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Nella veste ufficiale di editorialista del «New York Times» la McCormick incontrò Roosevelt alla Casa Bianca nell’estate 1936, come capitava da diversi anni ad ogni suo ritorno dall’Europa. Non lo vedeva da parecchi mesi, ma l’immagine che trasmise al pubblico americano era quella di uomo tranquillo e amichevole come sempre, mentre si rilassava alle cinque del pomeriggio sotto il portico della Casa Bianca con i due setter irlandesi accovacciati ai suoi piedi.

Nel clima pre-elettorale di quei mesi la conversazione fra il presidente e la giornalista si centrò sulla situazione interna, a cominciare dalle critiche mosse a Roosevelt da un ampio schieramento che comprendeva l’opinionista Walter Lippmann come il senatore repubblicano William Borah, sull’ac- centramento dei poteri da parte del governo federale e sui tentativi di subor- dinare all’esecutivo la Corte suprema che aveva dichiarato incostituzionali molte riforme avviate dal New Deal. La McCormick, che si era schierata dall’inizio a favore di Roosevelt, tanto da essere riconosciuta come «opinionista di sinistra», e aveva difeso la linea politica che il presidente intendeva proseguire nei quattro anni successivi, certo della sua rielezione. Roosevelt «incarna e drammatizza una transizione che niente può fermare, da cui non si può tornare indietro» scriveva Anne a commento dell’intervi-

sta nell’ambito di una campagna elettorale in cui il presidente subiva attac- chi violentissimi dalla destra repubblicana ma che «non metterà in discus- sione il New Deal, ma chi e come lo amministrerà».

La campagna elettorale del 1936 fu tra le più controverse della storia americana novecentesca. Sulla base di alcune importanti sentenze della Corte suprema che avevano dichiarato incostituzionali misure centrali del primo programma del New Deal, l’opposizione repubblicana obbiettava con gran- de durezza e insistenza il carattere antinazionale del programma rooseveltiano, importazione di dottrine politiche straniere e potenzialmente autoritarie, fuori della tradizione costituzionale che si voleva caratterizzasse il paese, a favore di uno statalismo senza precedenti e radicamenti nella storia america- na. La campagna elettorale newdealista contrapponeva invece l’idea che la tradizione costituzionale nazionale potesse perpetuarsi laddove i suoi prin- cipi mostrassero una adattabilità ai casi storici, come ad esempio alle soffe- renze causate dalla Grande depressione. In caso contrario, la permanenza di principi passatisti e superati dalla storia, come il liberismo individualista che i repubblicani sostenevano di perpetuare, avrebbe creato reazioni radicali, quelle sì veramente pericolose per la libertà del paese. I sostenitori elettorali del New Deal sottolineavano quindi una sorta di necessità storica inelutta- bile del programma rooseveltiano fatto di solidarismo e allargamento del governo federale, una tematica che la McCormick riportava fedelmente nel- le sue parole, ma che in allora rappresentava una anticipazione dell’accetta- zione del programma newdealista come base politico istituzionale del paese che non avverrà prima degli anni Cinquanta con la presidenza di Dwight Eisenhower. Ma al di là della vigorosa battaglia sui principi il New Deal contava sul favore dei molti che erano stati beneficati dal programma fede- rale in tempi di grande disagio economico, una fiducia che si mostrò ben fondata, dato che il risultato elettorale diede al presidente in carica la vitto- ria alle urne più larga della storia americana novecentesca.

Nel contraddittorio tra i due candidati riportato dalla giornalista nel- l’articolo dell’autunno 1936, Roosevelt godeva agli occhi dell’opinione pub- blica di largo credito quando dichiarava di voler continuare a migliorarne le condizioni di vita e lavoro, ad aumentare il potere d’acquisto dei contadini e a «correggere gli abusi che impedivano al sistema di funzionare», con rife- rimento ai recenti veti della Corte suprema. Il candidato repubblicano Alfred Landon, petroliere e governatore del Kansas, denunciava invece l’eccessiva di- pendenza delle istituzioni e della società americana dal governo federale e l’espan- sione della spesa pubblica a forte detrimento dei bilanci dei singoli stati. Accu-

sava Roosevelt di fare promesse che poi non avrebbe mantenuto, mentre la sua linea più moderata mirava a riportare in pareggio il bilancio pubblico, senza rinunciare ad una politica di aiuti e di estensione dei servizi pubblici.

Ma il diffuso consenso al New Deal che aveva ridato speranza al paese e incoraggiato una significativa ripresa economica almeno sino al biennio 1937- 1938 portò alla riconferma di Roosevelt, con pochi ma autorevoli organi di stampa come il «New York Times» schierati durante la campagna elettorale in suo favore, nonostante la dura critica che di lì a pochi mesi il quotidiano avreb- be mosso verso quello che definì il tentativo di Roosevelt di «impacchettare la Corte suprema» con pensionamenti anticipati e nuove nomine di giudici50.

Alla vigilia dell’inaugurazione del secondo mandato presidenziale la McCormick raggiunse Roosevelt alla Casa Bianca. Il presidente era più con- sapevole del ruolo che il suo paese veniva assumendo in un quadro interna- zionale diviso fra democrazie e dittature e minacciato dagli aggressivi revisionismi di Germania e Italia. Forte della fiducia che Roosevelt aveva ottenuto in politica interna, la McCormick cominciò a delineare anche le prospettive di politica estera che egli rappresentava. «Il presidente è stato rieletto come il solo candidato disponibile per guidare il Partito Democrati- co del Mondo» scriveva; se Roosevelt si dimostrava ancora molto cauto sulla ripresa di una linea wilsoniana di impegno all’estero, riconosceva però che gli Stati Uniti, in qualità di più grande e indipendente democrazia del mon- do, dovevano dare una concreta dimostrazione della superiorità di questo sistema. Sul finire del 1936, alla vigilia di un nuovo viaggio in Europa della giornalista, il presidente le espose l’idea che era andato maturando da mesi: «una riunione informale dei più potenti capi di stato del mon- do per cambiare le condizioni che rendono oggi impossibile la pace. Una cooperazione che potrebbe creare un’enorme forza morale, potente quanto la forza militare, tale da impedire la guerra»51.

All’inizio del 1937, quando l’americana giunse in Europa per un nuo- vo reportage, il quadro internazionale evidenziava un’alleanza ormai stretta fra i regimi fascisti di Italia e Germania, entrambi impegnati a sostenere militarmente le forze nazionaliste del generale Francisco Franco contro quelle della repubblica legittimamente eletta in Spagna nel febbraio 1936. Nell’ot- tobre di quell’anno l’«asse Roma-Berlino» finalizzato alla lotta contro il bolscevismo aveva decisamente allineato Mussolini a Hitler ed aveva sancito la rinuncia italiana a contenere la minaccia nazista in Europa ed a continua- re a difendere l’integrità territoriale dell’Austria.

però una politica di dialogo con le democrazie occidentali, che si tradusse proprio nel gennaio 1937 nella firma del «Gentlemen’s Agreement» con l’Inghilterra per il mantenimento dei reciproci interessi nel Mediterra- neo. Ma, nonostante il positivo commento della McCormick all’intesa, ribadito anche l’anno successivo in occasione degli Accordi di Pasqua dell’aprile 1938, i rapporti fra la giornalista americana e il Duce comin- ciarono a manifestare qualche incrinatura.

Fu Mussolini a riservarle un’accoglienza più fredda del solito, che rive- lava l’inizio della divaricazione fra i due paesi cominciata con la guerra d’Etio- pia e rafforzata dall’allineamento alla Germania nazista, che la politica di contrappesi verso l’Inghilterra riusciva con difficoltà a mascherare. Alle cri- tiche dell’opinione pubblica americana Mussolini aveva reagito già nel 1935, nel pieno della mobilitazione nazionale a favore della guerra d’Etiopia, con la messa al bando delle voci principali della stampa estera indipendente, per arrivare poi nell’estate 1939 alla chiusura dell’ufficio romano della «United Press». L’atteggiamento verso la McCormick nel gennaio 1937 rientrava in questo clima. Innanzitutto Mussolini le rifiutò un’intervista vera e propria, e, «data la delicatezza del momento», le vietò di riportare sue dichiarazioni ufficiali, autorizzandola unicamente a riferire «frasi e considerazioni di ca- rattere generale». Mussolini era diventato sospettoso della giornalista, che doveva tenere conto della linea più nettamente antifascista del «New York Times», e chiese all’ambasciata italiana a Washington di verificare che l’arti- colo dell’americana frutto del loro colloquio corrispondesse a quello da lui preventivamente approvato. La McCormick confermò la sua inclinazione al fascismo o, come fece sapere l’ambasciatore Fulvio Suvich, espresse «una minore ostilità rispetto al resto della stampa americana». La sua corrispon- denza da Roma era tesa a enfatizzare il «vivo interesse» dimostrato da Mussolini verso il progetto del presidente Roosevelt di «riunire i cinque o sei capi di governo più potenti per scambiare punti di vista e impegni per il mantenimento della pace». Dichiarazioni che sortivano l’effetto voluto da Mussolini, suscitando «molto interesse» nel presidente Roosevelt e creando un clima di attesa negli Stati Uniti come negli altri paesi verso l’autonomia della posizione italiana.

Nelle sue corrispondenze di inizio 1937 la McCormick sottolineò il carattere strumentale dell’asse Roma-Berlino, che diversi osservatori ameri- cani, sia ancora favorevoli a Mussolini che invece più critici, non pensavano potesse assumere un carattere permanente. Ai loro occhi il Duce era troppo accorto per subordinare l’Italia alla Germania, ed aveva invece tutto l’inte-

resse a rafforzare il suo legame con le democrazie. Ed era proprio per confer- mare queste aspettative che Mussolini si dilungò a spiegare alla McCormick che l’asse Roma-Berlino non era un’alleanza di guerra e non impegnava l’Italia o la Germania ad intervenire militarmente l’una a fianco dell’altra. Inoltre, contraddicendo alcune clausole del patto stesso, assicurò che non era previ- sto l’invio di reparti italiani in Spagna a sostegno del generale Franco, né era stato sottoscritto un impegno per combattere «la minaccia rossa» ed il bolscevismo internazionale; principalmente si trattava, secondo Mussolini, di un patto per difendere gli interessi mediterranei dell’Italia e per mante- nervi fuori ogni altra potenza straniera.

Durante il colloquio la McCormick chiese se l’Italia era ancora inten- zionata a difendere l’indipendenza dell’Austria. La politica italiana verso quel paese non era mutata e non era in procinto di mutare, fu la risposta del Duce, confermata di lì alla giornalista anche nell’incontro con il cancelliere austriaco Schuschnigg. E se queste posizioni vennero fedelmente registrate negli articoli sul «New York Times», secondo quel modello di «giornalismo obiettivo» che non metteva in discussione le fonti ufficiali, e vennero riproposti dibattiti di politica estera a cui spesso era chiamata, nondimeno la McCormick non poté tacere quel senso di incertezza che le aveva lasciato l’ultimo viaggio nelle capitali europee e l’incapacità degli ambienti diplomatici e governativi intervistati a capire l’evolvere di un quadro incerto e molto fluido52.

Tuttavia la simpatia con cui la giornalista continuava a guardare al fa- scismo non era più sufficiente a evitare la chiusura del regime nei suoi con- fronti. Nonostante la sua «fedeltà», che di nuovo all’inizio del 1937 attirò le proteste dei lettori americani per «le sue annuali e semi annuali glorificazioni di Mussolini», e nonostante il consiglio dell’ambasciatore italiano a Washington, Suvich, di rinnovarle l’udienza per «il tono moderato e non partigiano» degli articoli di una fra gli opinionisti «più autorevoli e stimati nel suo paese», Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano le rifiutarono en- trambi la richiesta di colloquio nell’autunno 1937; durante la sua perma- nenza a Roma l’americana poté solo vedere il Duce sfilare velocemente nei padiglioni dell’esposizione tessile allestita al Circo Massimo.

L’unica intervista di rilievo che riuscì ad ottenere fu con il ministro delle Finanze, Felice Guarneri, ed il resoconto dell’incontro evidenziava una posizione più critica della giornalista verso le affermazioni ufficiali del regi- me che propagandavano l’autarchia come forma di protezionismo econo- mico al pari delle tariffe americane. Il nuovo ruolo di portavoce della linea editoriale del «New York Times» spinse la McCormick a dar voce alle preoc-

cupazioni americane verso le politiche autarchiche di Italia e Germania, che la propaganda di regime dipingeva come reazione alle sanzioni; in realtà l’autarchia altro non era che una manifestazione estrema dei rispettivi nazionalismi ed una mobilitazione di tutte le risorse interne in vista della guerra, come la stessa americana veniva sottolineando insieme alla maggior parte dei commentatori esteri53.

Le prime critiche che la giornalista indirizzava alla politica estera fasci- sta, denunciando il nesso tra autarchia e guerra erano però proposte in chiave moderata, controbilanciate dal giustificazionismo verso il regime. Infatti, se da un lato era quasi impossibile per la McCormick non registrare le «espressioni di sorpresa, perplessità e sgomento» ed il «superficiale entusiasmo» con cui gli ita- liani avevano accolto l’asse Roma-Berlino e ancor più l’adesione al patto tripartito anti-Comintern tra Italia, Germania e Giappone nel 1937, al tempo stesso però l’americana non esitava ad attribuirne la responsabilità ultima a Francia, Inghil- terra e Stati Uniti che con la loro ostilità e con il rifiuto a riconoscere l’impero italiano, avevano spinto l’Italia verso la Germania e il Giappone.

Ancora più netto sarebbe poi stato il suo giustificazionismo verso le scelte di politica interna del regime fascista come la svolta antisemita, che accentuava il distacco critico degli Stati Uniti dal regime. La McCormick infatti sminuì la campagna e la legislazione antisemita che a partire dall’esta- te 1938 vennero introdotte nel paese ormai in posizione di sudditanza verso la Germania di Hitler. Mentre Washington reagì con proteste diplomatiche e l’opinione pubblica americana con una netta condanna della «Carta della razza», la giornalista invitò i lettori a non credere alla «serietà» delle leggi razziali italiane, che definiva «piuttosto una mossa per compiacere il partner tedesco che non una scelta radicata nella cultura politica italiana». A fonda- mento della convinzione che non esistesse un radicato sentimento antisemita fra la gente, pose la sua profonda conoscenza del popolo italiano maturata in anni di frequentazione del paese. «L’idea ariana è sempre stata una delle assurdità da cui si schermivano pubblicamente gli italiani» scriveva la McCormick nel luglio 1938, testimoniando che lo stesso Mussolini le aveva più volte ribadito nei loro incontri che per un latino l’idea di razza era «puro infantilismo». La giornalista avvalorò queste posizioni sostenendo che il co- munismo e il nazionalsocialismo, in quanto espressione delle «due grandi religioni secolari del nostro tempo, entrambe messianiche e socialiste» pote- vano concepire un fondamento razzista dello stato; non il fascismo e tanto meno Mussolini, «politico opportunista, gran demagogo che si fa beffe della democrazia, non sufficientemente religioso per essere fanatico».

Vi era poi a suo avviso una ragione storica che la portava a non credere alla reale portata della legislazione antisemita in Italia; era la tradizione im- periale assimilatrice e unificatrice dei popoli a cui lo stato fascista aveva improntato il proprio modello statuale. «Da osservatrice sul campo mi sono convinta che la sola forte radice del regime sia la tradizione imperiale» - scrive- va l’americana - ma «la nuova enfasi sul razzismo, qualunque cosa presagi- sca, è un distacco da quella tradizione [...]. La concezione alla base dell’im- pero romano ha implicato la conquista e l’assimilazione degli altri popoli [...], l’impero è stato ciò che di più vicino ad un crogiolo di razze ci fosse nell’età augustea. Immersa nel Mediterraneo, l’Italia è sempre stata orgo- gliosa in tutte le epoche di essere il crocevia del mondo, e Roma si è sempre vantata di essere non solo la Città Eterna, ma anche la Città Universale. Ma è impossibile essere razzisti e imperiali. Lo spirito della romanità augustea non si può conciliare con le leggi antisemite. L’arianesimo in Italia semplice- mente non ha senso! Quale motivo è forte abbastanza da spingere un regime che basa il suo appeal sul passato imperiale a tollerare un movimento che mina la più forte tradizione dell’impero romano?» Con queste motivazioni la McCormick liquidava il giudizio e il suo personale coinvolgimento con- tro la legislazione antisemita italiana, che di fatto si sarebbe rivelata la più dura dopo quella nazista54.

Fra la fine del 1937 e i primi mesi del 1938 la giornalista si era spostata da una capitale all’altra dell’Europa «per sondare lo stato di salute dei gover- ni e dei sistemi di vita delle democrazie occidentali». L’estensione delle poli- tiche autarchiche, non solo fra i regimi fascisti, ma in tutti gli stati europei a causa della recessione economica che tra il 1937 e il 1938 si abbatté sul continente, preoccupava particolarmente i dirigenti americani, diversi dei quali la giudicavano il principale ostacolo al mantenimento della pace. Nei colloqui con l’ex premier belga Van Zeeland ed il primo ministro olandese Hendryk Colijn l’americana trovò conferma delle difficoltà a mutare le po- litiche protezioniste in atto e a far accogliere concretamente dai principali governi il piano economico che Van Zeeland stava mettendo a punto per rilanciare gli scambi e contrastare l’autarchia.

A ciò si aggiungeva la preoccupazione che le politiche autarchiche au- mentassero il pericolo di rivolgimenti sociali causati dalla recessione econo- mica. Se nel dicembre 1937 Anne poteva scrivere a Sulzberger che «la paura della guerra è per ora sospesa», ciò su cui richiamava invece la sua attenzione era quanto le aveva confidato l’ambasciatore americano in Inghilterra, Norman Davis: il grosso della flotta inglese era tenuto nel Mediterrano poi-

ché si temevano scioperi diffusi e agitazioni sindacali un po’ dappertutto e «se la rivoluzione dovesse scoppiare in qualche parte, ci sarebbero molti paesi maturi per il raccolto». Le classi dirigenti conservatrici inglesi e francesi era- no dunque più preoccupate di tenere sotto controllo la situazione sociale in Europa che non l’aggressività nazista. Gli ambienti governativi consultati dall’americana, dal ministro delle finanze francese George Bonnet ai funzio- nari inglesi, seguivano una politica di appeasement verso la Germania nella convinzione che Hitler, una volta portato il suo paese a una situazione di parità con le altre potenze europee, si sarebbe sentito appagato. Per questo i rappresentanti del governo francese guidato dai radicali, succeduto al Fron- te popolare di Leon Blum, confermarono alla giornalista il non intervento nella Guerra civile spagnola a fianco delle forze repubblicane e la disponibi- lità della Francia ad accettare concessioni coloniali alla Germania per agevo- lare la stabilità internazionale di cui aveva bisogno l’economia francese per riprendersi. Per le stesse ragioni i suoi interlocutori inglesi sostenevano che il loro paese, pur intenzionato a perseguire prioritariamente un accordo con gli Stati Uniti, escludeva la costituzione di un fronte democratico vero e proprio che pregiudicasse una possibilità d’accordo con la Germania. La politica di appeasement verso Hitler andava di pari passo con la diffidenza verso un avvicinamento all’Urss, considerata la principale ispiratrice dei paventati rivolgimenti sociali, e con l’impossibilità di realizzare quella poli- tica di «sicurezza collettiva» di cui era stato artefice per tutta la prima metà degli anni Trenta il ministro degli Esteri sovietico Maksim Litvinov55.

Le tensioni europee si tradussero nel marzo 1938 nell’annessione au- striaca da parte della Germania di Hitler, che inaugurò così la seconda fase del suo piano, cioè l’unificazione nel Terzo Reich di tutti i tedeschi europei. Gli Stati Uniti ribadirono di nuovo la loro posizione di neutralità. Tra il 1935 ed il 1937 erano infatti venuti approvando una serie di leggi che vieta- vano la fornitura di armi e la concessione di prestiti a paesi in guerra, mentre il fronte pacifista e neutralista costringeva Roosevelt alla massima cautela nel prendere pubblicamente posizione contro i pericoli dell’isolazionismo. Intanto però nell’opinione liberale più avvertita cominciava ad affermarsi una spontanea adesione alla causa dei paesi europei, Francia e Inghilterra, che si ergevano a baluardo di quel sistema democratico di cui gli stessi Stati Uniti facevano parte. Cominciava cioè a delinearsi nella coscienza politica del paese quella «divisione ideologica del mondo a cui gli Stati Uniti non