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L’E UROPA DEI DITTATORI E L ’A MERICA DI R OOSEVELT

il proprio disimpegno verso l’Europa a seguito della crisi, anche gli osserva- tori e i commentatori di politica internazionale erano stati assorbiti negli affari interni. Con due soli viaggi in Italia dall’inizio della crisi, rispettiva- mente nel 1930 e nel 1931, la giornalista americana aveva concentrato l’at- tenzione principalmente sul regime fascista, rafforzandone l’immagine po- sitiva che si era venuta creando negli Stati Uniti, per quanto persistessero critiche in alcuni settori dell’opinione pubblica. A quegli americani che condividevano il favore della McCormick per l’Italia, Mussolini appariva il capo di stato che meglio stava affrontando le conseguenze europee della crisi. Il dittatore italiano era riuscito a «trasformare il suo paese in una fuci- na fumante», mentre l’ordinamento corporativo era visto dalla McCormick come modello di politica economica contro le insufficienti misure dell’am- ministrazione Hoover, e successivamente paragonato al New Deal da diversi opinionisti e funzionari pubblici. Nell’intervista che Anne ottenne da Mussolini nell’inverno del 1930, quest’ultimo si dimostrò conscio dell’im- magine positiva del fascismo maturata presso molti americani, ed alla giornali- sta americana raccomandò «di riferire all’America che l’Italia stava marciando». L’intervista fu una lunga conversazione informale condotta in inglese da «Sua Eccellenza», che la giornalista elogiò per la padronanza della lingua. «Così studiate i nostri manuali delle scuole elementari e le corporazioni? Brava! Avete individuato i due pilastri fondamentali» le disse di buon umore il Duce, disponibile ad assecondare la curiosità della giornalista americana su diverse questioni: l’esportazione del modello fascista all’estero, la crisi economica negli Stati Uniti, ma anche gli aspetti del regime su cui rimane- vano perplessità e critiche, come l’inasprimento della repressione interna e gli accenti sciovinisti e bellicisti del discorso di celebrazione dell’ottavo anno dell’era fascista. Come già nel messaggio radiofonico agli americani del 1° gen- naio 1931, anche nell’intervista alla McCormick, Mussolini de-enfatizzò i pro- positi espansivi e, alla domanda sul rafforzamento dell’opposizione politica in- terna, rispose che né i vecchi capi liberali - li definì con disprezzo «relitti» - né le sinistre ponevano alcun problema. «Il regime è più saldo che mai» aggiunse, e alla richiesta della americana di visitare Lipari e le altre isole che le risultava fossero state adibite a prigione per gli oppositori politici, Mussolini ostentando stupore la invitò a visitare la «piacevole stazione climatica invernale».

Tra il dicembre 1930 e i primi mesi del 1931 l’osservatrice americana trovò conferma alla solidità del regime. «A Firenze, lungo le vie, nei caffè e nei negozi - scriveva - gli italiani sono costantemente impegnati a conversa- re e se non possono parlare di politica evidentemente trovano interessante

parlare di molti altri soggetti», «le loro facce sono vive in contrasto alle ma- schere accigliate nella metropolitana di New York o all’aspetto infastidito delle folle nelle caffetterie di Cleveland o Sioux City».

Le significative misure di intervento statale nell’economia approntate tra il 1929 ed il 1934 dal regime per affrontare la crisi - un ampio program- ma di lavori pubblici e bonifiche, la regolazione dei conflitti di lavoro e la fascistizzazione e irregimentazione della società attuata dal partito nazionale fascista tramite l’istituzione di organismi di massa che dovevano inquadrare gli italiani e le italiane dalla nascita fino alla vecchiaia - portarono realmente ad un consenso diffuso anche se spesso passivo. La McCormick osservò che «non c’erano in Italia segni di imminente collasso del fascismo», «né sintomi di sollevamento generale, né spirito di guerra, né evidenza di maggior ten- sione popolare sotto la dittatura rispetto a paesi con altri sistemi di governo. Al contrario molta gente sembra essere più soddisfatta in Italia che in altri paesi confinanti, eccetto che in Francia».

A ciò si aggiungeva il prestigio del regime sul piano internazionale: la politica di stabilizzazione europea e di conservazione dell’ordine uscito da Versailles, malgrado qualche oscillazione e qualche colpo di forza come l’oc- cupazione di Corfù nel 1923, garantiva al fascismo molte simpatie nelle liberaldemocrazie occidentali. Specialmente l’Inghilterra e gli Stati Uniti lo consideravano un baluardo contro l’estensione del bolscevismo in Europa e gli attribuivano il merito di avere fermato le forze «sovversive» interne e restituito il paese alla «normalità» della vita quotidiana. La McCormick ten- deva ad attribuire questo giudizio anche alla maggioranza degli italiani, av- valorandolo con la testimonianza di «un suo amico socialista, in passato dirigente politico» che le confermava come il fascismo fosse considerato dai più «una medicina amara ma necessaria», e che «liberali e intellettuali sareb- bero i primi a votare per Mussolini se l’alternativa fosse tra lui e le sinistre». «La mia impressione – scriveva la giornalista sul «New York Times» nel feb- braio 1931 - è che il regime fascista più di qualsiasi altro governo esistente sia più attivamente sostenuto dalla gente che pure non lo ama. L’italiano medio è per Mussolini poiché pensa che sia un bene per il paese».

Convinta che la mancanza di libertà interna fosse il prezzo da pagare per l’ordine ristabilito e la tenuta del sistema socioeconomico di fronte alla crisi, la McCormick intensificò il suo appoggio al fascismo nelle corrispon- denze del dicembre 1931: «al termine dell’ottavo anno fascista il Duce è la personificazione dell’Italia» scriveva, cogliendo quella identità tra fascismo, regime e mussolinismo nella persona del Duce, divenuto centro unificante

della politica. Dello stesso tenore erano le corrispondenze degli anni succes- sivi, quando i segnali di superamento della crisi economica negli Stati Uniti e i preoccupanti mutamenti nello scenario europeo avrebbero nuovamente intensificato i viaggi all’estero dell’americana.

Nella rappresentazione del fascismo scaturita dalle interviste a Mussolini nel 1933 e nel 1934 risaltava la doppia immagine del Duce: da una parte «apostolo della pace» che aveva promosso il Patto a Quattro fra Germania, Italia, Francia e Inghilterra, e dall’altra capo di stato che era riuscito a domi- nare la crisi economica al pari di Roosevelt. Il Patto a Quattro, che si muo- veva nella logica di un avvicinamento fra Italia e Germania dopo la ferma opposizione italiana al tentativo di Anschluss austro-tedesco nel giugno 1934, fu favorevolmente accolto dall’opinione pubblica americana e dallo stesso Roosevelt nell’ottica del mantenimento della pace nel quadro della Società delle Nazioni, mentre veniva evidenziandosi un trattamento più paritario tra la Germania ed i paesi vincitori. Sulla capacità di Mussolini di fronteg- giare l’emergenza economica, la McCormick riferì che «l’Italia ha vinto la depressione con un vasto programma di lavori pubblici che ha dato alla gente servizi che non aveva mai avuto prima: strade, bonifiche, scuole, fer- rovie elettriche, parchi e case suburbane». Inoltre era lo stesso Mussolini a paragonare le misure fasciste a quelle della prima fase del New Deal, che pure non mancavano di attirare al presidente americano critiche da più par- ti dello schieramento politico, dai conservatori come l’ex-presidente Hoover sino ai populisti, ai socialisti e ai comunisti sul carattere dirigista e potenzialmente autoritario del suo governo.

Al tempo stesso per rafforzare presso l’opinione pubblica americana l’immagine positiva di mite autocrate, in contrapposizione a quella più pre- occupante e aggressiva di Adolph Hitler, Mussolini ribadì anche alla McCormick, come già ad altri osservatori americani, il suo sdegno per la definizione del nazismo come «diramazione o imitazione del fascismo italia- no», confermando che il solo tratto in comune era «la reazione contro lo spirito di disfattismo, il socialismo e il comunismo», ma che nulla di simile alla persecuzione degli ebrei tedeschi poteva ad esempio immaginarsi in Italia. «Roma cavalca verso il suo antico posto - Caput Mundi - e cavalca con una certa fresca magnificenza»: erano le conclusioni dei reportage dall’Italia nel 1933 e 1934 che il «New York Times» aveva in parte ospitato in articoli di prima pagina, a conferma di un’immagine del fascismo che nelle sue linee principali, se non nell’entusiastica adesione seguiva le descrizioni della McCormick era largamente condivisa negli Stati Uniti.

Unico paese europeo visitato negli anni più bui della depressione ame- ricana ed a cadenza quasi annuale a partire dal 1933, l’Italia era diventata per la McCormick «la sua seconda patria», come confidò a Mussolini du- rante una delle loro conversazioni a conferma della posizione strategica oc- cupata dalla penisola nel paesaggio mentale, professionale e politico della giornalista americana: la McCormick aveva facile accesso non solo al Duce, ma a diverse personalità governative, e poteva contare su rapporti d’amicizia con diplomatici americani come il primo segretario d’ambasciata Alexander Kirk, o con l’ambasciatore italiano in Germania Vittorio Cerruti e la moglie Elisabeth17. Affascinata dall’Italia e dagli italiani, la giornalista americana

era altrettanto colpita da Mussolini, che nel 1934 aveva ormai instaurato con lei una abitudine di incontro tale da non limitarsi alla parte dell’intervi- stato, ma da porle a sua volta frequenti domande, ad esempio sulla Germa- nia e Hitler, sulle mire aggressive verso l’Austria, e su un suo personale para- gone tra camicie brune e camicie nere.

Ma a parte l’ammirazione personale per Mussolini, la McCormick vide nel fascismo – e anche nel nazismo seppur con minore passione emotiva e per un lasso di tempo minore - un modello di socialità alternativa al comu- nismo che poteva essere accostato al New Deal. In anni di grandi competi- zioni sistemiche i fascismi ed il New Deal rappresentavano per lei la rispo- sta, differenziata a seconda dei diversi paesi, al modello comunista. Ma il parallelo sostegno al rooseveltismo ed ai fascismi negli anni Trenta sarebbe crollato con l’avvento della Seconda guerra mondiale e l’alleanza antifascista tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Egualmente quel parallelismo sarebbe stato difficilmente proponibile negli anni successivi della contrapposizione ideologica della guerra fredda, quando gli Stati Uniti si ergevano a difesa delle libertà politiche nel mondo, e veniva a cadere in America l’accento su una socialità newdealista alternativa a quella comunista.

L’anticomunismo e l’attenzione prevalentemente rivolta ad una «modernizzazione autoritaria» di natura socioeconomica, poco sensibile ai problemi della libertà e del pluralismo, influenzavano anche la valutazione della McCormick sulla Germania di Hitler, che non pochi timori veniva destando presso l’opinione pubblica americana. Superato il culmine della depressione, avviato con il New Deal un più deciso intervento statuale nel- l’economia, gli Stati Uniti cominciarono a riaffacciarsi sul mondo mentre la crisi internazionale stavano scardinando definitivamente in molti paesi ciò che rimaneva dei fragili sistemi democratico-parlamentari. Nel corso degli anni Trenta fra larghi strati del ceto medio e le stesse classi popolari colpite

dal disastro economico vennero affermandosi i movimenti della destra radi- cale (persino in Inghilterra, seppure in dimensioni scarsamente significati- ve) che arrivarono a conquistare il potere, consolidando regimi di ispirazio- ne marcatamente fascista già insediati negli anni Venti oppure nuovi, come quello clerico-fascista di Dollfuss in Austria, quello dell’ammiraglio Horty in Ungheria, di Salazar in Portogallo e del generale Franco in Spagna.

Favorito da un disastroso quadro economico di inflazione incontrollata e vasta disoccupazione, in Germania sul finire degli anni Venti aveva comin- ciato a crescere il partito nazista di Adolph Hitler. Esso propugnava ordine interno e compattezza nazionale, si richiamava a principi di purezza razzia- le, di collaborazione fra le classi, organizzazione gerarchica della vita, poten- za nazionale, riarmo e militarizzazione, che facevano leva sull’orgoglio na- zionale tedesco calpestato a Versailles e sul sentimento di riscatto sociale degli strati borghesi, piccolo borghesi e popolari. Mentre nel nazismo comin- ciava a credere anche il mondo della grande industria e dei ceti conservatori e militari del paese come occasione per liquidare la repubblica di Weimar.

Salito al potere per vie formalmente legali nel gennaio 1933, dopo il fallimento del putsch insurrezionale di Monaco del 1923, Hitler veniva in- staurando un regime totalitario, razzista e imperialista, i cui tratti, già deli- neati nell’autobiografia Mein Kampf del 1925, si manifestarono sin dai pri- mi mesi. La violenza come metodo di lotta politica, la costituzione di corpi paramilitari alle dipendenze del partito, il clima di terrore instaurato duran- te le elezioni del marzo 1933, le leggi eccezionali, la sospensione delle libertà costituzionali e l’avocazione dei pieni poteri al capo del governo, non lascia- vano dubbi sul regime che Hitler andava affermando. Questo si basava su una strettissima disciplina sociale e ideologica, sulla repressione del dissenso e sulla lotta ad ebrei e «sovversivi» come cardine di una politica di rinascita e potenza nazionale, facendo leva sui sentimenti revanscisti e nazionalisti di significativi segmenti della società tedesca; questa politica prefigurava il riarmo della Germania ed il ricorso alla guerra per sostenere le proprie rivendicazioni18.

L’avvento di Hitler in Germania, il consolidamento della dittatura mussoliniana in Italia e staliniana in Unione Sovietica, l’affermazione in Giappone di un regime nazionalista e bellicista nel 1931, venivano costi- tuendo un quadro internazionale dominato dalla competizione fra sistemi politici e valori contrapposti che preoccupava l’opinione pubblica america- na. I grandi quotidiani americani come il «New York Times» intensificaro- no le analisi dei regimi autoritari e dei dittatori da parte sia dei corrispon- denti stabili che di inviati speciali con punti di vista «più freschi».

Fra i primi ad intervistare Hitler era stata Dorothy Thompson, audace corrispondente sempre in prima linea, che lo aveva incontrato nel dicembre del 1931. Giornalista esperta, apprezzata per le acute analisi della politica contemporanea, la Thompson sbagliò però completamente previsione in merito a Hitler, sostenendo nell’articolo pubblicato nel 1932 su «Cosmopolitan» e nel breve volume I Saw Hitler che il capo nazista non aveva le qualità per guidare la Germania, era «irritantemente ricercato nei modi», «insicuro», «volubile», un uomo «senza forma e senza volto», «il vero prototipo del Piccolo Uomo». Come avrebbe ammesso di lì a pochi anni, si era trattato di «un grossolano errore d’interpretazione»; prendendo coscien- za del pericolo nazista, la Thompson, avviò una decisa battaglia di denuncia dei sistemi repressivi, della manipolazione dell’opinione pubblica, della bru- tale politica razziale. Una battaglia che, sommata alla precedente ridicolizzazione di Hitler, costò alla affermata giornalista, moglie del Premio Nobel Sinclair Lewis, l’espulsione dalla Germania che suscitò una sentita reazione nell’opinione pubblica americana19.

Lo stesso «New York Times» cominciò ad assumere, con il passaggio di consegne nella prima metà degli anni Trenta dal vecchio Ochs al genero Sulzberger, un atteggiamento più combattivo verso il fascismo europeo, rom- pendo gradatamente la linea del giornalismo liberale di tradizione ottocentesca dell’obiettività imparziale ed equidistante. Lo stesso Adolph Ochs negli ultimi anni della sua direzione aveva preso la decisione di inviare in Germania come corrispondente speciale un valido giornalista come Frederick T. Birchall, direttore responsabile del «New York Times» dal 1925 al 1932, poi capo dell’ufficio centrale di corrispondenza estera, nel ruolo che era stato di Edwin Lee James, a sua volta nominato direttore responsabi- le. La decisione di inviare Birchall in Germania nei mesi immediatamente successivi l’ascesa al potere di Hitler per indagare sul clima persecutorio verso gli ebrei fu un cauto segnale di rottura della linea di imparzialità edito- riale, che comunque ancora spingeva Ochs a rifiutare la pubblicazione nel suo giornale delle numerose lettere di denuncia del violento antisemitismo tedesco, per la preoccupazione di dover ovviare alle regole del giornalismo obiettivo, non potendo offrire uguale spazio alla controparte, a causa della quan- tità di posta critica che arrivava al giornale. Direttore ebreo, personalmente molto critico verso l’antisemitismo hitleriano, impegnato da tempo nel soste- nere la fuoriuscita dalla Germania dei propri parenti e di quelli di Sulzberger, Ochs aveva anche un’altra preoccupazione: quella di non far apparire il giornale «troppo ebreo» e di sfumare l’immagine di un quotidiano che si diceva «essere

posseduto da ebrei, scritto da direttori cattolici, per lettori protestanti». La scelta di inviare in Germania nel 1933 un giornalista indipendente come Birchall fu comunque un primo, significativo passo del potente diret- tore verso una posizione critica sul nazismo. Nel tipico stile conciso e diretto del giornalismo americano di cronaca, Birchall denunciava coraggiosamen- te «le oppressioni e le intimidazioni che avevano portato al trionfo del na- zionalismo nazista», metteva in guardia sui pericoli che tale «dominazione ultranazionalista» comportava per il resto del mondo e, primo fra i cor- rispondenti americani, denunciava l’esistenza di campi di concentra- mento per gli oppositori politici, conquistandosi per tale corrisponden- za il Premio Pulitzer nel 193420.

Attenta invece a evidenziare il consenso di massa su cui il nazismo pog- giava, era la corrispondenza di prima pagina della McCormick, inviata an- che lei in Germania come corrispondente speciale per offrire il punto di vista dell’osservatore al primo impatto con la realtà e riuscire ad ottenere più facilmente «notizie scottanti» rispetto al corrispondente stabile, necessariamen- te più cauto per non compromettere le sue fonti o rischiare di essere espulso.

Scrittrice sicuramente brillante, la McCormick impersonava la figura dell’inviato speciale più per la capacità di cogliere climi pubblici, stati psico- logici, situazioni sociali, porre a confronto opinioni diverse e ottenere inter- viste in esclusiva dai capi di stato, che per campagne di denuncia contro questo o quel governo, dittatori compresi, con cui manteneva buoni rap- porti, non esponendosi come Dorothy Thompson o lo stesso Birchall. I modi «quieti, intelligenti e stimolanti» che i colleghi le riconoscevano, la rendevano un’abile intervistatrice che raramente prendeva appunti per evi- tare di distrarre il suo interlocutore o renderlo troppo cauto nelle dichiara- zioni. Interpretava il suo ruolo non tanto come cronista di sorprendenti dichiarazioni da prima pagina - affidate in prevalenza a discorsi pubblici, e non a singoli giornalisti - quanto come analista capace di «penetrare l’essen- za del politico, i processi mentali che ne determinavano le decisioni, per ottenere una diretta conoscenza dell’uomo e studiarne la personalità».

La convinzione che l’autoritarismo centralista fosse la via del futuro, la vocazione all’ordine, l’idea che le questioni socioeconomiche fossero le più importanti, a scapito dei valori di libertà politica, pluralismo e tolleranza cui la McCormick era poco sensibile, l’ambiguità dell’atteggiamento cattolico rispetto agli ebrei, la spiccata vocazione ad accettare autodescrizioni molto cosmetiche dei regimi dittatoriali, tutti questi fattori indussero la McCormick a giustificare Hitler e ad aprire un credito di credibilità al Nazismo, che

rappresentano il punto più oscuro e la caduta imperdonabile nella storia pubblica della giornalista americana. La disponibilità verso il nazismo che la McCormick dimostrò nei due reportage nel 1933 spiegano la benevolenza nei suoi confronti di molte personalità naziste, che lei stessa non aveva diffi- coltà a dichiarare pubblicamente e ad attribuire alle sue capacità di «saper ascol- tare e riportare fedelmente le loro posizioni»21, rischiando di farsene portavoce.

Il primo viaggio nella Germania nazista dell’estate 1933 la portò da Monaco a Saarbruecken, da Francoforte a Lipsia ed infine a Berlino. Le vie di Monaco pullulavano delle truppe d’assalto naziste che la giornalista ame- ricana incontrava ovunque sotto le volte dell’Hofbrau, nei parchi e nei caffè. La città era tempestata di bandiere naziste, i muri grondavano di svastiche, parate e manifestazioni si tenevano quasi ogni giorno. La Saar, ancora sotto controllo francese, le apparve come il «paradiso» dei profughi tedeschi dissi- denti che vi cercavano rifugio per dirigersi poi verso altri paesi. A Francoforte la McCormick fu colpita dall’espulsione dalla vita pubblica, professionale e intellettuale degli ebrei tedeschi. Esponenti di importanti famiglie ebree della finanza e dell’industria, che le chiedevano di mantenere l’anonimato, mani- festavano la loro preoccupazione per la politica razziale del nazismo. Piutto- sto che assumere un tono critico, la McCormick preferì sottolineare che «commercianti e industriali ebrei conservano le loro attività, che i loro ne- gozi sono come sempre ben protetti, che persistono amicizie e simpatie di