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L’Homo faber: intelligenza e fabbricazione

La tecnica dagli anni giovanil

3. L’Homo faber: intelligenza e fabbricazione

Nella storia dell’evoluzione, cosa ci indica con certezza la presenza dell’uomo? Qual è la sua caratteristica principale? Bergson fa risalire la comparsa dell’uomo sulla terra al tempo della fabbricazione delle prime armi, dei primi utensili: è infatti la presenza di strumenti fabbricati a farci capire inequivocabilmente che ci troviamo in presenza dell’intelligenza umana: «A quale epoca facciamo risalire la comparsa dell’uomo sulla terra? Al tempo in cui si fabbricarono le prime armi, i primi utensili.» (EC, 116; 138).

Bergson ritiene infatti che l’intelligenza non sia una facoltà riflessiva destinata alla conoscenza ma anzitutto una facoltà votata alla fabbricazione: «l’intelligenza, considerata per quello che sembra essere il suo momento originario,

è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali e in particolare utensili atti a produrre altri utensili, e di variarne indefinitamente la fabbricazione.» (EC, 117; 140).

Nell’introduzione all’Evoluzione creatrice, l’intelligenza viene liberata dal suo legame tradizionale con l’attività conoscitiva e viene inserita nel discorso metafisico sull’evoluzione della vita:

la teoria della conoscenza e la teoria della vita ci sembrano tra loro in- separabili. Una teoria della vita che non si accompagni a una critica della conoscenza è costretta ad accettare, tali e quali, i concetti che l’intelletto mette a sua disposizione: volente o nolente, essa non può altro che racchiudere i fatti entro schemi precostituiti e ritenuti defini- tivi, ottenendo così un comodo simbolismo, forse anche necessario alla scienza positiva, ma non una visione diretta del suo oggetto. D’altra parte, una teoria della conoscenza che non collochi l’intelligenza all’in- terno dell’evoluzione generale della vita non ci insegnerà né come si siano costituiti gli schemi della conoscenza, né in che maniera possia- mo ampliarli e superarli. È necessario che questi due ambiti di ricerca, teoria della conoscenza e teoria della vita, si ricongiungano e, attraverso un processo circolare, si sollecitino reciprocamente e indefinitamente. (EC, 4; IX).

Questa prospettiva comporta audaci trasformazioni concettuali sia nel campo della teoria della conoscenza sia in quello dell’antropologia.

Il ruolo epistemologico dell’intelligenza è infatti ridimensionato rispetto al suo ruolo vitale, che viene accentuato come forma di azione sulla materia e non di speculazione. A questo proposito è opportuno ricordare il rapporto di Bergson con William James, testimoniato da un carteggio e da frequenti riferimenti reciproci nelle opere. La teoria dell’esperienza che entrambi i filo- sofi sviluppano tra fine Ottocento e inizio Novecento presenta la percezione come un’operazione selettiva condizionata dalle necessità di azione imposte dalla vita. Nel carattere pragmatico del soggetto bergsoniano, che fin dalle prime opere appare più come un io posso che come un io penso, così come nella vocazione tecnica dell’Homo faber, si riconosce il soggetto orientato pragma- ticamente e operativamente che James descrive nel Pragmatismo e nei Saggi

sull’empirismo radicale. Non per questo la filosofia di Bergson può essere so-

vrapposta interamente a quella del pragmatista americano, la cui concezione utilitarista della verità si accorda difficilmente con la fiducia bergsoniana nella conoscenza intuitiva; tuttavia Bergson condivide alcuni presupposti pragma- tisti che giocano un ruolo fondamentale nella sua critica all’intellettualismo.

Giacché l’intelligenza emerge come una delle facoltà con cui l’essere vivente si rapporta all’oggetto, Bergson è portato ad affermare la relatività della scienza e ad assegnare alla filosofia il compito di reinserire la conoscenza nella corrente vitale. L’importanza assunta dall’intuizione nel pensiero filosofico, nel con- testo dello sviluppo delle scienze della vita con le nozioni di evoluzione e di trasformazione, permette infatti a Bergson di elaborare una critica universale del meccanicismo, ovvero del sistema intellettuale fondato sul primato della

forma. (Simondon5, 200-201).

La funzione pratica dell’intelligenza, che Bergson delineava fin dal Saggio sui

dati immediati della coscienza, nel ritratto dell’Homo faber offerto nell’Evolu- zione creatrice assume un rilievo non solo epistemologico ma anche antropo-

logico. Affermare che l’intelligenza è la facoltà che distingue gli uomini dagli animali e che le sue prime testimonianze sono fornite dagli strumenti costruiti porta a riconoscere la tecnica come attività che contraddistingue originaria- mente la nostra specie. L’Homo è insomma faber ben prima di essere sapiens:

Se potessimo spogliarci di ogni orgoglio, se, per definire la nostra spe- cie, ci attenessimo rigorosamente a ciò che la storia e la preistoria ci

presentano come la caratteristica costante dell’uomo e dell’intelligenza, forse non diremmo Homo sapiens, ma Homo faber. (EC, 116; 140).

L’intelligenza si presenta dunque come una modalità propria della specie uma- na di intervenire sulla materia per mezzo di attrezzi, allo stesso modo in cui gli animali ricorrono a strumenti organici come unghie, becchi, antenne, corna o altre appendici – padroneggiati in modo istintivo. Liberati da ingombri anato- mici, gli strumenti inorganici costruiti dall’uomo guadagnano in mobilità e in versatilità: essi possono adattarsi a diverse situazioni riconoscendo i rapporti tra gli elementi che ne fanno parte, al contrario dell’istinto che si dirige unica- mente sulle cose trascurando le relazioni che le coinvolgono.

La separazione delle due facoltà viene ricondotta da Bergson a una scissio- ne dell’élan vital a partire dal regno animale: la difficoltà a distinguerle con nettezza sia nell’animale che nell’uomo dipende dunque dalla loro originaria confusione.

Il fatto è che istinto e intelligenza, – scrive Bergson – avendo incomin- ciato con il compenetrarsi, conservano qualcosa della loro origine co- mune. Né l’uno né l’altra si incontrano mai allo stato puro. […] Non c’è intelligenza in cui non si scoprano tracce di istinto, né, soprattutto, istinto che non sia contornato da una frangia di intelligenza. (EC, 114; 136-137).

La mancanza di contorno netto tra istinto e intelligenza si riflette anche nel modo che Bergson impiega per descriverli, come egli stesso ammette:

Questo modo un po’ rigido di [considerare l’intelligenza e l’istinto] ha però il vantaggio di fornirci un mezzo obiettivo per distinguerle. Per contro, dell’istinto in generale e dell’intelligenza in generale, esso ci restituirà soltanto la posizione mediana, al di sopra e al di sotto della quale ambedue oscillano costantemente. Si dovrà perciò considerare quanto segue soltanto come un disegno schematico, in cui i rispetti- vi contorni dell’intelligenza e dell’istinto risulteranno marcati più del necessario, e in cui trascureremo le sfumature che derivano sia dalla loro indeterminatezza sia dal loro reciproco sconfinamento. Su un ar- gomento così oscuro non ci si sforzerà mai abbastanza di fare chiarezza.

Sarà sempre possibile in seguito rendere più fluide le forme, correggere l’eccessiva geometria del disegno, sostituire insomma alla rigidità di uno schema la scioltezza della vita. (EC, 115; 138).

Sebbene siano facoltà distinte e nonostante l’intelligenza abbia poi riporta- to il maggior successo evolutivo, «Istinto ed intelligenza rappresentano dunque

due soluzioni, divergenti e ugualmente eleganti, di un solo e identico problema.»

(EC, 120; 144). È dunque difficile, se non impossibile, affermare la superiorità dell’intelligenza sull’istinto o viceversa.

L’infallibilità e la stabilità dell’istinto ci farebbero credere nella sua superio- rità rispetto all’incertezza dell’intelligenza; d’altra parte anche l’intelligenza ha un vantaggio sull’istinto, che consiste nel poter scegliere e nel saper inventare e utilizzare l’attrezzo. La specializzazione dell’istinto lo rende superiore all’in- telligenza; i dubbi e i tentennamenti di questa non sono però solo limiti, ma anche vantaggi: le permettono infatti di rompere il cerchio dell’istinto e del

dovere organico per muoversi nell’ambito del potere (Cassirer1, 25).

Così come non è semplice distinguere quale delle due facoltà sia superiore all’altra, è illusorio pensare che esse agiscano separatamente e che siano presenti in purezza nell’umanità e animalità: nell’uomo è infatti presente una frangia di istinto e non mancano episodi di intelligenza negli animali:

Se d’altra parte sfogliamo una raccolta di aneddoti sull’intelligenza de- gli animali, vedremo che, accanto a molti atti spiegabili in termini di imitazione o di associazione automatica delle immagini, ce ne sono di quelli che non esiteremmo a dichiarare intelligenti; in primo luo- go figurano quelli che testimoniano un’idea di fabbricazione, sia che l’animale riesca a costruire da sé uno strumento grossolano, sia che egli utilizzi a proprio vantaggio un oggetto fabbricato dall’uomo. Gli animali che, dal punto di vista dell’intelligenza, vengono classificati immediatamente dopo l’uomo, come le scimmie e gli elefanti, sono quelli che sanno all’occasione utilizzare uno strumento artificiale. Sot- to di loro, ma non molto distanti, verranno quelli che riconoscono un oggetto fabbricato: per esempio la volpe, che sa benissimo che una trappola è una trappola. (EC, 116; 138-139).

È di nuovo il rapporto con la fabbricazione ad essere preso a parametro per rilevare tracce d’intelligenza, ribadendo il legame essenziale tra la facoltà e il tipo di attività.

Tutte le forze elementari dell’intelligenza tendono dunque a trasforma- re la materia in strumento d’azione, ossia in organo, nel senso etimolo- gico della parola. La vita, che non si accontenta di produrre organismi, vorrebbe dar loro come appendice la materia inorganica convertita, dall’attività dell’essere vivente, in un immenso organo. (EC, 134-135; 162).

Tali strumenti rappresentano per Bergson una delle caratterizzazioni fonda- mentali della specie umana, che deve ad essi il distacco dall’animalità.

L’utensile è dunque al servizio di una tattica vitale, risultato di una funzione biologica di produzione dell’artificiale per aumentare la capacità di azione e le possibilità di successo evolutivo; esso fornisce al vivente una dimensione or- ganica più ricca, tant’è che – scrive Bergson – «reagisce sulla natura dell’essere che lo ha fabbricato perché, chiamandolo ad esercitare una funzione nuova, gli conferisce, per così dire, una dimensione organica più ricca, essendo appunto un organo artificiale che prolunga l’organo naturale.» (EC, 118; 142).

È importante sottolineare il fatto che questa nuova posizione sull’utensile rappresenta un’acquisizione definitiva per il suo pensiero, e in particolare sarà ribadita nel testo che è al centro di questo lavoro, Le due fonti, in cui Bergson scriverà: «Se i nostri organi sono strumenti naturali, i nostri utensili sono orga- ni artificiali. Lo strumento dell’operaio continua il suo braccio; l’attrezzatura dell’umanità è dunque un prolungamento del suo corpo.» (DS, 237 ; 330). . Lo strumento come proiezione organica: attrezzo, linguaggio e pensiero concettuale

Il parallelismo tra attrezzo fabbricato dall’uomo e appendici organiche animali è osservabile, secondo Bergson, nell’evoluzione dell’equipaggiamento bellico dell’uomo: il percorso dal cavaliere completamente rifugiato nella propria bar- datura fino all’agile soldato di fanteria è stato analogo a quello dei sistemi di protezione delle altre specie viventi, le più remote delle quali presentano involucri protettivi molto pronunciati, man mano assottigliati e abbandonati nel corso dell’evoluzione:

I pesci sostituiscono la corazza ganoide con le scaglie. Già molto pri- ma, gli insetti si erano sbarazzati della corazza che aveva protetto i loro antenati. Gli uni e gli altri supplirono all’insufficienza dell’involucro protettivo grazie a una maggiore agilità che consentiva loro di sfuggire a nemici ma anche di intraprendere l’offensiva, di scegliere il luogo e il momento dello scontro. Nell’evoluzione dell’equipaggiamento bellico umano possiamo osservare un processo analogo. Il primo impulso è la ricerca di un riparo; il secondo, che è il migliore, lo spinge a diventare quanto più agile possibile per fuggire e soprattutto per attaccare, e l’at- tacco è sempre il mezzo di difesa più efficace. L’oplite pesante è stato così sostituito dal legionario, e il cavaliere bardato di ferro ha dovuto cedere il posto al soldato di fanteria libero nei suoi movimenti (EC, 111; 132-133).

La filosofia della tecnica di Bergson è insomma segnata, oltre che da un gene- rale quadro evoluzionista, dalla teoria per cui la mano è l’archetipo di tutti gli strumenti e gli strumenti sono organi-proiezione. Bergson evita infatti di dare una lettura in chiave troppo “culturalista” della tecnica e di assegnare all’uomo per questa via una posizione centrale nel mondo. Se nelle sue prime opere Bergson si poneva in posizione apertamente antipositivista, ora egli accentua piuttosto le critiche alla filosofia spiritualista, affermando che l’errore maggio- re dello spiritualismo è di negare la scienza e di considerare la vita spirituale troppo isolata, finendo così per separare l’uomo dal resto del mondo e igno- rando l’evidenza scientifica che tende invece a radicarlo nell’evoluzione della vita nel suo complesso:

[le dottrine spiritualiste] hanno ragione di attribuire all’uomo un posto privilegiato nella natura, di ritenere infinita la distanza tra l’animale e l’uomo; ma la storia della vita è lì pronta a rappresentarci la genesi delle specie attraverso trasformazioni graduali, dandoci l’idea di voler reintegrare l’uomo nell’animalità. (EC, 220; 269, corsivo mio)

Dopo aver sottolineato la distinzione fra intelligenza fabbricatrice e istinto, Bergson inserisce dunque l’invenzione e la produzione di strumenti tecnici nella storia dell’evoluzione biologica mettendone in luce la continuità con le attività tattiche degli altri viventi. Da questo punto di vista Bergson propone

una visione continuista della tecnica e della cultura umana in generale. La sua posizione rimane invariata anche nelle Due fonti, dove riprende la confutazio- ne della teoria della trasmissione dei caratteri acquisiti – anch’essa già proposta nell’Evoluzione creatrice – ed insiste sulla persistenza del naturale nell’uomo, asserendo l’appartenenza e la totale partecipazione dell’uomo all’evoluzione della vita:

la natura è indistruttibile. Si ha avuto torto a dire: «Cacciate il naturale, ritorna al galoppo», poiché il naturale non si lascia cacciare. È sempre presente. Sappiamo che cosa si deve pensare della trasmissibilità dei caratteri acquisiti. È poco probabile che si trasmetta un’abitudine: se il fatto si produce, dipende dall’incontro accidentale di un così gran numero di condizioni favorevoli che sicuramente non si ripeterà abba- stanza per inserire l’abitudine nella specie. Nei costumi, nelle istituzio- ni, nel linguaggio stesso si depositano le acquisizioni morali; in seguito si comunicano in virtù di un’educazione incessante, e così passano di generazione in generazione delle abitudini che finiscono per esser con- siderate ereditarie. Ma tutto cospira a incoraggiare l’interpretazione errata: un amor proprio mal riposto, un ottimismo superficiale, un misconoscimento della vera natura del progresso, infine e soprattutto una confusione, molto diffusa, fra la tendenza innata, che è effettiva- mente trasmissibile di padre in figlio, e l’abitudine acquisita che spesso si innesta sulla tendenza naturale. (DS, 209; 289-290).

Nel caso dell’uomo bisognerebbe perciò distinguere l’abitudine acquisita, nella quale rientrano le condizioni tecniche con le quali l’uomo apprende a inte- ragire a seconda del luogo e del momento storico in cui si trova a vivere, e la

tendenza innata, vera e propria funzione biologica rappresentata dall’attitudine

all’invenzione e alla produzione di oggetti tecnici.

Bergson mette in atto dunque una mutazione del tradizionale rapporto macchina/organismo, tentando di iscrivere il meccanico nell’organico. Nel saggio Macchina e organismo, Georges Canguilhem ha tracciato la storia di questa linea filosofica, ponendola in antitesi con la concezione cartesiana che tende a ridurre i corpi organici al modello rigidamente funzionale della mac- china. Canguilhem sottolinea come l’organismo sia invece irriducibile alla somma delle parti e la costruzione della macchina non sia una funzione della

macchina. Bergson, afferma Canguilhem, è «uno dei rari filosofi francesi, se non l’unico, ad aver considerato l’invenzione meccanica come una funzione biologica, come un aspetto dell’organizzazione della materia ad opera della vita. In certo modo, l’Evoluzione creatrice è un trattato di organologia genera-

le.» (Canguilhem2, 180; 161).

Come Bergson molti altri autori hanno approfondito questa posizione “proiezionista”, sostenitrice della continuità tra tecnica e mondo organico, la cui matrice risale ad Ernst Kapp, che è il primo studioso ad usare l’espres- sione «filosofia della tecnica» (Kapp, III e passim). Situandosi sulla linea della sinistra hegeliana, Kapp descrive la tecnica in un senso emancipatore e evolu- zionista, come proiezione di organi associata ad una progressiva presa di co- scienza (Timmermans). Non è attestato che Bergson abbia letto direttamente l’opera di Kapp; più probabile è l’ipotesi di una conoscenza mediata da Alfred Espinas, che ne tratta nel suo saggio sulla tecnologia:

La teoria della proiezione organica è della più alta importanza per la filosofia dell’azione; essa vi gioca il ruolo che l’idealismo gioca nella filosofia della conoscenza. Questo punto di vista è stato sviluppato per le opere della mano umana da Kapp: Grundlinien einer Philosophie der Technik, 1877; si estende a tutti i prodotti del volere umano, tanto collettivo quanto individuale.» (Espinas1, 45n).

La vicinanza di Bergson a questa linea filosofica è riconosciuta anche da Ru- yer, che riprende esplicitamente la metafora bergsoniana delle macchine come organi della specie umana: «Come ha detto Bergson, il vero corpo dell’uomo è ben al di là del suo corpo. Il suo cervello regna sulle sue città e sulle sue fabbriche. I suoi strumenti famigliari sono rappresentati nei centri di «praxis»

del suo cervello allo stesso titolo dei suoi organi.» (Ruyer1, 46-47).

Bergson estende il carattere fabbricatore dell’intelligenza non solo agli strumenti che prolungano gli organi corporei ma, in senso più ampio, alle

facoltà naturali di presa sulla realtà. Poiché tali facoltà non sono solo concrete

ma anche intellettuali, gli utensili rappresentano solo una delle possibili soluzioni inventate dall’uomo per meglio comprendere la realtà e per meglio agire. Questa ipotesi è sostenuta da Ruyer, secondo il quale Bergson riconosce che l’uso e la fabbricazione di attrezzi si basa sulla «proprietà organica primaria

di auto-strutturazione, applicata […] a questi oggetti esteriori, anziché ai tessuti organici» e prosegue l’interpretazione inserendo la produzione di attrezzi in un quadro più ampio, ovvero estendendo l’attitudine “proiettiva” alla più generica produzione di “simboli”, di cui la tecnica esterna sarebbe solo uno dei momenti di espressione: «il passaggio capitale è meno l’impiego di attrezzi che la costruzione del simbolismo […] che ha permesso al tempo

stesso la cultura sociale e la tecnica esterna.» (Ruyer2, 177).

Questo tema è particolarmente rilevante dal punto di vista delle più recenti tendenze dell’antropologia filosofica; è di nuovo Ruyer a fornire lo spunto per questo approfondimento, consentendo anche di operare un confronto con le posizioni di Cassirer, che nel Saggio sull’uomo inserisce tutte le ma- nifestazioni della civiltà umana – mito, religione, linguaggio, arte, storia e scienza – all’interno di un comprensivo sistema simbolico: «Invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un ani-

mal symbolicum. In tal guisa si indicherà ciò che veramente lo caratterizza e

che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire la speciale

via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà.» (Cassirer2, 81; 26). Al di là

della vicinanza che si riscontra su questo punto tra Bergson e Cassirer, una fondamentale distinzione separa i due autori: mentre il filosofo delle forme simboliche oppone dimensione culturale e naturale in modo netto e deciso, l’autore dell’Evoluzione creatrice colloca la natura umana sul filo di lana tra cultura e natura. Se per Cassirer infatti l’attività simbolica è ciò che svincola l’uomo dalla natura, per Bergson essa è ciò che permette all’uomo di fare del- la natura un prolungamento del proprio corpo, facendo sì che l’umano non si sovrapponga al naturale come qualcosa di totalmente altro. Anche da questo punto di vista egli è vicino a Ruyer, che in un saggio degli anni Sessanta com- menta così il Saggio sull’uomo:

Non è necessario seguire Cassirer su questo terreno. È molto meglio, tenendo presente il principio del suo metodo, cercare di scoprire in che modo la funzione simbolica può fondarsi naturalmente su fun- zioni cerebrali, e permettere, al tempo stesso, l’accesso a un mondo veramente nuovo, che sembra situato al di là dell’animalità. (Ruyer3,

In questo senso, la proposta bergsoniana risulta vicina alle più attuali teorie antropologiche proprio perché non si lascia ridurre ad una posizione umanista e culturalista.

L’analogia tra la produzione di utensili e la produzione di simboli può va- lere anche se Bergson non chiama mai tali attività “tecniche”, espressione che egli usa raramente e quasi solo per la fabbricazione di utensili e per le arti,