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Una dottrina sociale tra socialismo e misticismo

meccanica nella società aperta

4. Una dottrina sociale tra socialismo e misticismo

In questo quadro, Bergson dedica le ultime pagine delle Due fonti a consi- derazioni su come orientare la meccanica alla mistica. L’appello del mistico all’apertura viene sostituito, nella parte finale dell’ultimo capitolo, dall’appello lucido e logico del filosofo: egli non si confonde con il mistico ma cerca di orientare l’umanità nella medesima direzione, non più attraverso l’emozione

La predisposizione alla guerra non è infatti dovuta soltanto all’«istinto guerriero» (DS, 218; 303), ma è anche sostenuta da svariati «motivi razionali» (DS, 221; 307). Se secondo Bergson è vero che essi vanno riducendosi «quanto più terribili diventano le guerre» (DS, 221; 307), nella contemporaneità essi si congiungono essenzialmente alla sovrappopolazione e alla ricerca frenetica del piacere e del lusso. La logica della guerra è legata dunque da un lato a motivi

vitali e dall’altro al carattere industriale della nostra civiltà(Id. e Worms6,

338). L’intreccio dei motivi vitali, razionali e tecnici della storia dell’umanità viene ricapitolato dalla legge di doppia frenesia, che, come si è visto, conduce Bergson a prevedere un ritorno alla vita semplice a cui si uniranno lo sviluppo delle scienze morali, le indagini scientifiche sull’aldilà volte a verificare la sopravvivenza dall’anima e l’adeguamento della meccanica alla mistica.

Il piano tecnologico è quello che per Bergson attende una decisione in modo più urgente, ma il riorientamento del sistema produttivo non mancherà di generare effetti anche sul piano razionale e su quello vitale. La prescrizione prioritaria, nella prospettiva del cambiamento di direzione dell’industrialismo, riguarda la corsa sfrenata al lusso e al comfort, che orienta la produzione verso «il benessere esagerato e il lusso per un certo numero» anziché verso «la libe- razione per tutti» (DS, 237; 329). Il significato assunto nelle Due fonti dalla «liberazione» o dall’«emancipazione» raggiungibile tramite un diverso impiego dei mezzi di produzione, allude ad un rapporto equilibrato tra l’uomo e la tecnica che potrebbe sembrare in analogia con il marxismo; un rapporto non alienato con la tecnica invece non rappresenta per Bergson un punto d’arrivo, bensì un punto di partenza verso la vera liberazione ovvero verso la trasfor- mazione dell’uomo “tecnico” in filosofo e in mistico, verso uno stato in cui la contemplazione si congiunga alla prassi e la cultura intellettuale possa così spingersi il più lontano possibile. Per Bergson infatti la filosofia non viene su- perata dalla prassi ma dal misticismo che, come si vedrà più avanti, porta con sé l’azione e fornisce un orientamento alle forze produttive; dal punto di vista di Marx la religione è invece senza esclusioni il riflesso dell’alienazione della base materiale. Occorre anche precisare che la corrente marxista non è del tutto sovrapponibile al pensiero di Marx, il quale si distacca dalla realizzazione storica del Partito operaio tedesco nella sua ultima opera, Critica al programma

di Gotha, in cui da un lato condanna lo statalismo e le politiche governative

di ingerenza nella vita degli individui e delle comunità locali, e dall’altro lato rivede l’egualitarismo sostenuto nelle opere giovanili, riconosce la necessità di

differenziare qualitativamente i talenti individuali, i lavori e le retribuzioni e subordina la realizzazione del socialismo all’alleanza politica del proletariato con le altre classi sociali. In particolare è da sottolineare il modo in cui Marx allude all’emancipazione economica dal lavoro, prevedendo in tale fase defini- tiva del comunismo la possibilità di dedicarsi ad attività spirituali e di coltivare le differenze individuali: quest’ultima visione non è peraltro distante dalle pro- poste avanzate da Bergson nelle Due fonti.

Nel mettere in relazione la dottrina sociale espressa nelle Due fonti con il marxismo, non bisogna dimenticare che Bergson conosceva tale filosofia solo in modo poco approfondito, come ammette egli stesso nella lettera del 14 gennaio 1936 a Edouard Berth:

per quel che riguarda i rapporti della dottrina che espongo con quella di Marx, ammetto che, nonostante l’ingegnosità delle vostre interpre- tazioni sempre interessanti, esiterei ad ammettere gli avvicinamenti che fate. Conosco Marx piuttosto male, non avendo mai fatto lo sforzo necessario per abbracciare le sue visioni nel loro insieme. Ma non sono mai stato nemmeno spinto in questa direzione da una simpatia intel- lettuale come quella di cui ho appena parlato. È senza dubbio perché la sua dottrina molto vicina all’hegelismo, come avete mostrato, è an- zitutto una costruzione, e ogni costruzione filosofica mi rende irrime- diabilmente diffidente. È anche a causa del suo materialismo, benché, come voi dite, sia minore di quanto solitamente si creda, ma è infine e soprattutto a causa della sua mancanza di generosità e del suo appel- lo implicito all’odio. Sorel poteva incoraggiare alla violenza, ma non all’odio. (C, 1525).

Nella Francia degli anni Trenta era tuttavia difficile non confrontarsi con il marxismo, anche solo indirettamente. Già nel corso degli anni Venti erano inoltre state rivolte a Bergson critiche sempre più consistenti, non più relative alla teoria della conoscenza quanto alla teoria morale e politica, o meglio alla

responsabilità morale e politica della sua filosofia(Soulez-Worms, 209-212).

Bergson si era certamente confrontato con tali critiche, provenienti dalla giovane generazione di filosofi di impronta marxista che si era affermata alla fine degli anni Venti segnando «la fine del mondo che aveva portato alla fama

dei bersagli più frequenti per autori come Benda, Nizan, Georges Politzer, principalmente in ragione della sua partecipazione alla propaganda nazionalista della prima guerra mondiale e della sua distanza dal materialismo storico.

Pur sullo sfondo di profonde differenze, riconducibili in ultima analisi all’impostazione non materialista della filosofia di Bergson e al suo inserimento della tecnica non in una visione storico-dialettica, bensì nella metafisica dell’élan vital, le Due fonti propongono alcune linee guida per una dottrina sociale ed economica in parte consonanti con il pensiero socialista. La pace, l’uguaglianza tra gli uomini, il rispetto dei diritti umani e della democrazia che caratterizzano la società aperta sono oggi sacrificati al mantenimento di un sistema produttivo orientato al mantenimento dei lussi per lo più superflui di una ristretta minoranza, mentre ancora milioni di persone soffrono la fame e ne muoiono:

Noi riteniamo che l’agricoltura, la quale nutre l’uomo, dovrebbe domi- nare il resto, ed essere, comunque, la prima preoccupazione dell’indu- stria stessa. In generale, l’industria non è abbastanza preoccupata della maggiore o minore importanza dei bisogni da soddisfare. Spesso ha seguito la moda, fabbricando con l’unica preoccupazione di vendere. Ci vorrebbe, come altrove, un pensiero centrale, organizzatore, che coor- dinasse l’industria all’agricoltura e assegnasse alle macchine il loro posto razionale, quello in cui possono rendere i maggiori servizi all’umanità. (DS, 235; 326, corsivo mio).

La liberazione dell’umanità passa dunque attraverso un disciplinamento del si- stema economico, alla cui mancanza Bergson imputa le attuali crisi di sovrap- produzione. La regolamentazione razionale della produzione ha l’obiettivo di offrire agli operai una maggior quantità di tempo, oggi indisponibile a causa della cattiva direzione dell’industrialismo.

Ma se la macchina procura all’operaio un maggior numero di ore di riposo, e se l’operaio impiega questo supplemento di tempo libero in qualcosa di diverso dal presunto divertimento, messo alla portata di tutti da un industrialismo mal diretto, egli potrà dare alla sua intelligenza lo sviluppo da lui stesso scelto, invece di attenersi a quello che gli imporrebbe, in limiti sempre ristretti, il ritorno, del resto

impossibile, allo strumento, dopo la soppressione della macchina. (DS, 235; 327).

Entusiasmato dalla possibilità di coltivazione intellettuale che potrebbe libe- rarsi, Bergson non si scandalizza di fronte all’uniformità estetica alla quale può condurre la produzione industriale in serie: «Si è rimproverato agli americani di avere tutti lo stesso cappello. Ma la testa deve precedere il cappello. Fate che io possa arricchire la mia testa secondo il mio gusto personale, e accetterò per essa il cappello di tutti.» (DS, 235-236; 327).

Si nota insomma ancora una volta che il torto essenziale della meccanizzazione non riguarda l’industrialismo in sé quanto la sua errata direzione:

Senza contestare [alla macchina] i servigi resi all’uomo, sviluppando largamente i mezzi per soddisfare i bisogni reali, noi le rimproveria- mo di averne incoraggiati troppi di artificiali, di aver spinto al lusso, di aver favorito le città a detrimento delle campagne, infine di avere allargato la distanza e trasformato i rapporti fra padrone e operaio, tra capitale e lavoro. Tutti questi effetti potrebbero, del resto, trovare un rimedio; la macchina sarebbe allora soltanto la grande benefattrice. (DS, 236; 327).

Solo diminuendo la distanza e ridefinendo i rapporti fra padrone e operaio, tra capitale e lavoro, la macchina potrebbe recuperare il ruolo che le spetta ontologicamente. L’autore delle Due fonti è dunque ben consapevole del compito che i sistemi economici e produttivi svolgono nella creazione di disparità sociali e del contrasto che possono opporre alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, mostrando di non essere cieco alle questioni sociali del suo tempo né tanto meno ostile al progresso sociale.

La svolta che potrebbe trasformare l’umanità in una società aperta, creativa e originale sul piano intellettuale, si può realizzare insomma in due modi: il primo sarebbe quello di una riforma morale completa, che consisterebbe in uno stile di vita semplice e in un’intuizione mistica diffusa nel mondo, in mancanza della quale

bisognerà ricorrere a espedienti, sottomettersi a una «regolamentazio- ne» sempre più invadente, aggirare a uno a uno gli ostacoli drizzati

dalla nostra natura contro la civiltà. Ma, sia che si opti per i grandi o per i piccoli mezzi, una decisione si impone. (DS, 243; 338).

I «piccoli mezzi» rappresentano un successo meno conclamato rispetto a quel- lo espresso dal primo auspicio di Bergson; gli «espedienti» ai quali fa appello consistono in una regolamentazione economica e sociale capace di aggirare per via razionale la naturale tendenza delle società alla chiusura e di compensare la sproporzione tra “corpo” e “anima” dell’umanità. Occorre dunque individuare gli espedienti che riassegneranno alla tecnica il suo ruolo ontologico e la rilan- ceranno in direzione dell’apertura, anziché lasciare che si sviluppi a oltranza fino alla distruzione di sé e del pianeta. Le decisioni riguardo alla tecnica, la cui storia è legata a quella dell’intelligenza, devono avere un carattere razionale ed essere misurate sulla base della distinzione tra chiuso e aperto. Quando Bergson afferma: «Non ci limitiamo dunque a dire […] che la mistica chiama la meccanica. Aggiungiamo che il corpo cresciuto attende un supplemento di anima, e che la meccanica esigerebbe una mistica» (DS, 238; 330, corsivo mio), con il condizionale vuole sottolineare non tanto la propria cura di evitare toni troppo prescrittivi (Bouaniche-Keck-Worms, 59), quanto la difficoltà della diffusione effettiva di un’intuizione mistica in tutta l’umanità, la quale nel mo- mento presente può intraprendere più facilmente la strada degli «espedienti». A conferma della fiducia maggiore nei confronti dei «piccoli mezzi», Bergson si sofferma sulla definizione di proposte concrete per intervenire sull’assetto tecnico ed economico della società contemporanea.