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«Se qualcuno in America immagina che gli italiani si sentano oppressi, dovrebbe essere in questo paese ora per testimoniare l’intensa soddisfazione con cui cominciano a capire che l’Italia ha veramente compiuto una rivolu- zione», scrisse la giornalista americana nell’estate del 1926 da Roma. Era l’incontro con il fascismo che si faceva regime e aveva costituito i capisaldi del potere dittatoriale. L’accento della giornalista americana si spostava ora dalla minaccia evitata alla ripresa della vita produttiva, con la nuova costitu- zione corporativa che tanto interesse suscitava all’estero. L’americana vedeva «un paese intento a costruire, pavimentare, riparare, progettare opere di in- gegneria, a sperimentare nuove colture», «un paese con la sua gioventù ine- sauribile animata da un fervore di costruzione», dove nuove strade collega- vano le principali città ed i caffè erano «meno affollati e frastornati da di- scorsi senza fine» in seguito alla nuova legge contro l’ozio.

E nell’agosto 1926 ci fu l’incontro diretto con il Duce, la prima occasione per intervistare «il dittatore apparentemente ingentilito dal potere», «il capo di stato più interessante d’Europa» che la ricevette nella famosa sala dorata di Pa- lazzo Chigi in redingote e con la camelia all’occhiello. L’uomo più intervistato del mondo - come lo definiva la McCormick - che dava a tutti i suoi intervistatori «l’identica impressione della forza della sfinge», Mussolini si lasciò andare nel corso della conversazione con la giornalista americana «a maniere semplici, non affettate, umane, più per affascinare che per dominare».

La concessione di un’intervista era la più efficace delle blandizie che Mussolini sapeva abilmente alternare alla censura ed alle espulsioni per non inimicarsi la stampa straniera. Riuscire a parlare confidenzialmente con i

grandi capi di stato, i dittatori in particolare, era infatti per un cronista una tale dimostrazione di disponibilità che finiva spesso con il minarne l’obietti- vità e depotenziarne lo spirito critico. L’osservanza rispetto al regime di gior- nalisti come Salvatore Cortesi o Percy Winner dell’«Associated Press» si ri- fletteva nella prassi di concordare preventivamente con il capo ufficio stam- pa del Ministero degli affari esteri domande e risposte delle interviste al Duce «in modo da produrre il desiderato effetto sul pubblico al quale sono destinate». Estranea ai compromessi di cui era capace il «commendatore» Cortesi, fregiato del titolo dal fascismo, la McCormick subiva forte- mente il fascino del dittatore italiano che probabilmente si aspettava di poterla influenzare meglio di altri per l’ammirazione incondizionata al fascismo che aveva manifestato dal 1920-192132.

L’americana lo incontrò nel suo ufficio in una calda serata romana d’ago- sto e dopo una lunga giornata il Duce era - a suo dire- ancora «fresco e vigoroso come se il giorno fosse appena iniziato». Mussolini le spiegò che la sua salute fisica era il frutto di diciassette ore di lavoro e di una rigida dieta alimentare, al che in un’ottica tutta americana Anne gli chiese conferma della sua fama di «proibizionista», ottenendo una prevedibile risposta posi- tiva nel reciproco gioco di captatio benevolentiae che i due venivano instau- rando. Da buon operatore di relazioni pubbliche, Mussolini sapeva dare le risposte che i suoi interlocutori volevano sentire e trovandosi di fronte ad una cittadina americana le disse di ammirare l’energia e il dinamismo del- l’America, «il solo luogo dove c’era ancora qualcosa da imparare». Dotato di indubbie arti istrioniche, sapeva come affascinare i suoi interlocutori: mo- dulando un tono di voce «basso, profondo e musicale», «parlava rapida- mente, con pochi gesti, in un francese fluente», intercalando qualche frase «in un inglese attento e ben pronunciato».

Rivolgendosi in modo deferente a «Sua Eccellenza» la McCormick cer- cò di orientare la conversazione sulla situazione economica e politica del- l’Italia, in particolare sulla costituzione corporativa approvata nell’aprile 1926, appena entrata in vigore. Per affrontare l’intervista aveva attentamente studia- to «La legge delle Corporazioni», e Mussolini le disse: «Congratulazioni, io e lei siamo i soli ad averla letta» e passò ad illustrarle un grafico appeso alla parete sulla nuova rappresentanza economica del parlamento italiano. «Anche le don- ne saranno rappresentate?» chiese Anne, ed ancora una volta la risposta fu quel- la che l’interlocutrice voleva sentire: «naturalmente sì - se sono lavoratori».

Interpretando la curiosità americana verso la nuova struttura corporativa, l’americana incalzò Mussolini chiedendo «in che senso essa fosse più rappre-

sentativa dell’intera popolazione e perciò più democratica rispetto alla for- ma di stato che sostituiva». Mussolini riprese la retorica fascista sulla scom- parsa della lotta di classe e la sostituzione di una fruttuosa cooperazione di tutti i fattori della produzione di cui era garante lo stato. Un modello di statualità «perfettamente italiano e puramente fascista», ma con «carattere e portata di importanza internazionale»33.

L’interesse per lo stato corporativo - che si sarebbe diffuso in altri paesi europei come complessiva riorganizzazione conservatrice dei morenti siste- mi liberali, ampliando le funzioni dello stato e centralizzando in modo au- toritario la contrattazione sociale, strumento di un disegno di controllo po- litico e di organizzazione del consenso – spinse la giornalista a condurre un’inchiesta in proposito. Interpellò vari soggetti, da quelli che considerava «i più tenaci oppositori» del regime, i contadini romagnoli di Molinella ed i dirigenti dell’ex «Confederazione Generale del Lavoro», esautorata l’anno prima dal Patto di palazzo Vidoni stretto con la Confindustria, agli impren- ditori milanesi, ai proprietari terrieri ed al radicale Edmondo Rossoni, capo dei sindacati fascisti nati sulla base della distruzione dei liberi sindacati ope- rai e contadini con l’obiettivo di integrare la base operaia nel nuovo stato corporativo. «Cosa stavano facendo ora i sindacati fascisti per i lavorato- ri»? «Certamente più di quanto sia mai stato fatto per loro nella storia d’Italia» le rispose Rossoni, che la invitò a leggere i contratti collettivi stipulati quotidianamente in ogni parte del paese per rendersi conto dei miglioramenti rispetto ai vecchi contratti34.

Dallo stato corporativo, alle radici filosofiche del fascismo alla difesa della religione cattolica fino alle limitazioni della libertà di stampa, molti argomenti vennero affrontati nella lunga intervista al Duce dell’autunno 1926, che contribuì molto ad accreditare la McCormick come un insider della politica europea. Sulla censura, Mussolini rispose che non si trattava di una misura «né irragionevole, né straordinaria», che «la disciplina imposta dal fascismo al popolo italiano e alla stampa non era in alcun modo eccessi- va e perciò anormale». Che cosa era stato proibito dopotutto? «Solo l’azione contro lo stato, contro quello stato che ha la responsabilità esclusiva e deve perciò essere la sola guida della vita nazionale». Sul ruolo dello stato Mussolini la invitò a rivolgersi al filosofo Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione, che avrebbe saputo chiarirle anche i fondamenti teorici e le radi- ci culturali del fascismo, disimpegnandosi con sommari riferimenti al sindacalismo rivoluzionario di marca soreliana e a Machiavelli. E non man- cò di aggiungere cenni al pragmatismo di William James, nel tentativo di

lusingare la sua interlocutrice americana.

Gentile ricevette Anne nell’antica libreria di palazzo Mattei, sede della nuova Enciclopedia italiana di cui era direttore. La giornalista aveva voluto incontrarlo per fugare l’opinione diffusa in Europa e all’estero che il fasci- smo fosse semplicemente una pratica per sradicare la democrazia parlamenta- re, senza nessun fondamento filosofico. Nel dimostrarle l’elaborazione teorica alla base del fascismo il filosofo le parlò della teoria della «supremazia dello stato come entità morale», dello «scopo di esaltare l’idea dello stato e comprime- re l’idea dell’individuo», della libertà che era possibile solo nello stato.

Considerata ben presto negli ambienti governativi «sincera amica del- l’Italia e del Fascismo» per la fiducia ottenuta da Mussolini, la McCormick accentuò la sua adesione al regime grazie alla « protezione e valorizzazione» della religione cattolica, «ignorata dallo stato laico liberale o ancor peggio perseguitata dallo stato socialista», e del recupero dei valori religiosi posti a fondamento della vita pubblica. Affascinata dal cerimoniale d’apertura del- l’anno francescano ad Assisi alla presenza di alte autorità fasciste nel settem- bre 1926, la giornalista americana assistette, con accenti che ricordano quel- li della scuola religiosa della giovinezza, alla «trasfigurazione dell’Italia francescana», alla celebrazione delle «virtù del poverello di Assisi», l’austeri- tà, la laboriosità e la dedizione francescane proclamate «formula di salvezza nazionale». Certamente in profondo disaccordo con una visione laica dello stato, e con la stessa concezione del cattolicesimo liberale della separazione dei poteri tra stato e chiesa, la McCormick credeva in una stretta compenetrazione tra valori religiosi e vita civile, e sosteneva una socialità a sfondo cristiano che le sembrava di ritrovare nei fini pubblici del fascismo. In quest’ultimo la giornalista vedeva il ritorno dello stato etico, ancor più dopo la firma dei Patti lateranensi nel 1929, fortemente caratterizzato dal ruolo dei cattolici, che riportava alla tranquillità gli antichi luoghi sacri dove fino a qualche anno prima avevano echeggiato gli echi profanatori degli «Evviva Lenin!», in particolare nei luoghi intorno a Narni, Spoleto e Terni, che erano stati trasformati in «cittadelle rosse».

Infatti, il riconoscimento ai fascisti per avere impedito che l’Italia di- ventasse bolscevica fu ribadito dalla giornalista intervenendo in una discus- sione sulla natura del fascismo dell’estate del 1928 sulle colonne del «New York Times». La sua posizione si contrapponeva non solo a quelle di lettori che si consideravano conoscitori dell’Italia, ma alla stessa linea ufficiale del suo quotidiano, che in un editoriale su Giovanni Giolitti sostenne che la minaccia bolscevica era venuta spegnendosi proprio negli anni tra il 1920 e

il 1921, immediatamente antecedenti la marcia su Roma. Recependo l’in- terpretazione della vecchia guardia liberale italiana ora in esilio - Nitti, Or- lando, Albertini e Salvemini - il «New York Times» sollevava dubbi sul ruolo del fascismo come baluardo contro il bolscevismo, che ne aveva consacrato la legittimità agli occhi di molti americani e li aveva portati ad accettare la soppressione delle libertà democratiche35.

Dopo un soggiorno di diversi mesi in Italia la McCormick fece un lungo viaggio prima nei Balcani e poi in Unione Sovietica, meta di molti osservatori americani nella seconda metà degli anni Venti. Legittimata come rappresentante del «New York Times» in viaggio in Europa, Anne veniva incarnando il ruolo professionale di cronista itinerante, in quegli anni abba- stanza insolito per una donna giornalista. Da Tirana a Belgrado, da Budapest ad Atene a Sofia sino a centri minori come Kishinky in Bessarabia e Monastir in Macedonia, la giornalista inviò fitte corrispondenze nella primavera-esta- te del 1927, dove ancora una volta il paragone con il regime politico italiano apparivano il suo principale criterio di valutazione, a dimostrazione del ri- lievo che Roma ricopriva nel suo paesaggio mentale come nella sua identità professionale. Inoltre era una fase in cui si stava delineando il profilo della politica balcanica dell’Italia; questa si era sviluppata secondo linee di una collaborazione competitiva con la Francia - l’altra potenza continentale uscita vittoriosa dalla guerra - fino al 1924, quando l’affermazione del Cartel des

gauches segnò l’inizio di forti tensioni tra Roma e Parigi. Tensioni che sa-

rebbero aumentate con l’assunzione di posizioni aggressivamente revisioniste da parte dell’Italia, rese esplicite da Mussolini in un discorso del giugno 1928. «Paese povero e senza risorse, non degno di essere conquistato e proba- bilmente inconquistabile», l’Albania la impressionò per la mancanza di stra- de, ferrovie, luce elettrica e rete idraulica, e più di tutto per l’assenza di quotidiani. Descritta come una striscia di terra non più grande del New Hampshire e non più popolosa della città di Cleveland, rimasta una frontie- ra per quasi duemila anni, l’Albania era riuscita ad assumere per la prima volta un ruolo attivo nella politica europea con gli accordi italo-albanesi del 1925-1926. Se l’ambasciatore albanese a Roma, Djemil Bey Dino, aveva assicurato alla McCormick che l’Albania si sentiva ora «in una posizione più forte verso l’Italia», inquietudini sulle mire mussoliniane negli stati balcani- ci si diffondevano un po’ ovunque. L’avvicinamento tra Roma e Tirana met- teva in allarme la Jugoslavia, così come l’accordo di amicizia tra Italia e Ungheria dell’aprile 1927 e le tensioni su Fiume, l’Istria e la Dalmazia pre- occupavano la stessa Jugoslavia e la Romania, indebolendo ulteriormente il

già vacillante prestigio della Piccola intesa.

L’inviata toccò con mano l’aumento della tensione tra Roma e Belgrado quando, appena giunta dall’Albania nella capitale jugoslava, funzionari ed esperti militari la assalirono di domande sulla concentrazione di truppe ita- liane a Durazzo e sulla trasformazione del porto in un’ampia area di sbarco e base per rifornimenti militari. Mentre Mussolini reagiva a sua volta al clima di tensione lanciando violente accuse alla Jugoslavia, la giornalista testimoniò che sulla frontiera serba tra Struga e Dibra lungo la strada per Tirana non erano in atto preparativi militari e attribuì alla «mobilitazione emotiva» di entrambi i paesi la creazione di una «situazione tesa e pericolo- sa». Paladina del Duce anche in politica estera, rassicurò che Mussolini non intendeva «ipnotizzare i Balcani», ed il suo obiettivo era semplicemente quello di aprirsi un varco commerciale e di assicurarsi nuovi mercati in un’area «grande quattro volte la penisola italiana e ricca di tutte le ma- terie prime che mancavano all’Italia»36.

A Belgrado, «la più balcanica delle capitali balcaniche», per raggiungere la quale aveva impiegato quattro giorni nell’inverno tra il 1926 e il 1927, muovendo dalle Bocche di Cattaro sulla costa adriatica attraverso itinerari interni senza ferrovie e con poche strade, la corrispondente americana in- contrò, con quella alternanza di analisi politiche e aspetti umani che è uno degli elementi del suo successo, la ventisettenne regina Maria, «esempio di moderna regnante dalla personalità quieta e schiva», «la regina meno pub- blica e più privata nel mondo». Mentre maturava in lei la consapevolezza del valore emancipatorio della propria professione, la McCormick offriva più di frequente ai lettori e alle lettrici ritratti di donne protagoniste della vita europea. La colta regina Maria educata in Inghilterra, parlava un corretto inglese con una piacevole modulazione da attrice. Era l’espressione di una «identità femminile di transizione». Da una parte Maria guidava l’auto, portava i lunghi capelli sciolti e aveva modi disinibiti come le giovani ame- ricane; dall’altra di queste ultime non aveva l’interesse per la politica, né frequentava club femminili al pari delle donne serbe; rivendicava invece unicamente «l’antico diritto di ogni donna al proprio posto in casa» e si sentiva semplicemente la moglie del re.

Per offrire un quadro esauriente della situazione jugoslava, la McCormick incontrò a Zagabria l’oppositore più tenace del regno, il croato Stepan Radic, che stava organizzando un partito contadino nazionale in cui progettava di unire tutte le minoranze scontente, montenegrini, macedoni e ricchi agrari del Banato, in un solo, potente blocco agrario. Sfavorevole all’autonomia

croata, Radic vedeva invece più facile scalzare i serbi unendo i contadini a combattere per le libertà civili e la perequazione di sei diversi sistemi di tassazione nel regno jugoslavo.

Dalla Calea Victoriel, la via principale di Bucarest, simbolo del nazio- nalismo rumeno, alla riposante tranquillità di Canea nell’isola di Creta dove nel 1927 incontrò nuovamente Venizelos, ritiratosi a vita privata, sino ai mercati di Sofia, la McCormick scambiò opinioni con decine di persone di varia estrazione, compresi i funzionari americani che sovrintendevano le commissioni per la sistemazione dei profughi.

A Kishinky in Bessarabia, dove il Dniester segnava «il confine tra il mondo noto e quello sconosciuto», «tra due opposte concezioni di vita», la giornalista incontrò la principessa Alexandrina Cantaenzene, membro di una grande fami- glia di proprietari terrieri, un altro modello di donna «fervente femminista», che le confermò il senso di allarme per l’incombere della minaccia comunista, ma- nifestato anche da altri governanti nei Balcani. Questi piccoli stati di confine si sentivano secondo Anne i protettori della frontiera occidentale che difendeva anche gli Stati Uniti, quella frontiera «schiacciata tra fascismo e bolscevismo» che per sopravvivere avrebbe dovuto organizzarsi in una qualche forma di fede- razione politica ed economica, alla quale stavano lavorando gli statisti «più sag- gi» come Marinkovitch, Duca, Venizelos e Liaptcheff37.

6. «LAFALCEEILMARTELLO»: L’UNIONE SOVIETICAENTRA

NELSECONDODECENNIO

Tra la fine dell’estate e l’autunno 1927 la patria del comunismo realiz- zato era per la McCormick una realtà da esplorare in prima persona. Mentre a Mosca sulla Piazza Rossa si celebrava il decimo anniversario della Rivolu- zione bolscevica, la Russia «rimaneva per il mondo occidentale un enorme enigma». «Come sta procedendo l’esperimento bolscevico?» era la domanda sullo «strano mondo» che, come tutto l’Occidente, si poneva il «New York Times» in un momento in cui la scena internazionale sembrava pullulare di «esperimenti» alternativi alla democrazia liberale. L’inviata speciale america- na tentò una risposta dopo un viaggio di oltre due mesi nella Russia euro- pea, che l’aveva portata da Leningrado alla Crimea, a contatto con «la vera vita, ufficiale e non, che si conduceva nell’ex regno degli Zar».

Già dal 1920 la politica di potenziamento dei corrispondenti e degli uffici esteri, aveva spinto il «New York Times» ad insediare un corrispon- dente stabile a Mosca, Walter Duranty, le cui corrispondenze sulla controrivoluzione di Riga e sulla tremenda carestia del Volga erano state

spesso in palese contrasto con le posizioni rigidamente antisovietiche dimo- strate dal giornale di Ochs. A partire dalla metà degli anni Venti la testata, seguendo una pratica che andava consolidandosi nei principali organi di stampa americani, cominciò ad affiancare ai corrispondenti stabili degli in- viati speciali, personalità eminenti ma anche semplici osservatori; molti di questi sul finire del decennio andavano e venivano dalla Russia riportando impressioni sull’andamento della Rivoluzione bolscevica.

La breve ma autorevole presentazione sul «New York Times» della lun- ga serie di articoli sull’Unione Sovietica pubblicati a firma Anne O’Hare McCormick sul finire del 1927 dopo il suo rientro negli Stati Uniti, fu un riconoscimento dello status di opinionista informata e accreditata che Anne aveva raggiunto alla fine degli anni Venti. Il quotidiano newyorchese scrisse in un redazionale di aver affidato ad «un osservatore esperto» l’analisi di quel «vasto laboratorio sperimentale» che la Russia rappresentava agli occhi occidentali. E se lo storico Meyer Berger ha presentato Duranty come un corrispondente filosovietico che negli anni Trenta fece attribuire al «New York Times» in qualche circolo conservatore il soprannome di «Daily Worker», il quotidiano del partito comunista americano, le corrispon- denze della McCormick invece servirono a riequilibrare la posizione del giornale in direzione opposta38.

Gli anni Venti furono un decennio di relazioni sporadiche e calma di- plomatica fra Stati Uniti e Unione Sovietica, gli uni assorbiti nella loro prospe- rità interna, l’altra nella ricostruzione dell’economia dalle rovine degli anni 1918-1920, funestati dalla guerra civile, attraverso la Nuova Politica Eco- nomica lanciata da Lenin nel 1921. Complessivamente il numero di libri e articoli pubblicati negli Stati Uniti nei primi anni Venti sull’Urss diminuì rispetto al biennio 1918-1920, ma dei ventun libri sull’argomento pubbli- cati negli Stati Uniti tra il 1928 e il 1929, ben diciassette erano basati sulle impressioni e le esperienze personali di visitatori, privi di ambizioni scienti- fiche, che non di rado riproponevano i loro pregiudizi sul servizio trascurato negli hotel russi e sulla diffusa sporcizia di un paese passato attraverso la guerra mondiale, la rivoluzione e la guerra civile.

Pur sfuggendo ai pregiudizi più comuni, The Hammer and the Scythe:

Communist Russia Enters the Second Decade e The New Russia, i due libri

pubblicati nel settembre e nell’ottobre del 1928 rispettivamente da Anne McCormick e Dorothy Thompson, erano il frutto di questa rinnovata at-