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4.2. Rinaldo Calcagnini d’Este

4.2.1. L’inventario del 1743

L’inventario più volte citato, noto in due versioni identiche 503 [doc. 11] viene stilato da Giovan Battista Gamberi, perito pubblico del Sacro Monte di Pietà, e per quanto concerne i mobili, annovera nelle diverse residenze oltre quattrocento dipinti stimati da “Giuseppe Bazoli pittore”. Questo artista, noto alla famiglia in quanto menzionato anche nell’inventario di Ercole come autore di quattro opere, che erano copie delle Stagioni dell’Albani, fornisce descrizioni piuttosto esigue riguardo l’iconografia delle pitture esprimendone la paternità soltanto in alcuni sparuti casi ai quali vanno aggiunte le attribuzioni deducibili dal confronto del documento con l’inventario del progenitore Mario. Anche nel patrimonio di Rinaldo, come in quello dei fratelli, giunsero, infatti, alcune opere provenienti dalla collezione dell’avo che, transitate fra i beni di Francesco Maria, vennero da questi equamente suddivise fra i quattro rampolli di famiglia.

Dopo la stima degli argenti rinvenuti nell’eredità del marchese, affidata all’orefice Giuseppe Baruffaldi, l’inventario prosegue secondo un criterio topografico partendo dai mobili della Sala dove compaiono i primi diciotto quadri che, genericamente descritti come soprausci e tele di diverse dimensioni rappresentanti pitture di “storie” a fianco di “un amoretto”, sembrerebbero opere a soggetto profano. Come sarà facile comprendere dall’analisi del criterio d’allestimento della quadreria nei diversi ambienti, Rinaldo non seguì di certo un principio iconografico sicchè le opere sacre risultano accostate alle profane nei luoghi di rappresentanza come nelle camere private. La stanza contigua “dalla parte di dietro”, dove doveva trovarsi un camino vista la presenza di arnesi da fuoco, accoglie esclusivamente ritratti di cardinali e vescovi, due dei quali definiti “antichi”, ed opere a soggetto sacro. Fra queste “Un quadro di una Santa Margherita con un drago di Bassano con cornice a vernice fint’oro” sulla quale è doveroso soffermarsi per alcune riflessioni. Non è noto alcun dipinto con questo soggetto prodotto dall’artista veneto ma la presenza nell’inventario di Mario Calcagnini del 1664 di “Una Santa Margherita” attribuita allo Scarsellino può indurre ad identificare le due opere, con tutta probabilità ascrivibili al maestro ferrarese. Il frequente equivoco che nei secoli portò infatti a scambiare tele di Scarsellino per pitture di provenienza lagunare, e nello specifico bassanesche, può essere la causa che anche in questo caso indusse Bazoli all’errore. “La consanguineità delle due culture artistiche in un rapporto di prevalente incidenza veneta all’interno di un’area eccentrica dell’Emilia”504 si fa particolarmente concreta nella produzione di Ippolito che fin dalle prime prove, dal gruppo della Galleria Nazionale di Parma alle opere della Borghese, nella piccola dimensione da cavalletto attraverso il baluginare di luci crepuscolari e l’incresparsi della materia pittorica, evoca la vicina poetica lagunare. Lo stesso Cittadella, “polemizzando” nei confronti degli Storici romani che, di fronte alle opere dei ferraresi trafugate e condotte nella capitale durante l’amministrazione legatizia dello Stato, non si degnano di farne menzione o cambiano il nome “agli Autori medesimi attribuendole ai suoi grandi Maestri”, denuncia il fatto che “le opere del nostro Carlo Bononi” sono “giudicate lavori ragguardevoli de’ Caracci, d’Ippolito Scarsellino per pitture di Giacomo da Ponte detto il Bassano: troppo temendo essi d’avvilirsi con l’annoverare fra i lor dotti Maestri gli oscuri nomi de’ nostri Professori Ferraresi”505. Oltre alla sicura influenza che esercitarono le opere dei Bassano sull’evoluzione artistica dello Scarsellino, è nota l’importanza rivestita per la pittura locale dalla diffusione di incisioni che

504 Bentini 1993, p. 255.

contribuirono alla conoscenza dei grandi maestri veneti al di fuori dei confini della Serenissima506. L’alternanza di attribuzioni che spesso confuse negli inventari i nomi di Ippolito e dei bassanesi è ben percepibile nei repertori della collezione Pio di Savoia che, dal 1697 al 1750, videro il continuo susseguirsi e correggersi di alcune paternità. E’ il caso, ad esempio, della Cacciata dal Tempio della Pinacoteca Capitolina507 che nella lista dei quadri concessi per l’allestimento dell’esposizione di San Salvatore in Lauro del 1697, viene descritta da un indeciso Giuseppe Ghezzi come “del Tintoretto, anzi Bassano”, evidenziando così le distinte suggestioni venete della pittura. L’opera viene poi riportata negli elenchi del 1724 e del 1750 con la corretta attribuzione allo Scarsellino per tornare erroneamente ai maestri veneti nelle guide sette-ottocentesche e nei primi elenchi della Pinacoteca508. Come segnalato nella scheda di Sergio Guarino509, fu Adolfo Venturi nel 1890 a riproporre il nome dell’artista ferrarese in un dipinto dove le suggestioni lagunari risultano particolarmente tangibili e, come affermato da Jadranka Bentini, spesso “ai limiti del plagio”510. Anche il

Cristo in Gloria, della stessa Pinacoteca romana,511 venne proposto da Venturi come Scarsellino benché negli inventario Pio dal 1724 gli fosse accordata un’attribuzione a Jacopo Bassano poi precisata da Berenson, Longhi e Maria Angela Novelli in favore di Leandro Bassano. Di certo non si vuole qui sostenere che non potessero essere presenti opere dei maestri veneti nelle collezioni ferraresi, già segnalate dagli inventari di primo Seicento e per tutto il secolo successivo512, ma, alla luce dell’eredità collezionistica ricevuta dai nipoti di

506 Jacopo Bassano e l’incisione. La fortuna dell’arte bassanesca nella grafica di riproduzione dal XVI al XIX secolo, a

cura di E. Pan, Bassano del Grappa 1992; A .P. Torresi, La pala della cappella Navarra a Malborghetto in “Fondazione Navarra, Un’Istituzione Ferrarese”, Ferrara Liberty House, 2004, pp. 91-96.

507

Pinacoteca Capitolina 2006, p. 49

508 Le citazioni del dipinto compaiono nell’elenco del 1697 n. 6 (De Marchi 1987), nell’inventario del 1724 n. 4, 1750

n. 22, (Quadri rinomatissimi 1994), Catalogo Pinacoteca Capitolina 1839, n. 196 (S. Guarino, L’inventario della

Pinacoteca Capitolina del 1839 in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”, n.s., VII, 1993, pp. 66-85); Catalogo Pinacoteca Capitolina 1851, n. 115 (Guarino, Per la Storia della Pinacoteca Capitolina: un inventario del 1851, in

“Studi di Storia dell’Arte in onore di Denis Mahon”, Milano 2000, pp. 214-219).

509 Pinacoteca Capitolina 2006, p. 49. 510 Bentini 1993, p. 255.

511

Pinacoteca Capitolina 2006, p. 64 con scheda di P. Masini; B. Berenson, The Italian painters of the Renaissance:

with indices of their works, 4, 1936; Italian pictures of the Renaissance: a list of the principal artists and their works, with an index of places, 1957; Longhi comunicazione orale riportata nella scheda del museo.

512 Opere genericamente attribuite a “Bassano” si trovano nella collezione del Marchese Roberto Obizzi (Fughe e Arrivi

2002, p. 272, doc. 42) il quale, grazie ai possedimenti veneti e al Castello del Catajo ereditati in fidecommesso dal padre Pio Enea, possiamo plausibilmente ritenere avesse stretti contatti col territorio e quindi con gli artisti lagunari. Particolarmente interessante risulta la situazione del Primicerio del Capitolo della Cattedrale Francesco Bertazzoli che, morendo nel 1676, lasciò in eredità al nipote una discreta quadreria stimata dal sarto Giorgio Buosi. L’estensore infatti è attento ad indicare la paternità di soli due quadri più due piccole serie di tondini e tutti risultano ascritti proprio al Bassano (Fughe e Arrivi 2002, p. 363, doc. 71). Ancora plausibili presenze di quadri bassaneschi si rilevano nell’inventario del 1687 di Francesco Pacchieni mercante in Venezia ma ufficialmente cittadino ferrarese dal 1666. La stima affidata al perito pittore Agostino Lama, attribuisce la maggior parte delle opere all’area veneta o fiamminga fra

Mario, sembra assai plausibile ritenere che dietro il riferimento della Santa Margherita a Bassano possa celarsi il nome dello Scarsellino così ampiamente diffuso nelle dimore private. Le due stanze contigue attraverso le quali prosegue l’inventario dei beni di Rinaldo sono chiaramente identificabili come due stanze da letto per il mobilio registratovi che annovera, oltre alle strutture in legno, i materassi ed i cuscini, anche una gran varietà di coperte e tessuti. Entrambe le camere presentano importanti apparati, la prima “paramenti dipinti con cimasa” e l’altra, dove morì il marchese, una serie di arazzi antichi dei quali è precisata la provenienza dall’eredità del fratello Ercole: le opere qui conservate, tuttavia, non si segnalano per qualità ed originalità. Si tratta per la maggior parte di ritratti di varie dimensioni, formati e soggetti, custoditi secondo una desueta scelta nelle stanze private, cui si uniscono alcune pitture sacre e altre genericamente qualificate come “istorie”; così come nel vano attiguo, anch’esso apparato d’arazzi ed identificabile come uno studio per la presenza di uno scrittoio, si allineano “due quadri bislunghi con baccanali” ed una “Beata Vergine”. Nelle camere successive che si affacciano sulla “stradda della Rosa”, si ritrovano alcuni dipinti attribuiti fra i quali è possibile identificare “Il quadro con sopra San Paolo del Cremonese” come proveniente dall’eredità del marchese Mario. Qui si annovera altresì un’opera di un altro grande protagonista della pittura ferrarese del Seicento finora mai menzionato nelle raccolte Calcagnini benché assai attivo e richiesto in ambito locale fin dai primissimi anni del Seicento: “Un quadro o sia soprauscio del Naselli con sopra dipinta una istoria con cornice a vernice fint’oro”. La consueta superficialità della descrizione iconografica non permette alcun tentativo di identificare la tela ma la sua presenza contribuisce ad allineare la raccolta di Rinaldo a quella degli altri collezionisti locali del XVIII secolo dove le opere secentesche dei ferraresi, spesso ereditate nella continuità del patrimonio familiare, altre volte acquistate sul mercato, permangono accanto ai contemporanei come elementi caratterizzanti e, a giudicare dalle valutazioni, di pregio. Così, nella stessa stanza che dà sulla via principale, Bazoli annovera “Un quadro bislongo con sopra la casta Susanna” ed un “quadro di figura intiera con sopra la Casta Susanna e li vecchioni con cornice vecchia” uno dei quali verosimilmente identificabile

cui si segnalano altisonanti attribuzioni a Carpaccio, Van Dyck e Bellini (Fughe e Arrivi 2002, p. 419, doc. 88). Nel XVIII secolo attribuzioni a Bassano si ritrovano nell’inventario dei beni di Giovanni Andrea Buosi del 1713 particolarmente ricco di attribuzioni e copie da ambito veneto (Quadri da stimarsi 1996, p. 39, doc. 28); dell’arcivescovo Girolamo Crispi del 1746 (Ibidem, p. 87, doc. 95); di Alfonso Varano del 1788 (Ibidem, p. 198, doc. 181); assai più frequenti sono le copie o le opere definite “della scuola di Bassano” come nel caso della quadreria di Maurelio Dalla Pellegrina stimata nel 1709 (Ibidem, p. 31, doc. 20); dell’avvocato Antonio Mazzucchi del 1724 (Ibidem, p. 52, doc. 56); del conte Ercole Antonio Riminaldi del 1763 (Ibidem, p. 150, doc. 131); di Giovanni Girolamo Agnelli del 1773 (Ibidem, p. 182, doc. 156).

con l’opera appartenuta al nonno descritta come “Una Susanna figura del naturale”, valutata nella stima del 1664 la considerevole cifra di duecento scudi. Benchè in nessun caso sia purtroppo espresso l’autore si può ipotizzare che il quadro a figura intera provenga dalla raccolta di Ercole nel cui inventario di qualche anno prima, 1738, si descrive come “Un quadro grande rapresentante la Susanna con li due vecchioni con cornice dorata opera del

Parolini” che, valutata 40 scudi, si qualifica come uno dei pezzi più preziosi della raccolta: si

tratta forse della pittura che Rinaldo elesse fra quelle possedute dal fratello al momento della sua morte agendo secondo quanto Ercole stesso aveva espresso in sede testamentaria513. Proveniente ancora dal patrimonio dell’avo è “Un quadro o sia sopra uscio grande del Dossi con dipinta una tigre con cornice vecchia fint’oro”, già segnalato oltre che nell’inventario di Mario Calcagnini del 1664, anche nei beni conservati nel palazzo di Cesena della nuora Violante degli Albizzi del 14 novembre 1711514.

In questo ambiente si affiancano pitture di genere e provenienza assai varia: immagini di Santi, scene della Passione, quadretti votivi, battaglie, boschereccie, una Cleopatra, episodi tratti dalla letteratura del Tasso e probabilmente anche immagini allegoriche. “Un quadro bislongo sopra l’uscio con una donna e fanciulli dipinti con cornice a vernice fint’oro” può sembrare infatti la rappresentazione di una “Carità”, da mettere in relazione al corrispondente “quadro con sopra una Sollecitudine sopra l’uscio d’intiera figura”, con la medesima cornice, descritto nella camera contigua. Così nei restanti ambienti del palazzo permane questo allestimento “confuso” di opere eterogenee, che tuttavia presenta alcune peculiarità. Come anticipato si annoverano anche dipinti di artisti contemporanei, quali il sin qui più volte citato

Giovan Battista Cozza che compare nella raccolta di Rinaldo con una sola opera, a

differenza della particolare predilezione accordatagli dal fratello Ercole che ne possedeva circa un decina, “Un quadro grande bislongo di figura intiera con sopra San Giovanni Battista e Nostro Signore”. Nella collezione di Rinaldo compare un grande nome della pittura ferrarese settecentesca del tutto assente nella quadreria del fratello: Giuseppe Zola515. Questi

513 “Per l’istessa ragione di legato e per segno di fraterno e sincero amore lascio a Monsignor Carlo Calcagnini Decano

della Sacra Rota di Roma, al marchese Rinaldo e al Marchese Gio. Battista pure de’ Calcagnini tutti e tre miei amatissimi fratelli un quadro per ciascheduno de’ migliori e più pregevoli che io possa avere ad arbitrio ed elettione delli predetti miei fratelli”. Testamento di Ercole Calcagnini, ASMo, Archivio Privato Calcagnini, b. 161, 1738.

514 ASMo, Archivio Privato Calcagnini, b. 136.

515 Barotti 1770, pp. 32-33; Cittadella 1783, IV, pp. 167-175; Lanzi, 1834, V, pp. 218, 231; Baruffaldi Vite, II, pp. 572-

573; Frizzi 1847, p. 471; Ughi, Del pittore Giuseppe Zola e delle sue opere, Ferrara, 1874; S. Fenaroli, Dizionario degli

artisti bresciani, compilato dal Sac. Stefano Fenaroli, Brescia, 1877; E. Calabi, Un paesista del Settecento: Giuseppe Zola, in “Rivista d’Arte”, 1934, pp. 84-93; Idem, La pittura a Brescia nel Seicento e nel Settecento, catalogo della

fu un paesaggista del quale attualmente poco è noto, benché innumerevoli siano le citazioni delle sue opere nella grande maggioranza delle collezioni private e dei luoghi pubblici tanto da indurre Cesare a scrivere che riempì “dei suoi Quadri il paese intero”516. Di origine bresciana giunse a Ferrara probabilmente dopo un soggiorno veneziano del quale si evincono gli effetti sulle soluzioni “compositive adottate e sugli effetti pittorici dei maggiori esempi del genere paesistico che ormai da decenni, lungo il consolidato percorso del rinnovamento naturalistico di origine giorgionesca e tizianesca si era andato diffusamente affermando per vivo interesse collezionistico nella città lagunare”517. Allievo del messinese Giulio Cesare Avellino, giunse a Ferrara in un momento non precisato, ma gli studi che la critica gli dedicò durante il secolo scorso sono unanimi nel riconoscere nei suoi dipinti Zola l’esito di una molteplicità di studi e suggestioni: oltre al paesaggismo veneziano egli si volse al classicismo bolognese e romano, ma anche al naturalismo nordico mediato probabilmente grazie alla grande diffusione della grafica di genere. Certo la presenza in città della quadreria del cardinale Tommaso Ruffo, a Ferrara fra il 1710 ed il 1738, offrì agli artisti locali una congerie di differenti modelli paesaggistici di varia derivazione come Salvator Rosa, Paul Brill, Filippo Lauri o Jan Miel. La fortuna che Giuseppe Zola riscosse fra i contemporanei sembra davvero unica. Dall’analisi degli inventari settecenteschi noti, sono davvero poche la collezioni cittadine prive di un paesaggio del Zola ma anzi, frequenti sono i casi in cui si menzionano unicamente dipinti ad egli attribuiti, in un contesto di pitture sommariamente citate in gruppo. E’ questa, ad esempio, la situazione di don Agostino Panizza nel cui inventario di modeste ricchezze si citano diciotto opere delle quali si precisano unicamente “due quadri con paesi” e “sei quadri bislunghi con paesi di mano del Zola”518. Copiose serie di paesaggi del pittore si ritrovano nelle quadrerie di tutte le estrazioni sociali: da quella del marchese Scipione Sacrati519 allestita nel Palazzo della Via degli Angeli, dove l’estensore Resani cita numerosi “paesi del Zola”, a quella di Giuseppe Alfonso Salmi stimata nel 1747520, dalla collezione del

del Settecento Emiliano-La Pittura”, catalogo della mostra, Bologna 1979, pp. 185-187; P. L. Fantelli, Nota sul

paesaggismo di Giuseppe Zola in “Musei Ferraresi: bollettino annuale”, 1982, pp. 143-146; A. P. Torresi, Nuovi dati su Giuseppe e Margherita Zolla pittori del Settecento ferrarese, in “Bollettino della Ferrariae Decus”, 7, 1995, pp. 66-75;

B. Giovannucci Vigi, Giuseppe Zola, 1672-1743, Natura e Paesi nei dipinti della Cassa di Risparmio di Ferrara, Nardini Editore, 2001; A. P. Torresi, Giuseppe Zola: Tancredi battezza Clorinda, in “Prove d’autore: dal bozzetto all’opera compiuta” a cura di E. Negro, N. Roio, G. Corrado, Imola 2007, pp. 30.31.

516 Cittadella 1783, III, pp. 167-175. 517

Giovannucci Vigi 2001, p. 23.

518 Quadri da stimarsi 1996, p. 53, doc. 59.

519 ASFe, ANA, Notaio Bonatti Bernardino, matr. 1448, P6, fasc. 1733. 520 ASFe, ANA, Notaio Luigi Cittadella, matr. 1507, P7, fasc. 1747.

conte commendatario Pietro Nappi521 a quella contenuta ed ordinaria del Sig. Ingoli522. Si segnalano raccolte in cui, soprattutto sul finire del secolo, la presenza di opere dell’artista si fa addirittura predominante rispetto a quelle di chiunque altro autore segno dell’incondizionato apprezzamento personale verso di lui e della predilezione accordata al genere paesaggistico nella seconda metà del XVIII secolo, tale da indurre alcuni collezionisti a decorare diverse stanze delle proprie dimore essenzialmente di paesi523. La grande diffusione del genere paesaggistico nelle collezioni private del XVIII secolo è facilmente verificabile dallo studio degli inventari raccolti fino ad oggi dove con la dicitura di “boschrecce”524 o più specificatamente “paesi”, “paesetti”, ecc..si identificano opere, di piccole e grandi dimensioni, che si rivelano, grazie alle rare descrizioni più complete o a concreti avvenuti riconoscimenti, dipinti con chiaro intento devozionale525 o strettamente legati a testi letterari come la

Gerusalemme Liberata526 in cui trapela un’arcadica partecipazione sentimentale dell’artista. Questi dipinti nella dimensione decorativa della sovraporta costellano le abitazioni private in una ininterrotta “successione di paesi di volta in volta adattati, aggiustati, riutilizzati nelle componenti essenziali per l’inserimento di semplici macchiette, in esclusiva funzione decorativa ad ornare salotti, scaloni o atri d’ingresso”527. Nell’abitazione del marchese Rinaldo compaiono “soltanto” sette opere del paesaggista, evidentemente a formare un coeso gruppo tematico, definite “bislunghi con paijsi dipinti di nuovo” ad indicarne probabilmente con queste specificazioni l’immediata esecuzione del Zola al momento della commissione del Calcagnini. Questi non dovevano fungere da soprausci dato che accanto ad essi si annoverano altri “paesi” distintamente indicati con tale funzione d’ornamento ma definiti “antichi”, cui si accompagnano altresì due “prospettive”, come altre si ritrovano dislocate in diversi ambienti

521 Qui nel 1755 si registrano “due ovati grandi con paesi del Zolla”, Quadri da stimarsi 1996, p. 132, doc. 111.

522 Fra i 17 pezzi scarsamente valutati e quasi totalmente a soggetto religioso si annotano “quattro quadri del Zola

rappresentanti boscarezzi”, “due quadri grandi” ed “un quadro” del Zola. Quadri da stimarsi 1996, p. 213, doc. 200.

523 Francesco Dalla Chiesa nel 1777, nella casa in Via di San Guglielmo, possedeva ben quindici opere del Zola su un

totale di circa settanta dipinti fra i quali soprattutto scene di genere e nature morte. Quadri da stimarsi 1996, p. 187, doc. 164; nella collezione di Luigi Carli nella casa in Via dei Servi, su quarantaquattro menzioni quasi la metà indicano paesi del Zola. Quadri da stimarsi 1996, p. 188, doc. 166. Nel Palazzo di Alfonso Varano in via Santo Spirito, dove una cospicua quadreria era allestita nelle sontuose stanze dell’abitazione, i diversi paesi dell’artista sono disposti nelle camere private ma soprattutto nel cosiddetto “camerone dei libri” dove si annoverano ben venti pitture, di formati e dimensioni vari, esclusivamente di mano del Zola. Quadri da stimarsi 1996, p. 198, doc. 181.

524 E’ questo il caso del Paesaggio con San Francesco rifocillato da un Angelo della Pinacoteca Nazionale di Ferrara

che faceva parte di un gruppo di “boscherecce” ricordate dalle fonti nell’ex-convento del Gesù insieme col Paesaggio

con monaco orante di collezione privata ferrarese e al Martirio di San Pietro da Verona dei Musei Civici d’Arte Antica.

(Giovannucci Vigi 2001, p. 27).

525

Come il Miracoloso salvataggio di D. Antonio Varano ed il Naufragio nel Po della Pinacoteca Civica di Camerino per la chiesa di San Domenico.

526 Torresi 2007.

del palazzo insieme a “battaglie” e “fortune di mare” ad indicare una variegata declinazione iconografica all’interno dei generi cosiddetti minori ma che, in quest’epoca, costituivano buona parte degli allestimenti in abitazioni private. Si può ipotizzare che i setti paesaggi zoliani in serie non fossero i soli realizzati dal pittore e conservati nella quadreria ma soltanto gli unici inequivocabilmente ascrivibili: si segnalano infatti altre curiose opere paesaggistiche come “una boscarezza et assassini” o un “quadro pure bislongo con sopra una istoria del Tasso”, “due paesi compagni con dipinti pastori e capre”, ed altri “quattro quadri bislonghi di

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