• Non ci sono risultati.

L’impugnazione del licenziamento collettivo.

Nel documento I licenziamenti collettivi (pagine 189-200)

Le conseguenze sanzionatorie del licenziamento collettivo illegittimo

4.5. L’impugnazione del licenziamento collettivo.

La precedente versione dell’art. 5, comma 3, della l. n. 223/1991, disponeva che, salvo il caso di mancata comunicazione per iscritto, il licenziamento collettivo “poteva” essere impugnato entro

(498) Cass., 13 giugno 2000, n. 419 in Lav. giur., 2001, p. 247; Cass., Sez. Unite, 11 maggio 2000, n. 302, in Giust. civ. 2000, I, p. 2917; Cass., 23 settembre 1999, n. 10368, in Mass. giur. lav., 2000, p. 100.

(499) A. VALLEBONA, Il licenziamento collettivo per riduzione di personale, in

Mass. giur. lav., 1992, p. 436; R. DEL PUNTA, I licenziamenti collettivi, cit., p. 359.

(500) Pret. Ravenna, 14 gennaio 1993, in Foro it., 1993, I, c. 2025.

(501) Trib. Milano, 29 febbraio 2000, in Lav. giur., 2000, p. 678; Trib. Milano, 8 maggio 1999, in Riv. crit. dir. lav., 1999, p. 531.

186

sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali. Considerato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il termine in questione doveva considerarsi perentorio502, la disciplina finiva per coincidere con quella stabilita, per l’impugnazione del licenziamento individuale, dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prima della modifica di tale norma introdotta dall’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183.

A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 183 del 4 novembre 2010, il cosiddetto Collegato lavoro, già doveva ritenersi che anche il licenziamento collettivo fosse assoggettato al regime del cosiddetto doppio termine ivi previsto, il termine decadenziale di sessanta giorni ed il termine di duecentosettanta giorni. Quest’ultimo, come è noto ha previsto che l’impugnazione è inefficace se non è seguita entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione della controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. La dottrina era divisa circa l’applicazione di tale ulteriore onere all’impugnazione del licenziamento collettivo. La tesi negativa si basava sulla constatazione che il predetto onere era previsto appunto dall’art. 6 della legge n. 604/1966, il quale disciplina il licenziamento individuale, mentre, per il licenziamento collettivo, il termine di decadenza per l’impugnazione era stabilito dalla distinta previsione dell’art. 5, comma 3, l. n. 223/1991.

La tesi affermativa503, invece, faceva leva sul fatto che l’estensione delle disposizioni dell’art. 6 l. n. 604/1966, “a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, era stabilita, non dal menzionato art.

(502) Il suo mancato rispetto determinava la decadenza del lavoratore dalla facoltà di impugnare il licenziamento; Cass., 29 agosto 2003, n. 12680 in Giust. civ. mass., 2003, 7-8; Cass., 23 febbraio 1996, n. 1415; Cass., Sez. Un., 11 maggio 2000, n. 302.

(503) A. VALLEBONA, op cit., p. 421; C. ZOLI, La legge n. 183/2010: le novità in

materia di licenziamento, 14, in Working Papers, Libertà lavoro e sicurezza

sociale, Università degli studi di Macerata, in www.unimc.it; A. VELTRI, op. cit.,

187

6, bensì dal comma 2 dell’art. 32, diretto a disciplinare dunque, tutti i licenziamenti, inclusi quelli collettivi.

La portata onnicomprensiva della norma, legittima una interpretazione inclusiva anche della fattispecie del licenziamento collettivo ex artt. 4 e 24 della l. n. 223/1991504. Il comma 46 dell’art. 1 della legge 92/2012, sostituisce il comma 3 dell’art. 5 della l. n. 223/1991, il quale ora all’ultimo periodo, dispone espressamente che all’impugnazione del licenziamento collettivo, si applicano le disposizioni dell’art. 6 della l. n. 604/1966. Quindi, fermo restando che nessun termine di decadenza è concepibile rispetto al licenziamento intimato oralmente, appunto perché l’art. 6 della l. n. 604/1966 presuppone che il recesso sia comunicato in forma scritta, è ormai certo che il lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente nel termine di sessanta giorni il recesso comunicatogli all’esito della procedura di riduzione collettiva del personale deve, a pena di inefficacia della predetta impugnazione, proporre ricorso giudiziale entro il successivo termine di centottanta giorni505.

Il lavoratore che sia in condizione di poter richiedere la tutela reintegratoria, per vizio di forma o per violazione dei criteri di scelta, potrà avvalersi del regime processuale accelerato previsto dai commi 48- 68 dell’art. 1 della l. n. 92/2012 onde ottenere una pronuncia in tempi più rapidi. Secondo la giurisprudenza più recente della Suprema Corte506, l’impugnazione del licenziamento deve ritenersi tempestiva

(504) Cass., 9 ottobre 2006, n. 21648, “la diversa formulazione dell’articolo 5 della

legge 223/1991 rispetto all’art. 6 della legge n. 604/1966 non impedisce che il loro contenuto e i loro effetti siano i medesimi.

Infatti l’uso del termine può, invece di quello deve, non sposta i termini della questione. Si tratta di un onere e non di un obbligo, nel senso che il lavoratore può impugnare o non impugnare il licenziamento collettivo; ma se decide di impugnarlo, allora deve farlo nel termine di sessanta giorni, termine che non può che essere perentorio. L’art. 5, comma 3, della l. n. 223/1991, assoggetta all’onere di impugnazione entro i termine perentorio di sessanta giorni anche il licenziamento collettivo oltre a quello individuale, estendendo al licenziamento collettivo la tutela reale in caso di dichiarazione di invalidità o di inefficacia”.

(505) Così il comma 38 dell’art. 1 della l. n. 92/2012, ha ridotto l’originario termine di duecentosettanta giorni.

188

qualora la lettera raccomandata che contenga detta impugnazione sia consegnata all’ufficio postale entro il termine di sessanta giorni, con conseguente impedimento della decadenza. Ciò indipendentemente dalla circostanza che il recapito, cui consegue la conoscenza della volontà di impugnazione, pervenga al datore di lavoro in un momento temporale successivo.

Nel caso in cui il licenziamento sia impugnato per violazione dei criteri di scelta, non si configura un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra il lavoratore licenziato e gli altri non selezionati, potenzialmente licenziabili mediante una corretta applicazione dei criteri di scelta507. La pronuncia giudiziale, infatti, non è costitutiva di alcunché nei confronti dei lavoratori diversi dal ricorrente, derivando lo svantaggio solo da un atto eventuale del datore di lavoro, il licenziamento di un altro lavoratore ai sensi dell’art. 17, cui egli non è necessariamente tenuto.

189

CONCLUSIONI

Il licenziamento collettivo, tema attuale e classico del diritto del lavoro, presuppone una conoscenza specialistica della materia che si fonda anche e soprattutto sul campo. Ciò mette in luce il chiaro collegamento tra la specialità dell’istituto e il diritto del lavoro nel suo complesso. Siamo in presenza di una fattispecie in cui assume un peso centrale il potere del datore di lavoro ma non solo, data l’importanza del ruolo svolto dall’autonomia collettiva e dall’autorità giudiziaria, che qui ha un ampio spazio di intervento.

Nel presente elaborato, ho cercato in ripetute occasioni, di sottolineare il perché sia necessario che ci sia una disciplina dei licenziamenti collettivi nel nostro ordinamento giuridico. La diversità e la necessità sono date in primo luogo, dalle conseguenze sociali di questo licenziamento. Vi sono infatti, importanti implicazioni che la regolamentazione delle riduzioni di personale assume per la definizione degli equilibri economico-sociali in un determinato momento storico. Basti pensare a quanto le strategie di ridimensionamento aziendale incidano normalmente sugli assetti non soltanto di un’impresa, bensì addirittura di un’intera area territoriale e talvolta dell’intero paese: possiamo allora ben comprendere come tali problemi diventino occasione non soltanto per l’esplosione di grandi vicende giudiziali ma soprattutto per forti e ben visibili conflitti sociali, relativi alla soddisfazione di bisogni immediati ed urgenti dei lavoratori.

Il licenziamento collettivo significa proprio questo: proiezione della crisi di un’impresa sul piano occupazionale, in termini di riduzione del personale e quindi di perdita di posti di lavoro, con effetti diretti sul mercato tanto locale quanto nazionale.

Elemento da tener presente è che si avverte, per la consistenza numerica, che il tipo di controllo sulla scelta del datore di lavoro non è sufficiente se effettuato solo ex post. Occorre infatti attivare una qualche forma di controllo preventivo, ex ante, che rappresenti un filtro per le scelte datoriali. Ecco quindi che è possibile individuare

190

nella procedura di mobilità, un controllo sindacale ed un controllo amministrativo, i quali sono volti in modo particolare alla responsabilizzazione del datore di lavoro innanzi a determinate scelte. Questo modo di concepire la disciplina è, sostanzialmente, una delle proiezioni del metodo concertativo. La decisione che emerge non è pertanto, una decisione solitaria.

Per quanto concerne l’excursus storico preso in considerazione nel presente lavoro, è anche vero che, a fronte dell’inadempimento508 dell’Italia, vi era da un lato un sistema di tutele collettive derivanti dall’Accordo interconfederale del 1965 e dall’altro un sistema di protezione sociale costruito, a partire dal 1977, con la legge n. 675 sulle grandi ristrutturazioni509 e poi sviluppatosi nel corso di tutti gli anni 80. Questo sistema di tutele però, aveva una grave colpa: quella di cercare di risolvere i problemi occupazionali delle imprese e dei lavoratori eccedenti attraverso ambigue politiche di tipo protezionista e clientelare. Giunse così la legge n. 223 del 1991 destinata, come affermato in passato, a razionalizzare i processi di gestione delle eccedenze di manodopera, la cui emanazione coincise con l’avvio di un’epoca particolarmente difficile per il nostro Paese.

Tutto ha preso quindi avvio dal diritto comunitario. In questo, l’Italia si è mostrata molto lontana dai processi comunitari. Ci sono voluti ben quattordici anni per recepire la prima direttiva510 in materia di licenziamenti collettivi e questo è uno degli elementi per cui il

(508) La Corte di Giustizia della Comunità Europea ha dichiarato, con due sentenze di condanna, lo Stato italiano inadempiente agli obblighi del Trattato CEE per la mancata attuazione della direttiva 17 febbraio 1975, n. 129, tendente, con le successive del 24 giugno 1992, n. 56 e del 20 luglio 1998, n. 59 a rendere operativa in ambito europeo una comune nozione e disciplina del recesso intimato per

“motivi non inerenti alla persona del lavoratore”: Corte Giust., 8 giugno 1982,

causa c-91/81, Commissione c. Italia, in Dir. lav. , 1982, II, p. 385, con nota di R. FOGLIA, Obblighi comunitari e licenziamenti collettivi; e in Foro it., 1982, IV, con nota di O. MAZZOTTA, L’Italia, la CEE e i licenziamenti collettivi; Corte Giust., 6 novembre 1985, causa c-131/84, Commissione c. Italia, in Foro it., 1986, V, c. 109,

(509) Legge 12 agosto 1977, n. 675, “Provvedimenti per il coordinamento della

politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore”.

191

nostro Paese “subisce” per così dire, le direttive comunitarie; non partecipando alla loro formazione infatti, non riesce neanche a portare la giusta specificità del diritto italiano. Ecco perché, per poter recepire la direttiva lo si è fatto dopo sentenze di condanna e in modo approssimativo che ha avuto necessariamente bisogno di ulteriori e successivi interventi511.

Importante è sottolineare il fatto che il legislatore comunitario si è preoccupato fin dagli anni 70 di intervenire su questo tema. Sul punto, è anche opportuno considerare che non c’è una rappresentazione di un diritto comunitario del lavoro che sia al contempo pervasivo: interviene per settori specifici ma non c’è una rappresentazione unitaria del diritto del lavoro comunitario.

Considerazione di non poco conto, tenendo infatti presente che dal 1975 fino agli anni 90, nel nostro paese mutano notevolmente le vicende socio-economiche. Mentre fino al 1975 è possibile infatti scorgere quella che è stata definita “l’età dell’oro”512, caratterizzata dalla piena occupazione e dalla crescita delle imprese, nel 1991invece, si comincia ad avvertire la crisi di questo modello. Il 1992 è infatti l’anno di Tangentopoli, della legge Amato e anche l’anno della fine delle partecipazioni statali513. La situazione economica del Paese era

(511) Cfr. L. n. 236/1993; D. Lgs. 151/1997; D. Lgs. 276/2003; D. Lgs. 8.04.2004, n. 110.

(512 ) È il periodo della storia economica dei paesi occidentali, iniziato nel dopoguerra e particolarmente nei primi anni ’60, caratterizzato da tassi accelerati e costanti di crescita, da benessere sociale diffuso, da livelli di piena occupazione. Questi dati strutturali ebbero riflessi nei diversi contesti nazionali anche in uno sviluppo della legislazione del lavoro, con punte di marcato garantismo come quelle espresse nello Statuto dei lavoratori.

(513 ) Nel 1992, con il governo Amato, si cominciò a disporre la privatizzazione di enti di gestione, tra cui IRI, ENEL, INA. Con il successivo governo Ciampi, la privatizzazione passò dalla fase “fredda” (dal modello ente pubblico economico alla società di capitali) a quella “calda” (con la dismissione della proprietà delle imprese pubbliche). La privatizzazione fu vista non solo come modalità per raccogliere fondi per risanare i bilanci delle società pubbliche, bensì anche quale strumento principale di ammodernamento del sistema industrial del Paese. In questo periodo si avviarono le procedure di vendita e di collocamento sul mercato di ENEL, INA, AGIP, Banca Commerciale Italiana e Credito Italiano.

192

drammatica. Vi era necessario un complessivo ripensamento del modello economico.

Ebbene, i conflitti politici, istituzionali e sociali che seguirono, fecero sì che la legge n. 223 del 1991, diventasse in qualche misura uno strumento di facilitazione dei processi di ristrutturazione, che esplosero in maniera più accelerata senza però che si potesse continuare ad utilizzare la rete protettiva che c’era stata fino alla fine degli anni 80 e questo perché la crisi economica non consentiva più

sprechi, cioè cassa integrazioni a tempo indeterminato,

prepensionamenti concessi con leggerezza eccessiva, indennità di mobilità, indennità speciali di disoccupazione, assai vantaggiose rispetto ai trattamenti di disoccupazione ordinaria.

La Cassa integrazione guadagni è stata una sorta di “scandalo italiano”. Abbiamo infatti concepito un unico ammortizzatore statale destinato ad essere applicato ai soli lavoratori licenziati e parallelamente se ne è consentito un’ applicazione parassitaria a molte imprese in un contesto che avrebbe inorridito qualunque altro paese europeo. Quando si parla di flessibilità, bisogna ricordare che il nostro modello imprenditoriale è poco dinamico. Quello che è accaduto in Italia è stata la presenza di una forte linea di protezionismo: molte imprese hanno potuto continuare ad operare grazie alla CIG. Ogni anno accadeva poi che venivano ad essere emanate leggi che ne prorogavano la durata. Questo è inconcepibile. Al tempo stesso si è diffuso il fenomeno dei lavoratori in CIGS per dieci - quindici anni, situazione che ha favorito lo svolgimento di lavori a nero.

Con la legge del 1991, il legislatore italiano interviene così con l’ambizione di porre fine allo stillicidio dei provvedimenti che disponevano la proroga della cassa integrazione guadagni, prevedendo in questo modo, che questa potesse essere concessa soltanto in condizioni specifiche e per periodi circoscritti. Tutto questo viene messo in atto nella legge del 1991 ma negli anni successivi, attraverso leggi ed altri provvedimenti sono state comunque introdotte ulteriori proroghe che hanno dato modo di ripristinare la situazione precedente.

193

Altro grande scandalo del diritto del lavoro che si intreccia necessariamente con l’evoluzione della disciplina del licenziamento collettivo, è che nel nostro paese vi è una tutela contro la disoccupazione che riguarda solo il lavoratore licenziato e non anche il lavoratore in senso generale. Il nostro modello è costruito difatti su un lavoratore che è stato licenziato ma questa è una logica di categoria “lavoratore subordinato” e pertanto, negazione peraltro di quanto stabilito nell’articolo 38514

della Costituzione che fa riferimento ai “cittadini” e non ai lavoratori subordinati che hanno perso il lavoro. Si è sviluppato così, un sistema di protezione sociale che ha tradito l’articolo citato della Costituzione. Questo, a mio avviso, è uno degli elementi che ha concorso al default del sistema italiano. D’altro canto, il sistema previdenziale continua ad avere una prospettiva degli anni 50. C’è così una evidente asimmetria fra previdenza sociale e mercato del lavoro. La Riforma Fornero poi non ha cambiato molto la situazione. Il modello Aspi infatti, entrerà a regime solo nel 2017 senza sapere peraltro con quali risorse.

Il problema fondamentale è che il modello secondo cui un soggetto venga assunto presso un’impresa e li presti lavoro fino al periodo di pensionamento, non è più il modello seguito nel 2014. Oggi infatti, il lavoratore è con più facilità chiamato a confrontarsi durante il periodo lavorativo, con un contratto a tempo determinato, seguito poi da un contratto a progetto, un contratto a termine e così via. Lo snodo drammatico è che il sistema previdenziale non riconosce questi salti. In una società e in un mercato del lavoro in cui il contratto di lavoro a tempo determinato diventa la regola e non l’eccezione, è evidente come così non possa più funzionare il sistema. Bisognerebbe allora concepire una diversa tutela, sganciata da categorie, per cui chi perde il lavoro deve avere una protezione sociale.

(514 ) “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere

ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. (…)”.

194

Nell’analisi e nello studio della disciplina dei licenziamenti collettivi uno degli aspetti problematici emersi è poi quello relativo alla questione dell’efficacia/inderogabilità dei contratti collettivi. Proprio in tale campo si è infatti generata la dicotomia tra contratti normativi/gestionali, avallata dalla nota sentenza 22 giugno 1994 n. 268 della Corte Costituzionale che, individuando una diversificazione funzionale del contratto collettivo là dove il contratto presenta un necessario intreccio di funzioni, ripropone la questione se il contratto gestionale si sottragga ai limiti di efficacia soggettiva. Come ho potuto constatare nel mio elaborato, il dibattito è ampio. In tale scia problematica si pone di conseguenza, la questione del modo in cui il contratto collettivo possa indicare i criteri di scelta diversi da quelli previsti dal legislatore e dei caratteri che tali criteri debbano possedere: emerge dunque la questione del raccordo tra eteronomia ed autonomia collettiva con forti implicazioni sul concreto interesse individuale alla conservazione del posto di lavoro.

Ho appurato che la prima fase di procedura di mobilità, quella di informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali, è incentrata sulla determinazione del progetto aziendale di riduzione del personale, ed i poteri riconosciuti al sindacato sono diretti proprio allo scopo di influenzare e deviare il corso del progetto aziendale.

Questa fase si distingue dalle altre in quanto, oggetto delle procedure e del confronto sindacale è la vicenda organizzativo - gestionale dell’imprenditore; vengono in questione, dunque, i profili “quantitativi” della decisione organizzativa. Ciò significa che è possibile distinguere logicamente oltre che temporalmente questa fase da quella successiva sui criteri di scelta, in cui viene invece più direttamente in questione la decisione “qualitativa” dell’imprenditore. La distinzione delle fasi è peraltro evidenziata anche da alcuni aspetti della stessa disciplina legislativa, come la “ripetizione” dei recessi ai sensi dell’art. 17 della legge 223 del 1991.

Le procedure di mobilità hanno inizio con la comunicazione da parte del datore di lavoro alle rappresentanze sindacali; mi pare opportuno fare una distinzione nell’ambito delle informazioni che

195

devono essere fornite dal datore di lavoro, tra informazioni “primarie” e informazioni “secondarie”. Tra le prime possono includersi i motivi dell’eccedenza e dell’intenzione di licenziare; le caratteristiche quantitative e professionali del personale in esubero; i tempi di attuazione del programma di mobilità. Tra le informazioni secondarie invece, i motivi per i quali non si ritiene di poter adottare misure idonee ad evitare l’esubero ed i conseguenti licenziamenti: le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sociali dell’attuazione dei licenziamenti.

Come si è avuto modo di rilevare, nel sistema delineato dal legislatore, le procedure sono certamente funzionali alla tutela dell’interesse del singolo lavoratore, ma solo in via per così dire indiretta e mediata. Il percorso per tutelare il singolo lavoratore passa attraverso il ruolo partecipativo delle rappresentanze sindacali; dunque la funzione diretta ed immediata dei vincoli procedurali di informazione è quella di garantire quel ruolo, indipendentemente dall’esito finale del confronto tra le parti. Nel momento in cui quell’obiettivo è raggiunto, anche la funzione indiretta di quei vincoli nei confronti del singolo si dovrà presumere soddisfatta, a meno che non venga dimostrato il contrario.

Alla procedura di mobilità è possibile giungere per due vie diverse: così come disposto dalla previsione contenuta negli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991. Analizzando soprattutto i vari orientamenti giurisprudenziali e dottrinali avutosi nel corso degli anni, è difficile sostenere che si possa essere innanzi a due fattispecie diverse. Sul punto è ormai pacifico l’insussistenza di un preventivo obbligo di esperimento della CIGS, situazione che in passato era stata smentita da parte della dottrina la cui ratio interpretativa può essere individuata nel frutto di una lunga esperienza. Nel corso degli anni 80 infatti, vi era la seguente situazione: procedura di mobilità ma prima ricorso alla CIGS. Questa situazione che potrebbe essere definita

Nel documento I licenziamenti collettivi (pagine 189-200)