giudice, su istanza di parte (p.m., rappresentato stesso e rappresentante), provvederà, con decreto, alla nomina del c.d. curatore speciale, chiamato a rappresentare il minore soltanto in quel processo. Tuttavia, bisogna precisare che, in quest’ultimo caso, la rappresentanza degli interessi del minore e l’assistenza in giudizio ad opera del rappresentante legale – genitore, tutore, curatore – non basta: per poter assumere la qualità di parte in senso formale, occorre anche che il minore sia assistito da un professionista legale, ossia da un difensore tecnico48. Da qui si capisce bene il motivo per cui la Corte Costituzionale, con la sent. 185/1986, abbia rigettato l’eccezione d’incostituzionalità, presentata dal Tribunale di Genova, relativamente a quelle norme che non prevedono, nei giudizi di separazione e divorzio, l’intervento del figlio minore attraverso la nomina di un curatore speciale. Secondo la Corte, infatti, l’eventuale nomina di un

47 Ibid.

48 G. Magno, Il minore come soggetto processuale, Giuffrè editore, Milano, 2001, p. 19.

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curatore speciale risulterebbe del tutto inutile e superflua, giacché gli interessi dei figli minori, che si trovano indirettamente coinvolti nel procedimento, risulterebbero ampiamenti tutelati da tutta una serie di misure, quali l’intervento obbligatorio in giudizio del pubblico ministero, le amplissime facoltà istruttorie che il giudice ha a disposizione ed il potere che questi ha di decidere ultra petita le questioni relative alla prole49.

Ora, esempi di procedimenti in cui il minore assurge a ruolo di parte in senso formale, possono considerarsi quei giudizi aventi ad oggetto lo status filiationis, l’adozione e le controversie de potestate di cui agli artt. 330 ss. c.c.; mentre, quelli in cui non riveste tale qualità, sono i giudizi di separazione e divorzio50. Nei primi, infatti, il minore «agisce o resiste in giudizio a difesa di un diritto suo proprio in materia di stato, di lavoro, patrimoniale in genere od anche per la rivendicazione di diritti, la cui titolarità gli è direttamente riconosciuta dalla Costituzione, dalla Convenzione internazionale e dalle leggi». Nei secondi, invece, la res judicanda concerne questioni che interessano, sostanzialmente, inter alios, ossia i genitori, per cui difetta quello che all’art. 100 c.p.c. è rubricato come l’interesse ad agire. Stabilisce, infatti, la suddetta disposizione che «per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse»51.

49 Ivi, p. 18.

50 G. Savi, L’atto processuale dell’ascolto ed i diritti del figlio minore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2013, p. 1357.

51 Ciò assume una particolare rilevanza per una semplice e fondamentale ragione di economia processuale. Se tutte le domande, per il solo fatto di essere presentate, dovessero essere accolte, senza che si proceda ad una valutazione sulla loro fondatezza, i tribunali sarebbero completamente carichi di lavoro, più di quanto lo siano adesso.

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2.2 L’ascolto del minore nei procedimenti che lo

riguardano

Per quanto il minore possa assumere, in alcuni procedimenti, il ruolo di parte in giudizio – parte in senso formale o parte processuale –, ai fini della trattazione del diritto in esame non cambia nulla. L’ascolto del minore, infatti, prescinde dal fatto che questi sia o meno parte in giudizio, poiché non costituisce un atto probatorio, ma un semplice mezzo processuale. Esso è strumentale all’acquisizione di tutti quegli elementi che, in vista del superiore interesse del minore, possano permettere al giudice di pervenire ad una decisione che sia il più possibile vicina e conforme alle ragioni della sua preminente e reale tutela52. L’ascolto del minore, in altri termini, come ha bene precisato la Corte di Cassazione, con la sent. 1838/2011, costituisce «un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda processuale in cui risulta coinvolto»53. Per questo, nei casi in cui il minore non assume il ruolo di parte in giudizio, nel presupposto che il procedimento nel quale è coinvolto non può non incidere sui suoi fondamentali interessi, parte della dottrina ha elaborato il concetto generico di “parte in senso sostanziale”. In tal modo, essa intendeva riferirsi a quel soggetto che, risultando tra i destinatari del provvedimento conclusivo, riceveva una tutela soltanto indiretta o mediata54. Tuttavia, una simile conclusione non ha ricevuto un ampio consenso, poiché, pur volendosi qualificare il minore, anche in questo caso, come “parte”, rimane fermo il fatto che si tratta di un soggetto

52 G. Ballarini, Contenuto e limiti del diritto all’ascolto nel nuovo art. 336 – bis c.c.:

il legislatore riconosce il diritto del minore a non essere ascoltato, in «Il diritto di

famiglia e delle persone», 2014, p. 853. Cfr. G. Savi, L’atto processuale dell’ascolto

ed i diritti del figlio minore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2013, p. 1346.

53 G. Dosi, L’avvocato del minore, G. Giappichelli editore, Torino, 2015, p. 47. 54 G. Savi, L’atto processuale dell’ascolto ed i diritti del figlio minore, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 2013, p. 1360.

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che è e resta privo di tutti quei diritti e poteri processuali, strictu sensu, che gli possano permettere di tutelare le proprie posizioni soggettive.

A questo punto, bisognerebbe, quindi, chiederci quanto sia davvero importante inquadrare, da un punto di vista meramente processualistico, la posizione del minore in tutti quei procedimenti in cui non assume la qualifica di “parte”. La sua posizione, infatti, risulta ugualmente tutelata da uno strumento – quale è l’ascolto del minore – additato dalla Corte di Cassazione, con la sent. 7478/2014, come idoneo a salvaguardare i propri diritti e i propri interessi, in tutti quei casi in cui, trovandosi coinvolto in vicende processuali che vedono come protagonisti esclusivi i genitori, con essi si trova in una situazione di conflitto di interesse55. Tra l’altro, come anticipato nel primo capitolo, esistono due norme specifiche che riconoscono al minore il diritto di essere ascoltato, a prescindere dal suo essere o meno parte in giudizio: l’art. 315 – bis c.c., co. 3, il quale stabilisce che «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano» e l’art. 336 – bis c.c., che attribuisce al minore lo stesso diritto «nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano». Tuttavia, per quanto il minore abbia il diritto di essere ascoltato e, dunque, il diritto di “dire la sua”, sia nel primo, che nel secondo caso, occorre chiarire che l’ascolto del minore ha natura e funzioni profondamente diverse, a seconda del contesto e dell’istituto in cui viene calato.

Ora, in relazione alle ipotesi di affidamento familiare, occorre distinguere a seconda che si tratti di affidamento consensuale o affidamento contenzioso. Nel primo caso, quando, cioè, i genitori o il tutore abbiano espresso il consenso all’affidamento, esso, ai sensi dell’art. 4 della l. 184/1983, come modificato dalla l. 173/2015, viene

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«disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento». Il provvedimento – prosegue l’articolo in esame – verrà, poi, reso esecutivo con apposito decreto dal giudice tutelare del luogo ove si trova il minore. Nel secondo caso, invece, ove manchi «l’assenso dei genitori esercenti la responsabilità o del tutore», l’affidamento sarà pronunciato dal tribunale dei minori con decreto motivato, a seguito di un procedimento camerale attivato dal servizio locale, dagli affidatari o d’ufficio, venendo conseguentemente applicati gli artt. 330 e seguenti del codice civile56.

Un discorso diverso, invece, va fatto per quanto riguarda l’adozione. Ai sensi dell’art. 7 della l. 184/1983, perché il minore possa essere adottato, laddove abbia compiuto il quattordicesimo anno di età, occorre che presti il proprio consenso, il quale va manifestato anche quando l’età predetta venga raggiunta nel corso del procedimento. Laddove, invece, abbia compiuto il dodicesimo anno di età, il minore dovrà essere sentito personalmente, così come dovrà essere sentito personalmente anche nel caso in cui abbia un’età inferiore: in quest’ultimo caso, però, l’ascolto del minore andrà commisurato in relazione a quella che è la sua capacità di discernimento. Ora, mentre nel primo caso (adozione di un minore quattordicenne) il consenso del minore costituisce un requisito essenziale e indispensabile perché si possa procedere all’adozione, nel secondo (adozione di un infraquattordicenne) l’ascolto del minore dodicenne o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, non assume alcun valore di elemento essenziale e costitutivo della stessa, ma assume una finalità meramente istruttoria, volta ad acquisire tutti quegli elementi utili per capire il giudice se il minore versa o meno in

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una situazione di abbandono57. Pertanto, se, nel primo caso, sarà il minore quattordicenne a decidere, in qualche modo, se essere adottato o meno, poiché senza il suo consenso non potrà farsi luogo all’adozione, nel secondo, sarà il giudice stesso a dover prendere una decisione, verificando, previo ascolto del minore infradodicenne, «la mancanza di assistenza morale e materiale dei genitori e dei parenti entro il quarto grado tenuti a provvedervi». Questa differenza di trattamento trova la propria ratio nel fatto che, mentre il minore quattordicenne è in grado di capire ciò che per lui è meglio o peggio, bene o male, giusto o sbagliato, per cui si dà per acquisita una sua capacità di discernimento, lo stesso discorso non può farsi per il minore infradodicenne: in tal caso, il giudice occorre che instauri con lui un colloquio per capire se davvero risulta titolare o meno di una, seppur minima, capacità di discernimento.

Ora, rispetto a quelle che sono le procedure di adottabilità, la Corte di Cassazione è intervenuta nel 1997 con la sent. n. 6899, con la quale ha osservato che «nella disciplina ex legge n. 184/1983, l’esigenza di ascoltare il minore – nella duplice previsione dell’audizione obbligatoria per l’ultradodicenne e facoltativa per l’infradodicenne – costituisce una costante intesa a riconoscere ed attribuire concreta rilevanza alla personalità ed ai bisogni essenziali del minore stesso, ogniqualvolta devono essere adottati provvedimenti nel suo interesse; tali provvedimenti, pertanto, non vanno adottati a priori sulla base di un criterio di adeguatezza generica, ma in rapporto diretto con le specifiche circostanze d’ogni caso concreto e con le correlative esigenze minorili, che non possono non emergere da un diretto colloquio con l’adottando». In particolare, la Corte di Cassazione aveva cassato per “vizio di motivazione” una sentenza di merito della Corte d’appello di Milano che aveva dichiarato l’adottabilità di un

57 G. Manera, L’ascolto dei minori nelle istituzioni, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1997, pp. 1556 – 1557.

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infradodicenne, profondamente legato alla famiglia d’origine, senza averlo ascoltato personalmente e direttamente. Secondo la Suprema Corte, infatti, i provvedimenti nell’interesse del minore non devono essere stabiliti a priori, ma devono essere rapportati alle reali esigenze del caso concreto, previo colloquio diretto con il minore stesso. Tuttavia, per quanto la pronuncia in esame potesse avere alla base una sua logica, a mio parere non del tutto errata, bisogna mettere in evidenza anche taluni aspetti critici che lasciano trapelare la dubbia ragionevolezza e fondatezza delle conclusioni a cui è giunta la Corte nel caso in esame. Ciò che, infatti, si potrebbe, in primo luogo, contestare alla Corte è l’assurdità della decisione presa di cassare una sentenza di un giudice d’appello che abbia ritenuto opportuno di non ascoltare il minore, tra l’altro anche infradodicenne, discostandosi, così, da quanto stabilisce la legge stessa 184. Essa, in più parti, infatti, considera come obbligatoria solo l’audizione del minore ultradodicenne e non anche quella del minore infradodicenne, che risulta, invece, facoltativa e discrezionale. In secondo luogo, la pronuncia della Cassazione appare anche superficiale, poiché, nel considerare le disposizioni che giustificherebbero la decisione presa (artt. 7, comma 3°; 25; 10, comma 5°; 15, comma 2°; 22, comma 4°; 23, comma 3°), non tiene conto della loro diversa natura e portata, messa più volte in evidenza dalla stessa dottrina e giurisprudenza. Come detto, prima, infatti, ed è il caso di ribadirlo, mentre l’audizione del minore quattordicenne è prevista ad substantiam (essendo il consenso del minore ultradodicenne elemento costitutivo dell’adozione, senza il quale l’adozione stessa non può considerarsi valida ed efficace), l’audizione del minore dodicenne, o anche di età inferiore ove capace di discernimento, è prevista ad probationem: assume, infatti, una finalità meramente istruttoria, volta ad acquisire il maggior numero di elementi e informazioni possibili per verificare la sussistenza o meno dello stato di abbandono del minore stesso. In terzo

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luogo, occorre contestare alla Cassazione anche la stringata e laconica motivazione della sentenza in esame. Non si comprende, infatti, se la Corte abbia contestato al giudice di merito il fatto di non aver voluto proprio ascoltare il minore personalmente (come sembrerebbe dalla massima), o di non aver tenuto minimamente conto della sua volontà di non volere abbandonare la sua famiglia d’origine, alla quale si sentiva profondamente legato. Infine, paradossalmente, bisogna notare come la Corte stessa si contraddica da sola: se, da un lato, infatti, riconosce la natura obbligatoria dell’audizione del minore ultradodicenne e facoltativa quella dell’infradodicenne, dall’altro, di fatto, considera obbligatoria anche quella di quest’ultimo, senza porsi in alcun modo il problema di quelle che sarebbero le conseguenze derivanti dalla mancata audizione del minore e senza chiarire soprattutto se tale audizione debba essere prevista a pena di nullità58. In particolare, sulle conseguenze della mancata audizione del minore torneremo in seguito: basti, al momento, chiarire la natura obbligatoria dell’ascolto per il minore ultradodicenne e la natura discrezionale per quello infradodicenne.

Nei procedimenti di separazione e divorzio, l’ascolto del minore acquisisce una finalità ancora più diversa rispetto a quella che assume in ambito di adozione. In tali contesti, infatti, i minori, per quanto non siano di per sé abbandonati o trascurati dai loro genitori, non possono non risentire dei pregiudizi derivanti dalla crisi familiare. Il giudice, quindi, nell’affidare i figli all’uno o all’altro genitore, laddove non sia stato possibile disporre l’affidamento condiviso, dovrà necessariamente ed esclusivamente preoccuparsi di quello che è il loro interesse superiore. Il giudice opterà, quindi, per l’affidamento a quel genitore che, secondo lui, risulta essere maggiormente in grado di dare le giuste e maggiori garanzie in relazione a quelli che sono principali

58 Id., Brevi osservazioni sulla pretesa necessità dell’audizione del minore nella

procedura di adottabilità, in «Il diritto di famiglia e delle persone», 1998, pp. 1382

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