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Una relazione che risulti efficace nel lungo periodo necessita di soddi- sfare le svariate esigenze poste in essere dai diversi consumatori. Non è af- fatto scontato, per esempio, che tutti i clienti richiedano di partecipare atti- vamente alla condivisione di idee e informazioni prima e/o dopo l’acquisto. Ciò vale anche per uno stesso individuo, che, in una data occasione, potrebbe desiderare di approfondire determinati aspetti legati al prodotto, al brand o all’esperienza di consumo; mentre, in altre situazioni, potrebbe scegliere di accorciare la “durata” del suo customer journey, agendo con maggiore im- pulsività o con le forme tipiche di una pratica di routine. Quel che conta, in ogni caso, è che l’impresa sia pronta a gestire in maniera ottimale il suo ca- pitale relazionale, curando nel migliore dei modi l’insieme dei touchpoint a cui è esposta (Mattiacci e Ceccotti, 2012).

È ciò che suggerisce il marketing omnichannel (Kotler et al., 2017), vale a dire l’attività di gestione sinergica dei differenti canali utilizzabili dal cliente − in maniera potenzialmente congiunta − lungo la sua esperienza complessiva (di ricerca, prova, acquisto, consumo, riacquisto). Le principali tendenze odierne raccontano di un consumatore sempre più in mobilità, ca- pace di spostarsi continuamente dall’offline all’online (showrooming), e vi- ceversa (webrooming). Pertanto, dinanzi a una tale proliferazione di forme di customer journey, fra mondo fisico e digitale, è compito del marketing

omnichannel soddisfare le aspettative di un’esperienza fluida e coerente. In questi termini, è più facile pensare alla relazione con l’esterno rispetto alle sue molteplici sfaccettature. Inoltre, a livello organizzativo, si comprendono meglio gli sforzi che le imprese dovrebbero sostenere per dotarsi di risorse e strategie che risultino di volta in volta adeguate (specifiche ma anche siner- giche), a seconda delle peculiarità di ogni canale di comunicazione e contatto (Kotler e Keller, 2010).

Come più volte sostenuto a partire dalle teorie sul collaborative learning, alla base delle strategie di contatto con il mondo dei consumatori non deve imperare la logica di uno scambio unicamente transattivo. Il commitment re- lazionale andrebbe, dunque, coltivato proprio in considerazione della centra- lità della relazione stessa (cfr. tab. 6). Solo successivamente − spesso nel lungo termine − sarà possibile valutare le ricadute di alcuni risultati in ter- mini strettamente monetari (si pensi al monitoraggio e alla cura di “gran- dezze” quali l’awareness, la brand reputation, la brand image, la customer

Tab. 6 - Principali determinanti della solidità della relazione

Fiducia è considerata l’elemento essenziale per la definizione di relazioni stabili e collaborative, poiché riduce il livello di incertezza relazio- nale (cfr. cap. 1, par. 2) e permette di coltivare reciproche aspetta- tive sul comportamento futuro della controparte (Castaldo, 2002) Commitment è definito come «il desiderio durevole di mantenere una relazione

di valore» (Moorman et al., 1993, p. 316) o come un «pegno di continuità tra le parti» (Dwyer et al., 1987, p. 19). Può essere af-

fettivo (di natura emozionale, che si sviluppa in funzione del grado di reciprocità e di coinvolgimento personale che un cliente ha con un’impresa) o calcolatorio (basato sulla valutazione costi/benefici relativi all’interruzione della relazione) (Fullerton, 2003) Cooperazione si tratta di azioni coordinate e complementari derivanti da alti li-

velli di soddisfazione e fiducia. Sono espresse anche attraverso comportamenti non opportunistici, ossia volti a non massimizzare il self-interest di breve periodo, bensì basate su aspettative di reci- procità nel corso del tempo (Anderson e Weitz, 1989; Anderson e Narus, 1990; Ganesan, 1994)

Obiettivi “congruenti” e valori condivisi

le percezioni di goal congruence (Lanza, 1998), che si verificano quando «i partner hanno comuni visioni su quali comportamenti, obiettivi, politiche siano da considerarsi giusti o sbagliati, impor- tanti o trascurabili» (Morgan e Hunt, 1994, p. 25)

Soddisfazione della performance

la capacità dell’impresa di mantenere fede alle proprie promesse, sia in relazione alle performance di prodotti/servizi, sia riguardo alle comunicazioni, sia rispetto al presidio dei touchpoint Adattamento l’atteggiamento che si verifica quando una parte in una relazione

altera i suoi processi o i contenuti scambiati per compiacere l’altra parte (Wilson, 1995)

Comunicazione quando rilevante, affidabile e puntuale, la comunicazione è consi- derata il fulcro di un’efficace relazione, poiché contribuisce ad al- lineare costantemente le percezioni e le aspettative delle parti (Morgan e Hunt, 1999), nonché a risolvere eventuali conflitti e im- previsti

Costi di interruzione della relazione e di transizione (switching costs)

i costi necessari per chiudere una relazione ed instaurarne una nuova. Essi possono essere cognitivi (ricerca ed elaborazione di informazioni), emotivi (percezione di rischio e incertezza), opera-

tivi (connessi al tempo e a tutti gli altri oneri collegati alla valuta- zione di alternative) e strutturali, ossia legati alle modalità d’uso (conversioni, interfacce, accessori extra, ecc.) (Costabile, 2001) Equità percepita nelle

ragioni di scambio

si basa sul bilanciamento tra gli input impiegati in una relazione e gli output da questa derivanti (Costabile, 1996). Rispetto ad un sin- golo scambio (equità diadica), anche l’equità risente della recipro- cità attesa e perfezionata nel corso del tempo (equità seriale)

Tornando ai touchpoint digitali, nel mondo della “second-life” abitato dalle community, è evidente che per le imprese possedere un sito vetrina eccessivamente “statico”, un’App non aggiornata, o una pagina Facebook riluttante alle conversazioni (in entrata e in uscita) sia alquanto controprodu- cente (Baudi di Vesme e Brigida, 2009; Panarese, 2010). Indubbiamente, il timore di essere esposti a eventuali critiche negative alimentate dall’eWOM (cfr. cap.1, par. 1) potrebbe costituire un fattore frenante per molte aziende, specie per quelle abituate a gestire una comunicazione tradizionalmente uni- direzionale; tuttavia, alcune ricerche hanno dimostrato che le imprese che hanno saputo gestire saggiamente i momenti di crisi associati all’eco di pas- saparola negativi abbiano visto accrescere la propria brand equity nel tempo, trasformando il rischio in opportunità (Qualman, 2009)29.

Per sintonizzarsi efficacemente con l’esterno (outward-looking), occorre ridefinire gli assetti organizzativi e strategici dall’interno (inward-looking), promuovendo una cultura d’impresa maggiormente aperta e partecipativa, volta ad intensificare la comunicazione verticale e trasversale (Kreitner e Ki- nicki, 2013), ad accrescere i livelli di delega e a favorire l’acquisizione e la condivisione delle conoscenze (Foss et al., 2011). In altre parole, dopo aver acquisito un’indole interna “empatica”, si tratta di sviluppare quella che è stata definita la capacità di assorbimento (absorptive capacity), intesa come «l’abilità di identificare, assimilare e sfruttare la conoscenza che proviene dall’esterno» (Cohen e Levinthal, 1990, p. 133). Il che non è affatto scontato: una ricerca condotta da Deloitte (2008) ha rilevato che i principali errori delle imprese, motivi di insoddisfazione fra i membri di alcune community, sono riconducibili alla tendenza a:

• anteporre i bisogni del brand a quelli del pubblico che si vuole attrarre;

• dedicare troppa attenzione all’opportunità tecnologica (lo spazio online) a scapito dell’infrastruttura sociale della community (che dovrebbe ani- mare tale spazio), nell’illusione che una volta creata una piattaforma gli utenti arriveranno da sé («build it and they will come»);

• sottodimensionare l’allocazione di risorse (umane e monetarie) dedicate alla community, oppure sovradimensionare l’investimento in fase di im- plementazione trascurando le risorse necessarie al suo mantenimento; 29 A tal proposito, scrive l’autore: «Le aziende inefficienti, quelle che non sono in contatto

con la propria clientela, vedono i post negativi come un disturbo. Queste imprese cercano di manipolare o censurare il feedback negativo, per esempio postando commenti positivi fasulli o facendo pressione sui siti, o applicando leggi contro la violazione dei marchi registrati. Le aziende (e le persone) efficienti abbracciano la critica online e usano tali informazioni per rendersi più competitivi e per migliorare prodotti e servizi agli occhi [sotto gli occhi] dei clienti» (ibid., p. 36).

• focalizzarsi su tematiche conversazionali che non sono connesse con gli obiettivi della community (che sia essa owned −di proprietà − o auto- generata dai consumatori).

Riguardo a quest’ultimo punto, non è detto che il contenuto principale di una conversazione debba riguardare necessariamente i prodotti o i servizi offerti sul mercato, specie se questi non siano propriamente adatti a stimolare una gradevole chiacchierata (ad esempio, per caratteristiche estetiche o per destinazione d’uso). Ad ogni modo, al di là di una possibile affinità con i propri prodotti/servizi, un’impresa che dovesse promuovere un’attività di

cause-related marketing30 o che, per ipotesi, decidesse di associare alla pro-

pria vision i valori della sostenibilità ambientale o quelli della parità di ge- nere, stimolerebbe un dialogo che andrebbe ben oltre gli immediati confini produttivi dell’azienda. In tal caso, la presenza di valori condivisibili − quando coerenti con il comportamento aziendale31 − potrebbe stimolare la

30 Per «cause-related marketing» si intendono quelle attività di marketing che prevedono

l’abbinamento tra la promozione di un prodotto/servizio e il sostegno di una campagna sociale a favore di una causa eticamente definita, ambientale o umanitaria. Procter & Gamble, ad esempio, dal 2010 al 2015 ha avviato nel mercato italiano la campagna Dash per UNICEF -

Insieme contro il tetano neonatale, per cui per ogni fustino venduto l’azienda si è impegnata a pagare le cure mediche a bambini di oltre quaranta Paesi del terzo mondo. L’adesione di

P&G e la risposta attiva dei suoi clienti hanno permesso di donare oltre 15 milioni di vaccini (www.unicef.it/doc/2287/dash-per-unicef-donati-oltre-15-milioni-di-vaccini.htm, ultimo ac- cesso: 28/10/2019).

Nel marzo 2017, la stessa azienda ha lanciato la campagna #WeSeeEqual, utilizzando gli spot pubblicitari di alcuni tra i suoi brand per «ispirare una nuova prospettiva riguardo alla parità di genere e superare il pregiudizio, creando consapevolezza su di esso e favorendo, così, il cambiamento». L’adesione, in questo caso, è partita direttamente dall’interno delle mura dell’azienda, in cui una nuova politica sull’inclusività ha previsto la rappresentanza numerica paritaria di donne e uomini (www.pg.com/it_IT/il_nostro_impegno/parita_di_genere.shtml, ultimo accesso: 28/10/2019). Più di recente, P&G ha abbracciato un’ulteriore causa sull’iden- tità di genere e la libertà di orientamento sessuale, scegliendo come protagonisti di alcuni suoi spot pubblicitari celebri attori appartenenti alle categorie LGBT (www.pg.com/it_IT/il_no- stro_impegno/diversita_inclusione.shtml, ultimo accesso: 28/10/2019).

31 Le recenti tendenze, fra le strategie di marketing adottate dalle imprese, a dichiararsi

frettolosamente portavoce di specifici valori filantropici hanno costretto a riconoscere il limite concreto di tali attività. Alcune di queste vengono annoverate fra le strategie di greenwashing (termine traducibile con l’espressione «lavata di verde», «verde di facciata»). Si tratta di ini- ziative intraprese dalle aziende per risultare apparentemente attente e sensibili alle questioni ecologiche, ma che in realtà incidono ben poco dal punto di vista dell’impronta ambientale, sull’ecoefficienza ed ecocompatibilità di prodotti e processi produttivi (Pratesi, 2014). Tuttavia, data la particolare attenzione ed emancipazione del consumatore odierno rispetto alle comunicazioni ingannevoli, un’eventuale mancata corrispondenza fra le dichiarazioni dell’impresa e la realtà può portare ad un rovinoso effetto boomerang (cfr. cap.1, par. 4).

brand affinity (Kotler et al., 2017), costituendo un ulteriore motivo di prefe- renza per il consumatore impegnato nella valutazione delle diverse value

proposition (si noti la natura polisemica del concetto di «valore»).

È chiaro, dunque, che nell’era digitale le opportunità di entrare in contatto con il consumatore si siano moltiplicate. Alcune sono predisposte, per così dire, “a tavolino”, altre emergono in modo spontaneo. Alla luce di questi cambiamenti significativi, i principali modelli riguardanti il customer jour-

ney sono stati più volte revisionati. Si è passati, pertanto, dallo storico AIDA (Attention, Interest, Desire e Action) − coniato da St. Elmo Lewis e perfe- zionato da Strong (Strong, 1925; Fabris, 1997; Lever et al., 2002), il quale scontava senza dubbio i limiti concettuali di una visione comportamentista − alle quattro A (Aware, Attitude, Act e Act again) di Rucker (Kotler e Keller, 2010), dove si presta particolare attenzione alla customer retention nei ter- mini dell’azione ripetuta (riacquisto); fino a considerare il più recente con- tributo di Kotler et al. (2017), i quali, attraverso il paradigma delle cinque A (Aware, Appeal, Ask, Act e Advocate), hanno arricchito il viaggio del consu- matore tenendo conto delle sue maggiori possibilità di interazione in un mondo interconnesso come quello odierno (cfr. figg. 2 e 3)32.

1. Aware (notorietà): il consumatore (ri)conosce una serie di brand attra- verso la pubblicità di marketing, esperienze di acquisto pregresse e sug- gerimenti derivanti da cerchie più o meno ristrette;

2. Appeal (attrattiva): il consumatore si sente attratto da un numero minore di brand rispetto alla totalità dell’offerta di mercato. Egli considererà solo questi brand nell’eventualità di un comportamento d’acquisto;

3. Ask (ricerca): la curiosità spinge il consumatore ad attivarsi per racco- gliere maggiori informazioni su uno o più brand candidati all’acquisto. Egli potrà scegliere di procedere unicamente in autonomia −compiendo

32 È opportuno precisare che tale modello non prevede un percorso necessariamente li-

neare come avveniva per la teoria del customer funnel (percorso lineare a imbuto), né che i consumatori debbano per forza percorrere tutte e cinque le fasi. In tal senso, Kotler sostiene che «un cliente può non sentirsi inizialmente attratto da un brand, ma il consiglio di un amico lo spinge a comprarlo. In questo modo il cliente salta la fase di appeal e passa direttamente da aware ad ask. D’altro canto è anche possibile che un cliente salti la fase ask e agisca im- pulsivamente sulla sola base della conoscenza iniziale e dell’attrattiva. In altri casi (per esem- pio in categorie di prodotto caratterizzate scarsità e alta popolarità), non necessariamente i sostenitori più leali sono anche acquirenti in prima persona. I prodotti Tesla, per esempio, sono spesso raccomandati da chi non li compra. Questo significa che i clienti saltano la fase

act e passano direttamente a advocate. Il nuovo viaggio del cliente può essere anche una spi- rale, in cui i clienti ritornano a fasi precedenti creando un circolo di feedback» (2017, p. 62).

ricerche più o meno approfondite a partire dai media e dai touchpoint pre- posti (anche in modalità showrooming e webrooming)33− o altresì av-

valersi dei consigli di familiari, amici e conoscenti, mediante un percorso in parte sociale che origina nelle conversazioni fra pari;

4. Act (azione): il consumatore procede all’acquisto. È chiaro che il viaggio del consumatore non si conclude a “transazione eseguita”. «Dopo aver acquistato un certo brand, i clienti interagiscono a un livello più profondo attraverso il consumo e l’uso e attraverso i servizi post-vendita. I brand devono coinvolgere i clienti e assicurarsi che l’esperienza complessiva di proprietà e utilizzo sia positiva e memorabile» (Kotler et al., 2017, p. 60); 5. Advocate (passaparola): il consumatore, in virtù di un’esperienza positiva (che spesso si reitera nel tempo, specie per quanto riguarda beni di largo consumo), decide di condividere la sua “personalissima” opinione con i suoi pari, nei più disparati contesti di interazione (a casa, a lavoro, fra amici, nella casualità dei «legami deboli», sul sito ufficiale del brand, su un forum online, su una piattaforma di recensioni, ecc.).

Fig. 2 - Il nuovo viaggio del consumatore nell'era della connettività Fonte: Kotler et al. (2017)

33 Per esempio, potrebbe provare un capo di abbigliamento in negozio e al contempo cer-

care informazioni su internet tramite smartphone, confrontare i prezzi e scoprire che c’è uno sconto del 20% per chi ordina online. Oppure, potrebbe consultare un motore di ricerca, ac- cedere ai social e sapere da uno dei suoi contatti che bisogna stare attenti alle taglie, perché leggermente disallineate rispetto agli standard. Quindi sceglierebbe di recarsi direttamente in negozio e, una volta deciso grazie anche al parere esperto del retailer, procedere all’acquisto.

Fig. 3 - Mappa del viaggio del consumatore attraverso le cinque A

Gli autori sanno perfettamente cosa significhi essere competitivi in quest’epoca. Per questo, in linea con le cinque A, hanno distinto due diffe- renti metriche per la rilevazione di alcune fasi del customer journey. Esse sono il PAR (Purchase Action Ratio) e il BAR (Brand Advocacy Ratio). Il primo rapporto serve a misurare il passaggio da aware ad act, vale a dire «quanto le aziende riescono a ‘convertire’ la consapevolezza dell’esistenza del brand nell’acquisto del prodotto» (ibid., p. 71). Il secondo, invece, si uti- lizza per stimare la capacità delle imprese di convertire la brand awareness in brand advocacy (il passaggio da aware ad advocate). Entrambi sono delle unità di misura per il calcolo degli investimenti in marketing (ROMI, Return

On Marketing Investments). Ma mentre l’azione d’acquisto rappresenta un ritorno puntualmente e direttamente quantificabile in termini di fatturato, al- tri risultati −come la notorietà effettiva del brand, la sua attrattività, la cu- riosità dei consumatori, il loro impegno e la loro affinità (cfr. fig. 4 e tab. 7) − appaiono più enigmatici ed elusivi. Tuttavia, come ampiamente sostenuto in queste pagine, l’orientamento a lungo termine – motore principale della co-evoluzione di domanda e offerta, della value co-creation, dell’open inno-

vation, dell’approccio conversazionale e della coltivazione di relazioni dura- ture – esorta al superamento di una visione rigida34, che, altrimenti, in

quest’epoca interconnessa, causerebbe l’inizio di una “nuova miopia”.

Fig. 4 - Interventi possibili per incrementare i tassi di conversione Fonte: Kotler et al. (2017)

34 Si pensi, ad esempio, a quei contesti d’impresa in cui, pur di favorire la distribuzione

dei dividendi tra gli azionisti, si soffoca l’innovazione e si impedisce di attuare utili investi- menti in direzione di una crescita che risulterebbe maggiore, sebbene di lungo raggio.

BAR = x x x FEDELTÀ = x x x Appeal Awareness ATTRATTIVA Ask Appeal CURIOSITÀ Ask Act IMPEGNO Advocate Act AFFINITÀ • Riposizionamento • Comunicazioni di marketing • Community marketing • Content marketing • Gestione del canale • Gestione della forza vendita • Programmi fedeltà • Customer care

Tab. 7 - Esempi di Key Performance Indicator in funzione delle relazioni online

Obiettivo KPI Modalità di calcolo

Sostenere il dialogo

Share of Voice

(numero di citazioni)

numero di citazioni spontanee ottenuto dal brand/prodotto/servizio in rapporto al totale delle citazioni (concorrenti)

Engagement

dell’Audience numero di visitatori che forniscono il proprio contributo a una data iniziativa di marketing con commenti, condivisioni, mention, rimandi a link, ecc. − rispetto alle visualizzazioni totali

Conversation Reach

(ampiezza della conversazione)

numero di visitatori unici (unique visitors) che partecipano a uno specifico topic di conversa- zione correlato al brand rispetto all’audience totale

Promuovere la marca, stimolare il passaparola

Active Advocates numero di individui che, in un dato intervallo

di tempo, postano contenuti positivi rispetto alla totalità degli utenti attivi (active users)

Advocate Influence percentuale di influenza di un singolo utente rispetto all’insieme di promotori del brand, (all’interno di uno o più canali social)

Net Promoter Scorea

(bontà della conversazione)

percentuale di promotori del brand/prodotto/ servizio in relazione alla percentuale dei suoi detrattori (sebbene un’advocacy negativa non sia da intendere necessariamente come un danno: essa può stimolare la conversazione e far emergere l’advocacy positiva “latente”) Facilitare il

supporto “orizzontale” tra i clienti

Issue Resolution Rate

(tasso di risoluzione dei problemi)

percentuale di richieste di assistenza evase in maniera soddisfacente mediante i social media rispetto al totale delle richieste (da valutare comparativamente a sistemi tradizionali di as- sistenza clienti, come il call center aziendale)

Resolution Time

(tempo di risposta)

ammontare del tempo (minuti, ore, giorni) ne- cessario per generare una risposta “umana” al problema segnalato dal cliente

Stimolare l’innovazione

Topic Trends identificare temi di tendenza (relativi al brand, al prodotto, alla categoria merceologica, ecc.) che possano fornire idee innovative

Idea Impact volume (interazione, livello di engagement,

ecc.) e valenza (sentimenti positivi) della con- versazione che si svolge intorno a un’idea (un nuovo prodotto o un nuovo servizio)

Fonte: elaborazione da Lovett et al. (2010) a= elaborazione da Reichheld (2004)

Sulla scorta del contributo di Mandelli e Accoto (2010), Cosenza (2016) ripercorre l’evoluzione delle principali categorie di metriche utilizzate per stabilire i risultati di una strategia di marketing, individuando sostanzial- mente quattro differenti momenti:

1. misurazione centrata sulle visite alla “pagina” (numero di click): agli albori del marketing digitale, quando il Web era percepito come un gior- nale, «la modalità prediletta dai marketer per l’identificazione del con- sumo di contenuti in Rete era quella della misurazione del numero di pagine viste» (ivi, p. 41);

2. misurazione del “tempo di fruizione”: con l’arricchimento dei contenuti (streaming video, ecc.), si è passati a misurare il tempo di permanenza sui siti, inserendo un elemento informativo maggiormente qualitativo; 3. misurazione degli “eventi”: si affaccia inizialmente il modello interac-

tion-based, dove viene valutata la qualità dell’interazione dell’utente con gli oggetti mediali predisposti;

4. misurazione “sociale”: la centralità dell’interazione raggiunge la giusta importanza, affiancando al monitoraggio delle relazioni soggetto-og- getto (visione di un video, inscrizione a una newsletter, download di un documento, attivazione di un gioco, ecc.) quelle interindividuali. Si ar- riva, dunque, a comprendere che ai più immediati conversion rate vanno affiancati nuovi conversation rate, «per tenere conto della socialità svi- luppata e favorita dall’ambiente sociale» (ibid., p. 42).

È bene precisare, però, che tale evoluzione, sebbene assuma sempre più i contorni di una consapevole social marketing analitycs (Lovett et al., 2010), non allontana definitivamente le aziende dal pericolo di risultare inefficaci. Basti pensare all’attenzione eccessiva posta da queste verso le counting me-

trics35, le quali rischiano di rappresentare la «trappola di una misurazione

eterodiretta dalle tecnologie ed effettuata senza alcun collegamento con gli 35 Le counting metrics sono le metriche specifiche implementate dalle singole piattaforme

social (fan di Facebook, follower di Twitter, like, condivisioni, ecc.). Lovett (2011) identifica,