• Non ci sono risultati.

L’esercitazione progettuale come strategia pedagogica

L’esercitazione progettuale nel design consiste nell’assegnare un compito derivato dalla pratica professionale del settore specifico che ha come obiettivo finale la realizzazione di un prodotto, o servizio, reale o virtuale; consiste nello sviluppo di un progetto che comporta l’esposizione di principi costruttivi o idea­ tivi da parte del docente, la messa in campo di competenze pregresse, una ricerca preliminare. Nell’assegnazione vengono fissati i requisiti ideali, i vincoli tecnici e di budget, le tecnologie produttive e i tempi di esecuzione. Il lavoro è testi- moniato dalla modellizzazione, cioè dalla resa visiva dei momenti progettuali, che comporta passaggi decisionali, un esecutivo finale e prevede l’esplicitazione scritta o verbale delle motivazioni delle scelte progettuali. Il docente supporta l’attività degli studenti concedendo una crescente autonomia che dipende dal livello di expertise raggiunto nel curricolo. La valutazione può tenere conto del processo, della motivazione delle scelte, della modellizzazione, del prodotto fi- nale, assegnando ai singoli elementi percentuali di peso diverse nel complesso. L’esercitazione progettuale può essere considerata come una variante del pro- blem solving1.

L’esercitazione progettuale viene pratica nell’in segnamento del design fin da gli inizi, ne troviamo tracce dalla lettura dei documenti del Bauhaus e di Ulm (testimone Anceschi, 1972), lo Studio Design Learning2 e oggi è al centro della

didattica del design nella Scuola secondaria in modo massiccio come conferma- to dall’indagine effettuata presso i docenti, per i quali costituisce una percentuale tra il 45 e il 75% dell’intera attività. È praticata ancora presso l’università e l’ac- 1 Il problem solving è un processo mentale, parte di un più largo processo problematico che comprende

“l’individuazione e l’inquadramento” del problema. È stato definito (Goldstein F. C., & Levin H. S. 1987) come un processo cognitivo di ordine elevato che richiede la modulazione e il controllo di rou- tine e di abilità fondamentali. Il problem solving si richiede quando un organismo o una intelligenza artificiale vuole passare da uno stato acquisito ad uno stato desiderato. Herbert Simon ha esplorato il problem solving in domini cognitivi ricchi, come la fisica, la scrittura o il gioco degli scacchi, nel ten- tativo di trarre una teoria globale di soluzione. Altri hanno proposto metodi risolutivi di problemi che hanno suscitato interesse e sono frequentemente proposti e applicati: tra questi ricordiamo il “brain- storming” (A.F. Osborn, 1953), il metodo per “prova ed errore” (Ashby, 1960), il “pensiero laterale” (E. De Bono, 1967) (in Wikipedia, 2009).

2 “Studio Design Learning” è l’espressione che si usa comunemente in ambito anglosassone per indicare la modalità formativa laboratoriale del designer e dell’architetto.

cademia, dove viene sostanzialmente isolata dalla teoria e confinata nei laborato- ri (Caratti 2006); è una forma di apprendimento situato, e nella sua forma ideale nasce dentro una comunità di pratica perché indaga problemi, casi reali, ed ha tutte le caratteristiche per rientrare con piena legittimità nel quadro del Problem Based Learning1, PBL, (Sassoon, 2008), sul quale esiste una letteratura consi-

stente. Kvan (2001) paragona l’esercitazione progettuale e il PBL e osserva un parallelismo tra i due, anzi una derivazione del secondo dal metodo laboratoriale della formazione in studio; rileva che la focalizzazione sul prodotto anziché sul processo è lo snodo cruciale e il punto debole su cui si gioca la formazione con il metodo tradizionale.

Il Problem Based Learning

Il PBL viene definito come “un approccio totale all’e ducazione” nel quale l’apprendimento è “il risultato del processo che porta alla comprensione e alla soluzione di un problema” (in Rotta che cita Barrows, 1986). Si tratta di una for- ma di conoscenza procedurale Gibson (2008) che con siste nella consapevolezza di processi, metodi, ricerche e pratiche di routine, una forma di know­how che si acquisisce attraverso la pratica, caratterizzata da una serie di abilità informate dalla conoscenza concettuale: queste forme di conoscenze dichiarative, procedu- rali o condizionali possono subire una influenza reciproca o essere influenzate da altre forme. La conoscenza del design è un appropriato bilanciamento tra cono- scenze concettuali e procedurali (McCormick, 1997). La conoscenza tacita può costituire parte di queste conoscen ze ed emerge dalla pratica e dall’esperienza acquisita (Polany, 1962)2.

La strategia didattica del PBL è centrata sullo studente e fondata sul pro- blema reale contestualizzato. Gli studenti lavorano in piccoli gruppi alla ricerca di soluzioni del problema: attraverso la ricerca lo studente identifica che cosa sa 1 Problem Based Learning. Useremo l’acronimo PBL per brevità.

2 Occorre tuttavia ricordare che il problem solving non corrisponde in maniera esatta al design, anche se i due termini sono spesso accoppiati: ricor dia mo che il significato originale di “design” è “progetto”, il design si accomuna più opportunamente con il project­solving come avremo occasione di provare più avanti. Il problem solving è strettamente legato alla conoscenza concettuale, dipendente dal contesto,

e che cosa non conosce, stabilendo così un framework dentro il quale circoscri- vere il problema. Le caratteristiche del PBL si possono così sintetizzare: l’ap- prendimento è guidato da un impegnativo problema aperto­chiuso, gli studenti lavorano in piccoli gruppi collaborativi, il docente assume il ruolo di facilitatore dell’apprendimento.

L’articolazione del problem solving

Si tratta di una forma di apprendimento auto diretto; il gruppo di studenti si impegna nella interpretazione dei dati del problema, quindi identifica che cosa viene chiesto per risoverlo, riesamina il problema per vedere se quello che hanno scoperto corrispon de ai fatti, alle abilità o ai concetti adatti per proporre una so- luzione. Se il problema non è risolto con la prima fase, gli studenti ripercorrono

i primi tre passi fino a che non viene raggiunta una soluzione sod disfacente. A questo pun to procedono alla fase di astrazione e di riflessio- ne. L’astrazione comporta l’articolazione dei contenuti appresi e il confronto tra il caso e gli altri casi conosciuti. Nella fase di riflessione il gruppo discute l’approccio, quindi riflette e cri- tica il processo di apprendimento cercando di Tavola n. 11. I cinque passi dell’ap-

prendimento basato sul problema.

identificare le are per i futuri miglioramenti (Korschmann e altri, 1994).

Mario Rotta (2003) inserisce il metodo PBL dentro una cornice costruttivista, cita Merrill (2007) e i suoi cinque principi per una corretta procedura: definizione del problema, attivazione della precono- scenza, dimostrazione dei principi, applicazione sul compito, integrazione con il quotidiano.

Il problema è individuato nel mondo reale, professionale, e gli studenti sono immersi in una strategia che vede una progressione crescente del l’impegno neces sario.

L’apprendimento è promosso quando i nuovi apprendimenti trovano posto dentro strutture cognitive significative che sono state attivate e che costitui-

scono le basi per la successiva dimostrazione, applicazione e integrazione. La dimostrazione dei principi deve basarsi su contenuti consistenti e gli stu-

denti sono guidati a correlare le informazioni generali con richieste particola- ri: il pro blema va dimostrato esemplificando i concetti, dimostrando le pro­ cedure, visua liz zando i processi, modellizzando i comportamenti, dirigendosi verso le infor mazioni rilevanti. Inoltre i contenuti assumono peso se i media usati sono con formi allo scopo.

L’applicazione assume valore se gli studenti sono impegnati in compiti non bana li e dai quali possono ricevere feed­back intrinseci o correttivi. L’ap pli­ ca zio ne è favorita da un tutoraggio che progressivamente sa ritirarsi e diminui­ re ad ogni progresso. L’apprendimento è favorito se le nuove conoscenze sono integrate e assumono un rilievo nella vita quotidiana degli studenti, sono incentivati a rifletterci, discu terne e a difendere anche pubblicamente la nuo- va conoscenza o abilità acquisita. L’apprendimento è fa vo rito inoltre se gli studenti sono incentivati ad esplorare accessi e modalità personali per arriva- re alle conoscenze.

Relazionare, creare, donare

Ancora più precisamente, riprendendo Rotta (2003), si può considerare l’eser citazione sul progetto come “apprendimento attivamente coinvolto” ­ se- condo la teoria dell’engaged learning1 (Kearsley G. e Schnei derman 1999),

per ché vi risultano presenti i tre elementi caratterizzanti: “relazionare, creare, donare”. “Relazionare” gli uni con gli altri e con il contenuto: si ipotizza infatti che l’apprendimento sia favorito dall’ambiente collaborativo. “Creare” un ar- tefatto conoscitivo con attività orientate allo sviluppo di progetti. “Distribuire” conoscenza alla comunità, se il risultato del processo è riu tiliz zabile e con una verifica reale.

1 È il processo attraverso il quale lo studente partecipa attivamente nel suo apprendimento. Gli indicatori di tale processo sono: lo studente stabilisce gli obiettivi e sviluppa e ridefinisce le strategie per risol- vere i problemi. È intrinsecamente motivato e ricava soddisfazione dal lavoro, comprende che molti problemi hanno diversi punti di vista e quindi che l’apprendimento è sociale. I compiti assegnati sono complessi, multidisciplinari, hanno una stretta relazione con i problemi reali e richiedono un impegno nel tempo. Il contesto è collaborativo ed empatetico. Il docente ha il ruolo di facilitatore e di guida:

L’autoefficacia

Nell’approntare il PBL è inoltre importante l’elemento cooperativo come ambiente di apprendimento in questo è rilevante l’interazione fra pari e il lavoro di gruppo, nonché il confronto pubblico rispetto al raggiungimento di risultati che porta gli studenti alla percezione dell’autoefficacia: “l’ambiente di appren- dimento che costruisce l’abilità come competenza rag giun gibile, de­enfatizza la com pa ra zione sociale, e accentua l’auto comparazione del progresso dei risultati personali che sono seguiti dal senso dell’efficacia del lavoro svolto” (Bandura, 1993, p.125).

L’apprendimento situato

Il concetto di “apprendimento situato” è esposto da Lave e Wenger (2006) e da Wenger (2006): l’apprendimento non consiste nella trasmissione di conte- nuti astratti, slegati dal contesto, ma matura come un processo di scambio se- condo il quale la conoscenza è costruita nella comunità sociale e fisica situata dentro un contesto determinato. L’apprendimento situato avviene infatti den tro lo stesso contesto dove viene applicato: gli autori portano esempi presi prevalen- temente dal l’educazione degli adulti, ma si può ritenere che una comunità come quella che troviamo nella scuola secondaria possa costituire un caso esemplare di “comunità di pratica” all’interno della quale l’esercitazione progettuale può diventare “non una forma di educazione ma piuttosto una strategia pedagogica” (Lave e Wenger, 1991, p. 40). La formazione professionale, in particolare, come testimoniato dal l’inchiesta sui docenti, pratica lo stage ed ha un vivace rapporto con i profes sionisti del settore, ed è di fatto una comunità composta da studenti e docenti, collegata con il mondo professionale, che ha la possibilità di intervenire in vari modi nel curricolo formativo.

Problem Based Learning in discussione

Il metodo di apprendimento/insegnamento PBL è stato sottoposto a critica (Kirschner e altri, 2006) affermando che un insegnamento più strutturato e mag- giormente pilotato dal docente consente risultati migliori e in tempi più bre vi, specialmente nel caso di studenti novizi. Altri (McCormick, 1997) sostengono che le abilità acquisite nell’applicare il problem solving in un dato do minio siano

difficilmente trasferibili in uno diverso e che il metodo non sia valido per ogni tipo di contesto.

Ma Hmelo-Silver (Hmelo-Silver e altri, 2007) rileva che occorre eviden- ziare come i metodi in questione non siano in realtà a “orientamento/conduzione debole”. Occorre mettere bene in chiaro che genere di supporto e sostegno è necessario che l’insegnante fornisca per stu denti diversi e per obiettivi diversi. La richiesta istituzionale oggi, soprattutto nei riguardi delle scienze e delle tec- nologie, insiste sull’importanza della comprensione della natura della ri cerca e della pratica scientifica come elemento portante dell’alfa betizzazione, richiesta che va ben oltre i limiti dei contenuti disciplinari e che non li svilisce ma li esalta. L’accento va posto sulla conoscenza “situata” e sul fatto che l’ambiente di apprendimento scolastico deve essere il più possibile vicino, analogo all’am­ biente e al contesto professionale. I metodi in analisi usano un set di istruzioni scritte come definizione del problema e come orientamento: il supporto docente è teso inoltre a sostenere nel compito lo studente e a indirizzarlo, facendo scaf-

folding1, verso il modo migliore per affrontarlo, problematizzando gli aspetti

importanti del lavoro e suggerendo le chiavi e le strategie adatte. Inoltre il sup- porto è distribuito dal l’insegnante e dallo studente stesso nel materiale presente nell’ambiente e lungo il percorso curricolare (p. 101). L’integrazione di modelli di analisi scientifica e disciplinare dentro il processo stesso di risoluzione del PBL promuove il ragionamento attraverso argomentazioni effettive.

Lo sviluppo di “soft skills”

Più in generale è importante rilevare quali sono i risultati per i quali questi metodi funzionano, non solo includendo i risultati di apprendimento facilmente misurabili con i test, ma lo sviluppo di competenze morbide di “soft skills2

(Bereiter e Scardamalia, 1996), che non sono facilmente rilevabili, ma che sono indispensabili nella società della conoscenza, come la pratica epistemica, la ca- 1 Termine introdotto da Bruner che significa letteralmente “impalcatura”: indica le strategie di sostegno

e guida ai processi di apprendimento che consentono allo studente di svolgere un compito nonostante non abbia ancora le competenze per farlo in autonomia.

2 Soft skills si traduce con “competenze sociali” intese come la disponibilità e la capacità di interagire con gli altri in modo costruttivo per conseguire i propri obiettivi individuali in ambito professionale. Il

pacità di auto­apprendimento e di collaborazione. L’abilità di lavo rare in gruppo viene considerato un obiettivo importante, quanto l’alfa be tiz za zio ne letteraria o scientifica e questa abilità deve poter essere trasferita in altre si tuazioni, con altri attori, nella società e serve ad alleggerire il peso del lavoro quotidiano della gente. Questo abilità è considerata fondamentale nell’attività professionale e del designer.

Costruire la conoscenza

Diverso è l’apprendimento come dato interno, non osservabile, rispetto alla “co struzione di conoscenza1” (Bereiter e Scardamalia, 2003), che vive nel

mondo ed è spendibile per lavorare e rapportarsi con gli altri. La costruzione di conoscenza viene definita come “la creazione, la verifica, e l’im plementazione di artefatti concettuali. Non è confinata all’educazione ma si applica in tutti i cam- pi” (op. cit. p. 13). Una costruzione profonda di conoscenza avviene con pra tiche aperte come “identificare i problemi di comprensione, stabilire e ridefinire obiet- tivi in base al progresso compiuto, collegare informazioni, teorizzare, disegnare esperimenti, porre questioni e dimostrare teorie, costruire modelli, monitorare e valutare i progressi, e riportare tutto da parte dei partecipanti stessi agli obiettivi della costruzione della conoscenza” (p. 4), mentre la costruzione superficiale della conoscenza avviene attraverso attività nelle quali i concetti sono impliciti. Nel problem solving, all’interno dell’insegnamento del design, avviene un pro- gressivo spostamento tra questi due estremi dell’approccio costruttivista, super- ficiale e profondo Jonassen (2009).

Jonassen e il problem solving nel design

Secondo Jonassen (2000) il problem solving ha tre attributi critici:

ha un aspetto sconosciuto, un processo, un metodo, o un posizione che vale la pena di es sere indagata,

richiede di essere rappresentato mentalmente,

questa rap presen ta zione è detta “spazio” del problema.

Per manipolare questo spazio occorre compiere delle attività cognitive e so ciali come generare delle ipotesi, compiere delle speculazioni, collegare in- 1 Nel testo originale “knowledge building”.

formazioni e costruire modelli: questo è il caso tipico del designer che prende decisioni specifiche riguardo alla modalità di presentazione, realizza una map- patura dello spazio progettuale e dei singoli componenti del problema. Per ogni situazione specifica, per ogni problema collocato nel contesto, ogni disciplina ha un suo modo caratteristico di procedere e di cercare soluzioni: la ricerca ha di- mostrato che la familiarità con una tipologia di problemi è l’elemento predittivo di maggior efficacia riguardo al successo del suo esito, ma d’altra parte è anche quella che ottunde la consapevolezza e la riflessione del risolutore riguardo agli strumenti usati (Jonassen, 2000). La modellazione in particolare è considerata dai designer e dai for matori il linguag gio espressivo tipico della professione e consiste nella capacità di concretizzare il pensiero progettuale attraverso rap pre­ sen ta zio ni visive e di trattare il linguaggio simbolico che si associa alle rappre- sentazioni stesse.

Problemi strutturati e non strutturati

Jonassen (1997), riprendendo Herbert Simon, distingue due generi di pro- blemi: strutturati, come i classici problemi scolastici, e non strutturati che sono efficacemente rappre sentati dai problemi quotidiani che ciascuno di noi affronta nella vita e che si pre sen tano molto di frequente nella professione medica, degli avvocati, dei designer. A conferma di questa netta separazione la ricerca ha di- mostrato che nell’affrontare le due tipologie di problemi sono richiesti modelli epistemici dif ferenti che impegnano competenze intellettuali diverse.

Jonassen (2000) elenca una serie di caratteri che individuano i problemi non strutturati: il grado di incognita di alcune parti del problema, dei vincoli o degli obiettivi stessi, il grado di unicità, di mancanza di precedenti, la presenza di molte soluzioni possibili o parziali oppure che non raggiungono il consenso perché i criteri di valutazione stessi sono multipli, la mancanza di regole sicure da seguire, o sufficientemente predittive, la necessità che il risolutore si esponga con una opinione o un giudizio personale a difesa delle proprie soluzioni e che abbia la forza e gli argomenti per sostenerle. Anche la complessità del problema è diversificata ed è determinata dal numero di argomenti e variabili, e dai legami tra queste variabili, nonché dalla prevedibilità

I problemi non strutturati, come quelli che si incontrano nel design, ten- dono a essere contestualizzati, legati ad un ambiente, a differenza dei problemi strutturati che tendono ad essere astratti. Ma se il problema strutturato è posto in forma narrativa ecco che può essere contestualizzato; analogamente se il pro- blema non strutturato è posto sotto forma di scelte nette, di dilemmi, diventa relativamente astratto. ricerca eteronomia autonomia attività strutturato situato/specifico dominio astratto/generalista dominio project based problem based de-strutturato complesso/ metaproblema semplice/ discreto

Tavola n. 12. Problema strutturato e non strutturato. La sintesi del concetto secondo Jonassen.

In base alla analisi dei compiti richiesti il “problema di design” è uno de- gli undici tipi di problemi individuati da Jonassen, ed è definito come uno tra i più de­strutturati e più complessi, la cui solu zione, fortemente orientata alla progettazione, è aperta e consente ampi margini di azione: “il design richie- de l’applicazione di una grande quantità di conoscenze professionali con molte conoscenze strategiche che confluiscono in un progetto originale. Il design rap­ presenta il più lontano tipo di trasposizione. Progettare va ben oltre il normale concetto di trasferimento di specifiche competenze nel problem solving fino alla generalizzazione di un set di competenze. Normalmente al designer si richiede di effettuare le valutazioni e di usare le sue conoscenze per generare un progetto che funzioni entro i limiti del sistema. […] I criteri per la migliore soluzione non sono sempre ovvii, ma la capacità di argomentare e giustificare aiuta i designer a razionalizzare i loro progetti” Jonassen (2000).

Il ruolo del PBL nella formazione al design

Nonostante la ricerca non abbia ancora fissato stabilmente i vantaggi ef- fettivi di una didattica PBL, certamente in un ambito specifico come nel design dove l’esercitazione progettuale in forma di PBL non è una novità, anzi una pratica consolidata, è necessaria una maggiore integrazione con il resto dell’am- biente scolastico e una maggiore con sapevolezza dei potenziali del me todo che può maturare solo se viene implementato correttamente attra verso uno standard definito. Il PBL crea un ambiente ricco di prospettive critiche razionali di pensie- ro e progettazione, inoltre, come testimoniato in Rotta (2006), diverse ricerche ne con vali dano l’efficacia sul piano motivazionale, nell’esaltare i diversi stili cognitivi e nel recupero di studenti in difficoltà.

Secondo Rotta (2006) esistono quattro elementi critici nell’affrontare il PBL: si tratta di una didattica che si presta meglio all’approccio con le disci- pline scientifiche e tecniche e indiscutibilmente il design appartiene a questo territorio. Alcune categorie di problemi, nel novero delle undici individuate da Jonassen, sono più adatte di altre ad essere affrontate in modalità PBL, ma tra que ste sicuramente emerge il design, per la maggiore presenza di variabili e per la possibilità di soluzioni aperte e creative. Una criticità risiede nella difficoltà di individuare criteri e pro cedure di valutazione formative e questo può essere ovviato solo con l’allestimento di “rubriche” flessibili e adeguate per l’auto va­ lutazione e la valutazione. Da ultimo, tenendo presente che il PBL dovrebbe essere al centro del curricolo formativo e quindi di una visione strategica, l’ele- mento critico è individuato nel ruolo che il docente si attribuisce nella strategia