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Nell’inverno 1928 l’Europa era per la McCormick una meta lontana. La crisi economica, che esplose con il crollo della borsa di Wall Street nel- l’ottobre 1929, allontanò per qualche anno le mete europee e nel paese si attenuò l’interesse per la politica internazionale. Frutto degli squilibri matu- rati all’interno di uno sviluppo incontrollato delle forze produttive nei set- tori di punta, la depressione fu essenzialmente una crisi di sovrapproduzione e speculazione immobiliare che portò al fallimento centinaia di banche gra- vate da debiti inesigibili, frutto dell’euforia speculativa dei «ruggenti anni Venti». In realtà quegli anni, contrariamente al mito della prosperità e al- l’ottimismo, avevano visto una crisi strisciante nel settore agricolo - a causa di eccesso di produzione, calo dei prezzi, indebitamento dei contadini - e la insufficiente espansione del potere di acquisto delle classi lavoratrici. Più in generale si trattava di una crisi basata sull’incapacità dell’economia di gene- rare una domanda sufficiente ad alimentare un’espansione durevole, come andava sostenendo l’autorevole economista inglese John Maynard Keynes. Sovrapproduzione, redditi agricoli in calo (così come di alcuni settori ope- rai), strozzature nel mercato internazionale da una parte e drastico crollo della produzione industriale, fallimento di centinaia di banche, impoveri- mento di migliaia di piccoli risparmiatori, disoccupazione diffusa in città e nelle campagne dall’altra: queste erano le cause e gli effetti della più grave recessione economica che colpì sul finire degli anni Venti il paese più ricco del mondo, trascinando a catena l’Europa e gli altri continenti. Sconvolti dalla crisi, gli americani videro crollare drammaticamente il mito di una prosperità illimitata, e ripiegarono su sé stessi, interrogandosi sulle cause e sui possibili rimedi. La stampa concentrava l’attenzione sui problemi inter- ni, e seguiva con particolare attenzione le sedute straordinarie del Congres- so e le politiche dell’amministrazione Hoover man mano che nel corso del 1928 i segnali di crisi risultavano evidenti.

Anche Anne si convertì al nuovo ruolo di reporter di affari interni se- guendo nell’autunno di quell’anno la campagna presidenziale e trasferendo- si a Washington, centro della vita politica nazionale, dove venivano deci-

dendosi le misure a sostegno dei contadini e l’adozione di barriere tariffarie richieste da settori della grande industria e dagli agricoltori1.

Nel pieno della campagna presidenziale che vedeva il democratico Al Smith, governatore dello stato di New York, cattolico e antiproibizionista, contrapposto al repubblicano Herbert Hoover, ex segretario al Commercio estero nell’amministrazione di Calvin Coolidge, autore di politiche di razionalizzazione industriale e regolamentazione dell’economia attraverso le associazioni di categoria, Anne fu incaricata di registrare le motivazioni del voto degli americani per l’uno o l’altro candidato, spostandosi fra le capitali del Midwest e le città della «Corn Belt», cuore agricolo e roccaforte proibizionista del paese. Passando dal Wisconsin al Montana, dal Nebraska al Kansas, dal Missouri al Kentucky, Anne raccoglieva opinioni nei treni, nei ristoranti, nelle redazioni dei giornali locali, nei negozi, nei club femmi- nili, nei sindacati, nelle banche, nelle cooperative agricole e negli ambienti politici, per capire chi avrebbero scelto gli americani tra l’ingegnere della razionalizzazione e il politico populista urbano.

Maturando proprio in quegli anni una sensibilità verso la condizione e i diritti femminili, Anne orientò la propria attenzione su quella che definiva la «variabile più sconosciuta dell’intera campagna elettorale»: i ventisette milioni di donne americane che votavano per la terza volta dopo il ricono- scimento del diritto di voto. Quarantanove anni, un percorso di vita eman- cipato, un’adesione intensa alla concezione di dignità della donna mediata dall’educazione giovanile e dall’esempio materno, Anne veniva avvicinan- dosi al movimento femminile organizzato e al «Woman’s Journal», organo d’informazione della «League of Women Voters». A quest’ultimo la McCormick contribuì con articoli sulla mobilitazione dei club e delle sezio- ni femminili dei partiti repubblicano e democratico, le riunioni politiche all’ora del tè o i caratteristici ritrovi elettorali all’aperto organizzati nei di- stretti rurali dell’Oklahoma e del Tennessee. La McCormick ne approfittava per illustrare la «massiccia offensiva» della cosiddetta «new woman» nella società, con un impegno che si estendeva dall’attività politica alle professio- ni, alla cultura e alle attività ricreative. E tuttavia, mentre l’impegno politico coinvolgeva la generazione delle femministe storiche eredi delle battaglie per il suffragio, le generazioni femminili più giovani si rendevano visibili nella vita americana piuttosto attraverso la presenza sociale, economica e culturale che non il coinvolgimento in politica e nei partiti.

Certo era che il movimento delle femministe storiche indirizzava le elettrici a votare per il candidato repubblicano, che meglio interpretava la

sensibilità femminile verso le questioni morali come il proibizionismo, o offriva più garanzie sul piano del rispetto dei valori religioso-nazionali, piut- tosto che per il democratico Smith, primo candidato cattolico della storia americana, guardato con diffidenza da larghi settori dell’opinione pubblica in un paese a prevalente tradizione protestante.

Ma l’elemento che emerse con più forza dall’inchiesta di Anne era lo stato di crisi delle fattorie dell’Ovest: diminuzione della popolazione rurale, banche gravate da ipoteche inesigibili sulle proprietà, raccolti eccezionali che determinavano l’abbassamento dei prezzi, considerevole riduzione del potere d’acquisto dei contadini, malcontento diffuso e crescente per il di- sinteresse e l’immobilismo del governo federale. E se un’alta percentuale dell’elettorato femminile si aspettava il mantenimento del proibizionismo dal presidente che andava ad eleggere, i ceti agricoli si aspettavano invece una maggior energia che in passato sulle politiche agricole.

Fu così che gli americani diedero fiducia per la terza volta al candidato del partito repubblicano, che per tutti gli anni Venti era stato il partito do- minante nel paese, e continuava ad essere il partito che esprimeva le alterna- tive programmatiche della vita nazionale, erede della tradizione liberista da una parte ma anche di quella progressista favorevole alla regolazione pubbli- ca e alla solidarietà sociale affermatasi nel movimento riformatore tra Otto e Novecento. Solo con la vittoria di Franklin Delano Roosevelt nel 1932 il parti- to democratico si sarebbe affermato (dopo la parentesi delle due amministrazio- ni Woodrow Wilson) come solida alternativa politica di più lunga durata.

Nel 1928 Herbert Hoover si presentava dunque come l’uomo nuovo che, a differenza dei presidenti immediatamente precedenti, Harding e Calvin Coolidge, «avrebbe epurato la politica dai politici» e rassicurava gli america- ni sul loro futuro con un’immagine di «esperienza, efficienza, genio organizzativo» - scrisse la McCormick - la summa «di tutte quelle capacità di conduzione degli affari» che erano mancate al governo precedente. L’effi- ciente ingegnere che durante la prima guerra mondiale aveva guidato l’«American Relief Administration», l’agenzia di stato di sostegno alimenta- re al Belgio, inaugurava una sorta di new republicanism che affrontava l’emer- genza della sovrapproduzione agricola con «razionalità e metodo scientifi- co» e avviava una forma volontaria di coordinamento pubblico volta ad incentivare le imprese e l’intero meccanismo economico. Una politica di moderato sostegno all’economia che si concretava nella costituzione di asso- ciazioni di categoria, enti governativi e strumenti di indirizzo alle imprese in un’ottica di efficientismo e razionalizzazione così popolare negli anni Venti2.

Già alla prima conferenza stampa, il nuovo presidente offrì un’immagi- ne diversa da quella dei suoi predecessori e i giornalisti accolsero con piacere la sua differenza di stile. Niente a che vedere con il tono «lento e nasale» di Coolidge, inframmezzato da pause alla ricerca di parole, o delle «esitazioni altisonanti» di Harding, ma un modo «rapido, fluente e conciso» di rispon- dere alle domande. «Un uomo d’ordine», «della più grande energia e fiducia in se stesso», «un uomo concreto che basava ogni sua affermazione sui fatti, che non prendeva mai nessuna decisione d’impulso».

Anne ne offrì una presentazione in linea con la tradizione editoriale del quotidiano di Adolph Ochs - simpatizzante del partito repubblicano, già ammiratore di Coolidge e amico personale di Hoover - orientato ad offrire il sostegno del «New York Times» a coloro che avevano responsabilità di governo, «sino a che ciò fosse compatibile con un giornalismo onesto»3.

Una posizione quella del quotidiano newyorchese e della sua giornali- sta che si caratterizzava per essere mainstream, in sintonia cioè con le preva- lenti tendenze dell’opinione pubblica del momento, seguendone gli anda- menti, adattandovi le proprie opinioni, contribuendo al loro consolidamento. Sarebbe stata una qualità giornalistica e politica della McCormick la capaci- tà di adeguarsi, per convinzione personale, per modifiche alla linea del gior- nale o per convenienze di carriera, alle varie svolte cui fu soggetta la prin- cipale corrente del liberalismo americano tra gli anni Venti e Cinquan- ta, sostenendo prima il progressismo efficientista del repubblicano Hoover, poi il New Deal di Roosevelt, per aderire infine al liberalismo della guerra fredda tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

L’inizio dell’era Hoover - secondo la definizione del corrispondente a Washington del «Berliner Tageblatt» che anche Anne riproponeva nei suoi articoli - fu presentato dalla stampa americana e internazionale come un condensato di «scelte decisive», a cominciare dal «più grande progetto di costruzione edilizia mai avviato nella capitale dai tempi di George Washington, una prima misura per arginare la disoccupazione». Nei primi mesi del 1929 l’attenzione era puntata anche sull’attività del Congresso, riunito nella sua sessantunesima sessione per discutere del «Farm Relief Bill» (Disegno di legge per il sostegno agli agricoltori) e delle tariffe doganali invocate dai farmers. Un Congresso in pieno fervore legislativo che agli oc- chi dei molti osservatori giunti a Washington pareva in sintonia con le mi- sure del presidente. La McCormick segnalava in particolare il contributo dato ai lavori parlamentari da tre rappresentanti femminili - Ruth Bryan Owen, Ruth Hanna McCormick e la signora Pratt - che dopo un lungo

tirocinio a sostegno delle carriere politiche dei rispettivi padri si erano eman- cipate sino a ricoprire alte posizioni parlamentari4.

Anche se si sarebbe rivelata insufficiente a innescare la ripresa, la politi- ca hooveriana segnò certamente una rottura rispetto al liberismo dei suo predecessori, tanto che nell’intervista al presidente nel febbraio 1932, nel- l’ultimo anno di mandato, Anne evidenziò le misure approvate a sostegno all’agricoltura, il rafforzamento dei settori produttivi più colpiti dalla crisi, dalle ferrovie alle banche locali, la creazione del «Federal Land Bank System» (Sistema federale di credito all’agricoltura) ed i progetti edilizi governativi. «Il presidente della crisi impersona uno dei più strani paradossi della storia» scriveva Anne: «la forza degli eventi lo ha portato, lui ostinato sostenitore dell’individualismo, ad iniziare politiche che conducono ad allargare i pote- ri del governo in contraddizione con tutta la sua filosofia politica» e con le posizioni liberiste di autorevoli economisti che, in un dibattito interno di gran- de eco, avevano manifestato la loro opposizione alla legge tariffaria del 19315.

L’appoggio della McCormick all’amministrazione Hoover fu altrettan- to esplicito negli articoli sulla politica estera del nuovo presidente, soprat- tutto sul terreno dei programmi di disarmo che occuparono molto spazio nell’immagine pubblica delle relazioni internazionali degli anni Venti. «La vigorosa richiesta del presidente Hoover di tradurre il patto di pace Kellog- Briand in un’azione internazionale, le proposte concrete che il Dipartimen- to di stato e della marina stanno elaborando sulla riduzione degli armamen- ti navali, l’invito congiunto angloamericano per una conferenza internazio- nale a Londra frutto dell’incontro a Washington con il primo ministro labu- rista Ramsay MacDonald, sono una chiara smentita delle previsioni sull’im- possibilità per la nuova amministrazione, oberata di problemi interni, di formulare una politica estera che vada oltre la politica commerciale, e rap- presentano al contrario - continuava Anne - l’inizio di una vera e propria campagna di conciliazione e rassicurazione a livello mondiale».

Vero artefice della «politica di pace mondiale e di benevolenza del pre- sidente» fu il segretario di Stato Henry Stimson, l’avvocato newyorchese che, assorbito nei preparativi della conferenza di Londra sul disarmo del 1930 che mirava a tradurre in pratica il Patto Kellog-Briand che ripudiava il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti, attraverso la limi- tazione degli armamenti navali, discuteva con Anne della politica estera del- l’amministrazione in modo «amichevole semplice e diretto»6. La politica

estera di Stimson e Hoover rafforzò il graduale inserimento americano sulla scena mondiale, già operante nella politica finanziaria internazionale, ma

che di fronte al predominante sentimento isolazionista il governo doveva formulare in forme accettabili dall’opinione pubblica, come il pacifismo e il disarmo. Far leva sul diffuso sentimento pacifista, massicciamente dispiegatosi nel 1928 in occasione dell’approvazione del Patto Kellog-Briand grazie fra l’altro anche all’attivismo femminile, consentì infatti a Stimson e a Hoover di rilanciare la politica mondiale degli Stati Uniti, che entrambi perseguiva- no anche per esigenze di espansione dell’economia americana7.

Malgrado le misure governative tuttavia, la disoccupazione non fu riassorbita nei quattro anni della presidenza Hoover, e il malessere del paese venne progressivamente erodendo l’immagine efficiente dell’ingegnere progressista al governo che aveva accolto nel 1928 la sua elezione. Nel corso del 1932, avvicinandosi la campagna presidenziale, la figura di Hoover andò appannandosi, poiché fu chiaro che le sue misure non avevano portato a profonde modifiche nella struttura socioeconomica del paese. Nell’autodifesa espressa nell’intervista rilasciata ad Anne McCormick in piena campagna elettorale, Hoover si disse «ferito» dall’accusa rivoltagli da molte parti di essersi «isolato alla Casa Bianca, indifferente alle sofferenze dei disoccupati e degli emarginati, lontano dalle preoccupazioni di una terra preoccupata».

La propaganda repubblicana sulla prosperità e l’ottimismo degli anni Venti appariva di facciata e l’opinione pubblica veniva orientandosi verso il partito democratico ed il nuovo candidato anti-hooveriano. Man mano che il progressismo andava spostando la propria collocazione dal mondo repubblicano a quello democratico, anche gli organi d’informazione tra- dizionalmente mainstream si adeguavano al cambiamento, già palpabile nell’atmosfera estiva delle convention, svoltesi entrambe a Chicago, e nella campagna elettorale autunnale.

«La scelta degli americani non sarà tra programmi o linee politiche - scriveva Anne nell’autunno 1932 - ma tra candidati, fra l’uno che rappre- senta il cambiamento e l’altro che non ne rappresenta alcuno». Nell’atmo- sfera di una convention che agli osservatori ricordava un funerale, priva di alcuna passione e vivacità, i repubblicani avevano ricandidato Herbert Hoover, con così poca convinzione e scarsa pubblicità, che il solo ritratto del presidente che l’autorevole commentatore politico Walter Lippmann era riuscito a trovare in città era una pittura ad olio nel fondo della vetrina di un negozio di Michigan Boulevard. Tutt’altra atmosfera aleggiava nella

convention dei democratici che a gruppi avevano invaso gli hotel prima oc-

cupati dai repubblicani, portando però una «vivacità», una «rumorosità» ed uno «stile giovane» prima assenti. «Per i repubblicani la politica è un affare»

- scriveva Anne inviata speciale a Chicago - «mentre per i democratici è un piacere». Anne aveva raccolto le impressioni di entrambi i candidati «alla fine di un’accesa campagna, duramente combattuta, che li ha visti percorre- re il paese in lungo e in largo, parlare a enormi folle in ansiosa attenzione», «ad una nazione in attesa». Mentre l’ottimismo di Hoover sulla propria vit- toria risultava poco più che formale, il candidato democratico Franklin Delano Roosevelt era consapevole di poter contare sulle speranze di cambia- mento che il paese riponeva in lui, e sulla sua capacità comunicativa infor- male e spontanea: era certamente fra gli aspetti più favorevoli a un can- didato che non si distingueva invece per un programma elettorale qua- lificato o particolarmente impegnativo.

Reduce da un viaggio di tredicimila chilometri nel paese, Roosevelt dichiarò ad Anne di esser sconvolto da ciò che aveva visto e che le condizio- ni di vita erano peggiori di quanto avesse immaginato. «Ho visto in faccia migliaia di americani, hanno lo sguardo spaventato di un bambino che si è perduto», affermò il candidato democratico che la giornalista del «New York Times» non esitò a qualificare come l’uomo politico che «ha da offrire ad un popolo stanco qualcosa di diverso, un volto nuovo, un nuovo modo di co- municare, un altro punto di vista». La rappresentazione data da Anne McCormick del clima delle convention e della personalità di Roosevelt era certamente uno specchio dello spirito pubblico di quei mesi, ma al tempo stesso un significativo contributo alla costruzione della mitologia rooseveltiana e newdealista. La giornalista non solo registrò l’evoluzione del progressismo da Hoover al New Deal, ma anche contribuì alla sua formulazione, valoriz- zando la sintonia al sentire comune del candidato democratico, propria del- l’etica sociale e di servizio della classe dirigente protestante benestante e colta. «Il giorno che sarò eletto sarà festa nazionale. Penso che se ci liberere- mo della Vecchia Oscurità e metteremo in grado ogni uomo di ridere e agire come un uomo, la depressione sarà vinta per metà», le aveva detto Roosevelt durante il loro primo incontro a settembre. Con l’ottimismo e la vivacità che gli erano propri e che Anne avrebbe ripetutamente sottolineato in successivi articoli, Roosevelt seppe trasmettere fiducia agli americani, suscitare nuove spe- ranze e scrollare l’apatia, dando l’esempio innanzitutto con il suo personale dinamismo che la poliomielite invalidante non aveva spezzato. «La ripresa sem- bra facile nelle sue convincenti parole» - scriveva del populismo rooseveltiano - «una questione di pochi, semplici dettagli applicati con senso comune». E se Anne gli faceva notare che non c’erano soluzioni semplici, Roosevelt ribatteva che «c’erano semplici approcci alle soluzioni», che «con buona volontà, a un

presidente ed a un congresso che agivano insieme, niente era impossibile». «La presidenza non è semplicemente una funzione amministrativa. Questa è la parte meno importante. La presidenza è più di un lavoro da ingegnere, efficiente o inefficiente. È preminentemente un luogo di leadership morale», rimarcò Roosevelt nell’intervista rilasciata in settembre ad Anne negli intervalli dell’attività elettorale, evidenziando i limiti politici del suo avversario. Roosevelt le disse di considerarsi un «liberal», utilizzando quella categoria politica che solo nel corso del New Deal avrebbe assunto la speci- ficità americana di stato interventista, garante delle condizioni sociali e concertazione tra grandi imprese, sindacati e governo. Durante la campagna elettorale questo concetto si riferiva infatti ancora al modello di politica sociale dell’inglese Lloyd George degli anni Dieci e Venti, che alla tradizione liberale classica ottocentesca aveva unito alcuni valori sociali e la disponibi- lità a sperimentare misure di welfare state e di interventismo statale. Roosevelt spiegò infatti ad Anne che essere un «liberal» significava saper rispondere ai nuovi bisogni della società, ma al tempo stesso sapere graduare i processi di cambiamento. «La via del liberal è la via di mezzo, la via del compromesso che prende le distanze sia dalla mancanza di volontà al cambiamento dei conservatori, sia dai violenti processi di cambiamento dei radicali»8.

Ad Hyde Park la McCormick trovò un’atmosfera gioiosa e piena di vita, «una casa dalle porte aperte e pochi segreti», che rendeva credibile la promessa di Roosevelt di «umanizzare» un «domicilio austero» come la Casa Bianca, una volta eletto presidente. Anche il primo impatto con i coniugi Roosevelt rafforzò nella giornalista l’impressione di una formalità lontana dal comportamento di tanti candidati e presidenti precedenti eletti. Duran- te una cena di festeggiamento organizzata da Eleanor Roosevelt e dalla figlia sul treno speciale della campagna elettorale, i Roosevelt invitarono i giorna- listi con la promessa di una serata di completo relax. Ma non la pensava così Franklin che, appena finita la cena, cominciò a parlare di politica. Invano Eleanor lo interruppe più volte, pregandolo di rispettare la promessa, e dopo un garbato battibecco con la moglie, Franklin ebbe la meglio e intrattenne i giornalisti in un discorso di venti minuti.