• Non ci sono risultati.

La concezione tedesca del ruolo dello Stato in economia

3. L’Eurozona come moderna reincarnazione del gold standard

In un libro di recente pubblicazione dedicato a una analisi comparata della Grande depressione e della Grande recessione, Barry Eichengreen sottolinea che le due grandi crisi economico-finanziarie dell’epoca moderna si caratterizzano per una serie di similitudini, tra le quali anche il ruolo di trasmissione e di amplificazione degli effetti prodotti dalle bolle immobiliari, azionarie e creditizie svolto dal gold standard nella seconda parte degli anni ’20 del secolo scorso e dall’Eurosistema ai giorni nostri. In sede di introduzione del suo libro Eichengreen infatti scrive:

This is a book about financial crises. […] It is about the Great Recession of 2008-09 and the Great Depression of 1929-1933, the two great financial crises of our age. That there are parallels between these episodes is well known […]. The 1920s saw a real estate boom in Florida and in the commercial property markets of the Northeast and NorthCentral regions of the United States to which early-twenty-first-century property booms in the United States, Ireland and Spain bore a strong family resemblance. There was the sharp increase in stock valuations, reflecting heady expectations of the future profitability of trendy information-technology companies, Radio Company of America (RCA) in the 1920s, Apple and Google eighty years later. There was the explosive growth of credit fueling property and asset-market booms. There was the development of a growing range of what might politely be called dubious practices in the banking and financial system. There was the role of the gold standard after 1925 and the euro system after 1999 in amplifying and transmitting disturbances.14

Le premesse che avrebbero dovuto garantire il processo di crescita dei paesi membri dell’Eurozona illustrate all’inizio del secondo capitolo coincidono con quelle che, secondo la mentalità dell’epoca, stavano alla base della crescita dei paesi che, nel periodo che va dal 1870 sino alla vigilia della prima guerra mondiale, facevano parte del cosiddetto gold standard ‘classico’:

[…] educated Britons, and their counterparts in other countries, saw markets of worldwide scope as the normal state of affairs. Businessmen, bankers and their professional offspring moved easily among cities from Moscow to Chicago, or at least from Berlin to New York. The gold standard symbolised the mentality and patterns of conduct of these intellectual and economic elites. It was integral to the emergence of what Keynes referred to as ‘the investing class’, for whom saving and investment were both a duty and a delight. ‘The morals, the politics, the literature, and the religion of the age joined in a grand conspiracy for the promotion of saving. God and Mammon were reconciled.’ More concretely, saving and investing were encouraged by the stability of money values. The gold standard, which promised stable prices and restrained

the financial freedom of governments, was the guarantor that thrift would be rewarded. As an international system, it stabilised exchange rates worldwide. And this exchange rate stability encouraged unprecedented levels of foreign investment. That countries like Britain and France had invested a quarter to a third of their savings abroad, fuelling the expansion of the international economy, was a consequence of the gold standard and at the same time a powerful support of it.15

Eichengreen (1996, p. 372) sottolinea che, negli anni del gold standard ‘classico’, i capitali, che erano del tutto liberi di muoversi da paese a paese, finanziavano gli squilibri di parte corrente dei paesi in deficit, ma soltanto a condizione che tali squilibri fossero sostenibili. La sostenibilità degli squilibri di parte corrente era garantita dalle ‘regole del gioco’ del gold standard, perché, in presenza di un regime monetario internazionale in cui ogni valuta nazionale era ancorata a una parità fissa con l’oro, vincoli espliciti in materia di politica monetaria e vincoli impliciti sulla politica fiscale impedivano che l’inflazione erodesse la competitività delle merci di un paese sui mercati internazionali. In un mondo caratterizzato dalla apertura agli scambi commerciali e dalla perfetta mobilità dei capitali, l’adesione a un sistema di cambi fissi quindi implicava che le relazioni tra Stato e mercato all’interno di ciascuna nazione si conformassero ai principi di funzionamento delle economie di mercato postulati dagli economisti neoclassici.

Friedrich von Hayek ha descritto l’effetto disciplinante derivante dall’adesione a un sistema di cambi fissi nel modo seguente:

[…] l’argomento più forte a favore dei tassi di cambio fissi [è] che essi rappresentano il freno, praticamente insostituibile, di cui abbiamo bisogno per costringere i politici, e le autorità monetarie responsabili nei loro confronti, a preservare la stabilità della moneta. Per mantenere invariato il valore della moneta ed evitare l’inflazione, i politici devono prendere continuamente misure altamente impopolari, che essi sono in grado di giustificare agli occhi delle persone che ne sono colpite solo mostrando che il governo è stato costretto a prenderle. Fintanto che il mantenimento del valore esterno della moneta nazionale è considerato una necessità indiscutibile, come accade con un regime di cambi fissi, i politici possono resistere alle continue richieste che venga erogato credito a buon mercato, che non vengano innalzati i tassi di interesse, che vengano effettuate maggiori spese per «lavori pubblici», e cosí via. Con i tassi di cambio fissi una caduta del valore esterno della moneta o un deflusso d’oro o di riserve di valuta estera agivano come segnali indicanti la necessità di un’immediata azione governativa. Con i tassi di cambio flessibili l’effetto di un aumento della quantità di moneta sul livello dei prezzi interni è troppo lento perché la gente lo percepisca come un utile indicatore o perché ne attribuisca la responsabilità a coloro che, in ultima analisi, ne sono effettivamente responsabili. Inoltre, l’inflazione dei prezzi è generalmente

preceduta da un aumento dell’occupazione, che è naturalmente visto con favore; è quindi persino possibile che l’inflazione venga accolta favorevolmente, in quanto i suoi effetti negativi risultano visibili solo dopo un certo tempo. […] Ma a lungo andare non credo che si possa recuperare la stabilità del sistema monetario internazionale senza ritornare ad un sistema di tassi di cambio fissi, che impone alle banche centrali dei vari paesi quei vincoli che sono essenziali se esse vogliono resistere con successo alle pressioni delle forze orientate in senso inflazionistico nei rispettivi paesi – inclusi, abitualmente, i Ministri delle Finanze.16

In verità, Eichengreen (1996, pp. 376-377) ricorda che ai tempi del gold standard ‘classico’ le pressioni per l’adozione di politiche macroeconomiche espansive erano ridotte. Ridotta, pertanto, era anche la possibilità che i paesi partecipanti al gold

standard sperimentassero fenomeni inflazionistici che li avrebbero privati in modo

permanente della loro competitività esterna. Questa circostanza dipendeva dal fatto che, all’epoca, non esisteva alcuna teoria articolata sul ruolo potenzialmente stabilizzante della politica fiscale, che, generalmente, veniva quindi condotta seguendo il precetto ‘classico’ del pareggio di bilancio.17 Di conseguenza, anche i rischi di una politicizzazione della politica monetaria erano molto minori di quanto non lo sarebbero stati in epoche successive.

Nei rari casi in cui un governo perdeva il controllo sulla politica fiscale o sulla propria capacità di pagare gli interessi sul debito pubblico, di regola a causa di circostanze legate a eventi bellici, esso poteva ricorrere all’opzione di una temporanea uscita dal gold standard, con l’impegno implicito di un successivo rientro alle condizioni vigenti prima dell’uscita stessa.18

16 Hayek (1975c) [1988], pp. 483-484. La citazione di Hayek è tratta dai contenuti di una conferenza tenuta nel febbraio del 1975 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma in occasione della celebrazione del centesimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi.

17 James Buchanan e Richard Wagner offrono la seguente descrizione dei principi fiscali ‘classici’: “[…] i principi pre-keynesiani o ‘classici’ trovano probabilmente la loro migliore sintesi nell’analogia tra lo stato e la famiglia. Una saggia condotta fiscale da parte di uno stato veniva concepita essenzialmente allo stesso modo di quella di una famiglia o di un’impresa. La parsimonia, non la prodigalità, era accettata come virtù cardinale e questa regola assunse la sua forma concreta nel principio, generalmente accettato, secondo cui i bilanci pubblici dovevano essere chiusi in pareggio, se non in avanzo, e che i disavanzi dovevano essere tollerati solo in circostanze straordinarie. Disavanzi considerevoli e prolungati erano considerati il sintomo di follia fiscale. I principi di corretta gestione degli affari potevano allo stesso modo applicarsi alla gestione fiscale dello stato. Quando le spese in conto capitale erano finanziate tramite debito, si dovevano creare e mantenere i fondi di ammortamento. […] I principi fiscali classici o pre-keynesiani, in altre parole, ammettevano un avanzo di bilancio in tempi normali per disporre di un cuscino per tempi più travagliati.” (Buchanan e Wagner (1977) [1997], pp. 23-25)

18 “The gold standard was based on a contingent rule […]. In some unusual circumstances, above all the event of a major war, the committment to gold convertibility would be temporarily suspended, but with an expectation of an eventual return to convertibility without a change in the exchange rate on the restoration of ‘normalcy’. The model for this behavior was given by the British example, in which convertibility was suspended in the French Revolutionary War in 1797,

Il mondo del gold standard ‘classico’ venne sconvolto dalla Prima guerra mondiale. Di conseguenza, vennero meno le condizioni che avevano consentito di subordinare, sempre e comunque, le politiche macroeconomiche al mantenimento delle parità auree:

[…] numerosi cambiamenti politici ed economici sconvolsero la configurazione del potere politico in carica prima del 1913. Adottando la strategia corporativa per assicurare la pace sociale, i governi incoraggiarono durante la guerra la diffusione del sindacalismo. Questioni rimaste precedentemente estranee alla sfera politica, quali la determinazione dei livelli dei salari e dell’occupazione, entrarono improvvisamente in quell’ambito. L’ampliamento del diritto di voto e la crescita dei partiti politici dominati dalle classi lavoratrici intensificarono le pressioni perché la politica economica si ponesse obiettivi occupazionali. Quando gli obiettivi in tema di occupazione e di bilancia dei pagamenti si trovavano in conflitto, non fu più chiaro quale tra essi avrebbe prevalso. Nacquero dubbi sulla credibilità degli impegni relativi all’oro. I capitali non fluirono più necessariamente in direzioni stabilizzanti; potevano fare il contrario, intensificando le pressioni sui paesi che andavano perdendo riserve. L’erosione della credibilità rese il sistema – tra le due guerre – sempre più vulnerabile agli shock destabilizzanti. Le decisioni delle banche centrali, considerate a lungo arcane, divennero farina del mulino della politica. Le autorità monetarie vennero attaccate dalla sinistra in quanto portatrici di perverse e antiche dottrine monetarie e da destra perché si arrendevano alle richieste delle masse, perdendo così larga parte dell’isolamento di cui avevano un tempo goduto. Nei casi in cui l’indipendenza delle autorità monetarie fu più gravemente compromessa, si ebbero episodi esplosivi di inflazione. Incapaci di portare in pareggio i conti dello Stato, i politici arruolarono i torchi monetari delle banche centrali per finanziare i disavanzi. […] I responsabili della politica fiscale in generale godevano di ancora minore autonomia rispetto alle pressioni politiche dei loro omologhi delle banche centrali. La guerra sconvolse le convenzioni relative alla distribuzione dell’onere fiscale vigenti prima del 1913. Il livello e la composizione della pressione fiscale vennero radicalmente modificati, con una redistribuzione dei redditi radicale. […] In mancanza di un consenso sulla distribuzione dell’onere fiscale, non era affatto certo che si sarebbero riscosse maggiori imposte o che si sarebbe tagliata la spesa per difendere il gold standard; e ne fu vittima la credibilità.19

and restored in 1817 (at the old parity). Britain followed this model in 1914, with a return to the old parity in 1925. The rule is contingent in the sense that the public understands that the suspension will only last for the duration of the wartime emergency plus some period of adjustment. It assumes that afterwards the government will follow the deflationary policies necessary to resume payments at the original parity. In the gold standard, the major fiscal event that would push up debt temporarily was war, which had a clearly definable beginning and end.” (Bordo e James (2013), pp. 4-5). Per approfondimenti sui meccanismi di funzionamento del gold standard ‘classico’ si vedano Eichengreen e Flandreau (a cura di) (1997), Bordo e Kydland (1995), McKinnon (1996) e Eichengreen (2008, Capitolo 2).

La ricostituzione del gold standard appariva l’unica soluzione per alleviare le pressioni sulle autorità di politica monetaria e fiscale.20 In effetti, a metà degli anni ’20 del secolo scorso il gold standard venne reistituito, ma secondo Eichengreen esso non solo non garantì l’equilibrio delle bilance dei pagamenti come nel periodo antecedente lo scoppio della prima guerra mondiale, ma fu anche alla base degli eventi che condussero alla Grande depressione:

Attorno alla metà degli anni Venti i conti con l’estero di altri paesi restarono appena bilanciati grazie ai flussi di capitali a lungo termine dagli Stati Uniti. Ma se i prestiti degli Stati Uniti fossero stati interrotti, la intrinseca debolezza dei conti con l’estero di tali paesi sarebbe stata improvvisamente messa in evidenza. Verificandosi perdite di oro e perdite di riserve valutarie, la convertibilità in oro della loro moneta sarebbe stata minacciata. Le banche centrali sarebbero state costrette a restringere il credito all’interno e le autorità fiscali a comprimere la spesa pubblica, anche se comportandosi così avrebbero potuto far piombare la propria economia in una recessione. Ciò è quanto avvenne quando i prestiti dagli Stati Uniti vennero tagliati nell’estate del 1928 a causa di una politica monetaria più restrittiva della Federal Reserve. […] A partire dal 1928, la Federal Reserve raggiunse la conclusione che un eccesso di speculazione finanziaria [a Wall Street] stesse allontanando la moneta dagli impieghi produttivi e iniziò a rendere più rigorosa la politica monetaria, facendo aumentare la possibilità del verificarsi di una recessione. Tassi di interesse costantemente crescenti, all’interno, fecero diminuire i prestiti americani all’estero. Le nazioni debitrici, che facevano enorme affidamento sulle importazioni di capitali, risentirono degli effetti della nuova linea nell’estate del 1928. Con l’indebolirsi dei loro conti con l’estero, esse furono costrette ad adottare politiche monetarie e fiscali sempre più rigide per difendere le loro parità auree e continuare il servizio del debito estero. In alcuni paesi persino le misure più draconiane si dimostrarono insufficienti. I paesi debitori furono costretti ad abbandonare il tallone aureo, l’uno dopo l’altro, a partire dal 1929. Il servizio del debito venne proseguito nella speranza di un rinnovato accesso di capitali esteri a seguito del boom di Wall Street. Ma al Grande crollo fece seguito la Grande depressione e l’interruzione dei prestiti americani. Il commercio mondiale crollò. […] La debilitante recessione del 1929-30 non fu quindi semplicemente il risultato di un irrigidimento della

20 Per esempio, nel 1925, in una nota su un incontro con il governatore della Banca d’Inghilterra Montagu Norman, l’allora governatore della Federal Reserve Bank di New York Benjamin Strong scriveva: “Mr. Norman’s feelings, which, in fact, are shared by me, indicated that the […] failure of resumption of gold payments […] would be followed by a long period of unsettled conditions too serious really to contemplate. It would mean violent fluctuations in the exchanges, with probably progressive deterioration of the values of foreign currencies vis-à-vis the dollar; it would provide an incentive to all of those who were advancing novel ideas for nostrums and expedients other than the gold standard to sell their wares; and incentive to governments at times to undertake various types of paper money expedients and inflation; […] some monetary crisis would finally result in ultimate restoration of gold to its former position, but only after a period of hardship and suffering, and possibly some social and political disorder.” (citato in Eichengreen e Temin (2000), p. 188).

politica monetaria americana, ma di politiche restrittive in tutto il mondo. La politica negli altri paesi era legata a quella americana dal gold standard.21

A differenza di Eichengreen, l’economista neo-austriaco Jesús Huerta de Soto ritiene che, negli anni tra le due guerre mondiali, il problema non consistesse nella necessità di adeguare le politiche monetarie e fiscali ai vincoli imposti dal ricostituito

gold standard, ma, al contrario, nella insufficiente rigidità dei vincoli stessi. Huerta de

Soto cita Ludwig von Mises per sottolineare che il mantenimento delle valute nazionali, combinato alla possibilità di abbandonare il gold standard, di fatto lasciava mano libera ai governi che intendevano adottare politiche macroeconomiche espansive:

The gold standard put a check on governmental plans for easy money. It was impossible to indulge in credit expansion and yet cling to the gold parity permanently fixed by law. Governments had to choose between the gold standard and their – in the long run disastrous – policy of credit expansion. The gold standard did not collapse. The governments destroyed it. It was incompatible with etatism as was free trade. The various governments went off the gold standard because they were eager to make domestic prices and wages rise above the world market level […]. Stability of foreign exchange rates was in their eyes a mischief, not a blessing. […] The gold standard makes the determination of money’s purchasing power independent of the changing ambitions and doctrines of political parties and pressure groups. This is not a defect of the gold standard, it is its main excellence.22

Secondo Huerta de Soto (2012, pp. 1-2), l’unico modo per riuscire a disciplinare le politiche macroeconomiche dei governi nazionali consiste in una radicale riforma del sistema monetario internazionale riassumibile nei seguenti tre punti:

1) l’abolizione del sistema bancario a riserva frazionaria e l’introduzione di un requisito di riserva obbligatoria pari al cento per cento dei depositi;

2) l’abolizione delle banche centrali, e

3) il ritorno al gold standard, inteso come un sistema in cui l’offerta di moneta consiste esclusivamente di oro.

In mancanza di una tale riforma, è necessario avvicinare il più possibile il sistema esistente alla sua configurazione ideale attraverso la denazionalizzazione della moneta e l’istituzione di un quadro istituzionale che disciplini tutti gli attori economici, politici e sociali, e in particolare i sindacati:

21 Eichengreen (1992) [1994], pp. 18-22. Su queste vicende, oltre a Eichengreen (1992), si vedano Temin (1991), Feinstein, Temin e Toniolo (2008) e Temin e Vines (2013).

Austrians believe that until central banks are abolished and the classic gold standard is reestablished along with a 100 percent requirement in banking, we must make every attempt to bring the existing monetary system closer to the ideal, both in terms of its operations and its results. This means limiting monetary nationalism as far as possible, eliminating the possibility that each country could develop its own monetary policy, and restricting inflationary policies of credit expansion as much as we can, by creating a monetary framework that disciplines as far as possible economic, political, and social agents, and especially labor unions and other pressure groups, politicians, and central banks.23

A giudizio di Huerta de Soto, le norme che definiscono i meccanismi di funzionamento dell’UEM si muovono nella direzione giusta, perché creano un quadro di riferimento che, per certi versi, è superiore a quello del gold standard ‘classico’. Da un lato, infatti, in mancanza di una unione politica e fiscale, l’adozione della moneta unica si traduce in una denazionalizzazione della moneta cui corrisponde lo sganciamento dell’emissione della moneta dai governi nazionali dei paesi membri dell’Eurozona.24 Dall’altro lato, è molto più difficile abbandonare l’euro di quanto non lo fosse sospendere la conversione della valuta nazionale in oro. La sostanziale impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta nazionale obbliga quindi i paesi debitori dell’Eurozona ad adottare politiche di austerità e di drastica riforma dello stato sociale e del mercato del lavoro che tendono a eliminare i condizionamenti cui furono esposti i paesi che riadottarono il gold standard dopo la prima guerra mondiale:

The introduction of the euro in 1999 and its culmination beginning in 2002 meant the disappearance of monetary nationalism and flexible exchange rates