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L’unificazione del «tianxia»: la dinastia Qin

Nel documento 0a_prime pagine.indd 1 11/04/13 15.22 (pagine 193-200)

Nel 256 a.C. morí il re Nan di Zhou, salito al trono nel 314 a.C. Con lui ebbe fine, di fatto, la dinastia Zhou, che dal 1045 a.C. aveva eserci-tato il proprio dominio e la propria influenza su quella parte dell’immen-so continente asiatico che i Cinesi di ogni epoca avrebbero considerato la culla della civiltà. Trentacinque anni dopo, nel 221 a.C., Ying Zheng (r. 246-221 a.C.), il sovrano del potente regno di Qin, unificò il tianxia, «[tutto ciò che è] sotto il cielo», dando vita a un impero vastissimo che, alternando periodi di unità a fasi di divisione politica, sarebbe durato oltre duemila anni. Ying Zheng passò dal trono regale a quello imperiale attribuendosi l’appellativo di Qin Shi Huangdi, Primo Augusto Impera-tore dei Qin (r. 221-210 a.C.), volendo con questo esaltare sia il radicale superamento di un passato con cui non poteva in realtà non fare i conti, sia la volontà di rendersi artefice di profonde innovazioni, convinto che la sua dinastia sarebbe durata all’infinito. Per la prima volta nella storia del continente asiatico un gran numero di culture appartenenti a popoli diversi, che si erano sviluppate in aree lontane anche migliaia di chilo-metri, si trovarono unite in un’entità politica universale, in una prospet-tiva di maggiore prosperità e di piú solida stabilità sociale.

Contrariamente agli auspici cui la corte aveva attribuito valore di pro-fezie, la dinastia collassò dopo soli quattro anni dalla morte del Primo Im-peratore. Le succedette la piú longeva dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) e ci vollero diversi decenni e una figura carismatica di grande statura intel-lettuale e morale come quella dell’imperatore Wu (r. 141-87 a.C.) perché l’assetto istituzionale dell’impero potesse consolidarsi definitivamente.

La storiografia ufficiale non è stata benevola con il Primo Imperato-re, e meno ancora lo è stata con i Qin. Secondo quanto riportato nello Shiji (Memorie di uno storico) di Sima Qian (c. 145-86 a.C.), infatti, e da altre opere del tardo periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) e del primo periodo imperiale, lo stato di Qin, situato nel lontano Oc-cidente, grosso modo nelle odierne province del Gansu e dello Shanxi, in posizione quasi isolata rispetto agli altri stati per via delle impervie

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catene montuose che ne delimitavano i confini, era considerato cultu-ralmente arretrato, la sua popolazione era paragonata alle tribú semino-madi dei Rong del Nord o dei Di dell’Ovest, «barbare» per eccellenza nell’immaginario collettivo di chi viveva piú a oriente: «[La gente di] Qin ha le stesse usanze dei Rong e dei Di, il cuore di tigre o di lupo, è avara, perversa, avida e per nulla sincera. Non sa nulla di cerimoniali e buone maniere, correttezza morale e condotta virtuosa; se c’è un’opportunità di guadagno, è disposta anche a tradire i propri genitori, neanche fosse-ro animali» recita il Zhanguoce (Intrighi degli stati combattenti, 24.8). A partire dal iv secolo a.C. Qin venne percepito come una pericolosa minaccia al cuore della migliore tradizione Zhou, a causa del crescente potere politico e militare di cui godeva, derivante, in buona parte, dalle riforme avviate da Shang Yang (c. 385-338 a.C.), abile amministratore e raffinato teorico dello stato autoritario, e fautore di dottrine che ne-gavano i valori tradizionali Zhou. Egli assunse la carica di primo mini-stro e avviò una stagione di importanti riforme che avrebbero cambiato in modo irreversibile la struttura gestionale dello stato, rafforzatone il sistema economico e l’apparato militare.

Il Primo Imperatore, bastardo di nascita secondo indiscrezioni di palazzo in realtà mai suffragate da prove certe, fu presentato come un despota spietato e crudele, un visionario privo di sentimenti umanitari, ambizioso e assetato di potere, vanaglorioso ed egocentrico, instabile e in balia di consiglieri di dubbia reputazione che ne avrebbero minato la mente somministrandogli intrugli e pozioni magiche che avrebbero do-vuto garantirgli vita eterna. Le sue campagne militari sarebbero costate la vita di almeno un milione di uomini. A lui e ai suoi piú fedeli ministri e generali, primo fra tutti Li Si (c. 280-208 a.C.), l’artefice principale del suo straordinario successo, vennero imputati misfatti orrendi, come il rogo dei libri del 213 a.C., che avrebbe dovuto annullare ogni traccia dell’antico patrimonio culturale, pericoloso strumento per «criticare il presente servendosi del passato» (yi gu fei jin), e l’infamante massacro di 460 letterati confuciani del 212 a.C., rei di aver disatteso le sue di-sposizioni e tentato di minare la stabilità dell’impero con le loro critiche (Shiji, cap. 6, pp. 254-55 e 258).

L’anatema pronunciato in epoca Han dal giovane erudito Jia Yi (200-168 a.C.) in un saggio divenuto famoso, il Guo Qin lun (Sugli eccessi dei Qin), ha condizionato gran parte della letteratura successiva, raramen-te mitigata dall’inraramen-tervento di altri inraramen-tellettuali, come ad esempio quel-lo del letterato Liu Zongyuan (773-819), che nel suo Fengjian lun (Sul feudalesimo) prese apertamente le difese del Primo Imperatore. Questo quadro sostanzialmente negativo si è andato gradualmente attenuando

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nel tempo, senza però mai scomparire del tutto (vedi, ad esempio, Sun Ji 2010). La televisione e il cinema hanno contribuito non poco a ripro-porre al largo pubblico un’immagine negativa, o quantomeno «a due facce», del Primo Imperatore, romanzando i racconti di Sima Qian in modo spettacolare. Tutto ciò ha concorso a mantenere vivo lo stereo-tipo negativo confezionato ad arte verso la fine del periodo degli Stati Combattenti e l’inizio della dinastia Han. Ma quanto di questa imma-gine corrisponde a realtà?

La risposta la dà l’archeologia, che ha messo a disposizione degli stu-diosi una quantità eccezionale di nuovi dati, grazie al rinvenimento di importanti tombe e complessi funerari databili al periodo precedente l’u-nificazione imperiale e primoimperiale, manufatti e documenti scritti su bronzo, ferro, pietra, giada, bambú e terracotta relativi agli ambiti piú disparati, dalla pratica amministrativa a quella giuridica, dall’organiz-zazione dello stato a livello centrale e locale alle relazioni diplomatiche, dalle credenze religiose e le pratiche mantiche allo stile di vita dell’ari-stocrazia e in parte anche della popolazione, e altro ancora. Nell’insie-me, assai piú di quanto la letteratura tramandata ci abbia trasmesso sulla storia di quel periodo. Lo studio di questi dati e il confronto con quanto riportato dalla tradizione, pesantemente condizionato da motivazioni di natura ideologica, e le diverse interpretazioni che ne sono scaturite hanno di fatto obbligato gli storici dell’antica Cina a riconsiderare se-riamente l’intero quadro (Kern 2000; Pines 2004). Anche se non tutte le tessere del mosaico sono ancora al loro posto, per cui la parola defi-nitiva deve ancora essere scritta, le novità finora emerse sono di grande interesse e offrono un’immagine diversa da quella trasmessa dalla tra-dizione. Nuovi studi e, speriamo presto, nuove scoperte archeo logiche contribuiranno a completare il disegno d’insieme, che già oggi appare comunque sufficientemente chiaro nel suo complesso e assai piú artico-lato e vario di quanto si potesse immaginare.

In particolare, i nuovi documenti gettano nuova luce sull’identità culturale dei Qin, sulla percezione che i Qin avevano di sé e che gli al-tri avevano di loro, sul rapporto con la corte Zhou e con gli alal-tri stati, sul delicato ruolo svolto nella fase finale della dinastia Zhou. Questioni complesse e non ancora del tutto risolte.

1. L’identità culturale dei Qin.

Le novità piú importanti riguardano la presunta origine dei Qin, la loro posizione nel tianxia, il mondo civilizzato, e il loro presunto status

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di «barbari» e «nemici mortali del tianxia», per usare le parole del Zhan-guoce (14.17). Al di là della retorica di una tradizione fortemente condi-zionata da pregiudizi di natura ideologica e da impellenze del momento, l’evidenza archeologica ha dimostrato l’esistenza di una grande affinità culturale tra i Qin e i Zhou. La disposizione delle tombe degli aristo-cratici e i loro corredi funerari, ricchi di manufatti elaborati e raffina-ti quanto quelli Zhou, sono risultaraffina-ti assolutamente comparaffina-tibili con le usanze e i rituali Zhou, anche se non mancano tratti distintivi propri e segni evidenti dell’influenza delle culture agricolo-pastorali del Nord-ovest (von Falkenhausen 2003a e 2006, pp. 213-43; Ciarla 2005; She-lach e Pines 2006).

Le origini dei Qin sono piuttosto incerte. Tralasciando le narrazioni mitologiche, sembrerebbe plausibile l’ipotesi che associa il clan ance-strale Ying alle terre da pascolo dislocate nelle regioni nord-occidentali dell’odierna provincia del Gansu, ideali soprattutto per l’allevamento dei cavalli. Secondo Sima Qian, le prime notizie attendibili attestanti rela-zioni stabili tra i membri del potente clan Ying e i Zhou risalirebbero al ix secolo a.C., quando re Xuan dei Zhou (r. 827/825-782 a.C.) incaricò gli Ying di reprimere i Rong, che premevano lungo i confini occidentali del regno. I Rong furono rintuzzati nelle loro terre e come ricompensa il re nominò Zhuang, capo del clan Ying, «Gran Dignitario delle Terre Occidentali». Quando poi nel 771 a.C. i Rong invasero nuovamente il regno, arrivando questa volta alla capitale, costringendo Yijiu, l’erede legittimo del defunto re You (r. 781-771 a.C.), ad abbandonare in fretta e furia la reggia e a rifugiarsi nella capitale orientale, dove assunse il ti-tolo reale con il nome di Ping (r. 770-720 a.C.), il successore di Zhuang, Xiang, scortò il futuro sovrano e la sua corte garantendone l’incolumi-tà. In cambio del sostegno e della fedeltà dimostrata il re infeudò Xiang con il titolo di gong («duca», il rango nobiliare piú elevato, secondo solo a wang, «re»), assegnandogli i territori occidentali «che dal monte Qi vanno verso occidente» che fin dall’inizio della dinastia erano stati sot-to il controllo reale (l’area insot-torno al monte Qi era considerata la terra ancestrale dei Zhou e, nell’immaginario collettivo, la culla della civiltà). Nacque cosí il ducato di Qin.

Questi eventi sono narrati da Sima Qian nel capitolo 15 (p. 685) del-lo Shiji. Subito dopo essere diventato duca di Qin – continua il grande storico –, Xiang (r. 777-766 a.C.) «officiò un sacrificio a Shangdi (Signo-re dell’Alto) sull’Alta(Signo-re Occidentale», contravvenendo in questo modo al codice rituale che riservava tali sacrifici al Figlio del Cielo (Tianzi), il re Zhou, e attribuiva ai signori degli stati vassalli (zhuhou) la sola com-petenza dei riti in onore degli spiriti delle montagne e dei fiumi: «In

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questo atteggiamento si possono già intravedere i prodromi dell’usur-pazione», sentenziò inorridito Sima Qian, sia per l’azione riprovevole che il duca avrebbe compiuto, sia per l’ingratitudine che egli avrebbe dimostrato nei confronti del re, prefigurando ciò che in seguito, a suo dire, sarebbe avvenuto.

In realtà, il Figlio del Cielo non dovette ravvisare alcunché di partico-larmente negativo o di ostile nel comportamento di Xiang, altrimenti la sua reazione non avrebbe tardato a palesarsi. Forse il rituale non era cosí rigido come Sima Qian immaginava, forse il modo di esprimersi dei duchi Qin peccava di un eccesso di retorica essendo rivolto piú a un’audience interna che esterna al ducato, o forse il re Zhou non era nella condizione di poter reagire con la determinazione che la violazione, se violazione ci fu, avrebbe richiesto. Come che sia, i dati forniti dall’archeologia sembra-no andare in direzione opposta: nel loro complesso indicasembra-no una buona dose di affinità con il mondo rituale e culturale Zhou e la permanenza di rapporti amichevoli. Ne sono prova gli stretti legami di fedeltà e rispet-to, ad esempio, che il duca Wu (r. 697-678 a.C.) dimostrò nei confronti dei re Zhuang (r. 696-682 a.C.) e Xi (r. 681-677 a.C.), o quelli del duca Mu (r. 659-621 a.C.) verso il re Xiang (r. 651-619 a.C.), o del duca Jing (r. 576-537 a.C.) verso il re Ling (r. 571-545 a.C.), tutti ripetutamente «onorati» della visita del sovrano a Qin, come si evince dalle iscrizioni su vasi cerimoniali di bronzo fusi per l’occasione (Kern 2000, pp. 72-92). Visite ufficiali nei territori ancestrali sui quali gli antenati della famiglia reale avevano governato per secoli e che erano stati assegnati a Qin in quanto fedele alleato della corona, non dimentichiamolo.

Una questione controversa riguarda il conferimento del mandato del Cielo (Tianming) ai duchi di Qin, in virtú del quale essi si sentivano pie-namente partecipi nell’amministrazione del tianxia. Se ne parla in modo piú che esplicito in alcune iscrizioni incise su una serie di otto campane di bronzo, cinque di tipo yongzhong e tre di tipo bo, rinvenute nel 1978 a Taigongmiao, nei pressi di Baoji (Shaanxi), su un vaso gui rinvenuto nei pressi di Tianshui (Gansu), su una campana bo trovata durante il regno dell’imperatore Renzong (r. 1022-1063) della dinastia Song Settentrio-nale (960-1126) e su una serie di frammenti di pietra sonora rinvenuti nel villaggio di Nanzhihui, nella contea di Fengxiang (Shaanxi). Queste iscrizioni risalgono al periodo grosso modo compreso tra l’inizio del vii secolo a.C. e la metà del secolo successivo. Particolarmente interessante è l’incipit dell’iscrizione sul gui di Tianshui (c. 600 a.C.):

Il duca di Qin esclamò:

Fulgido è il mio augusto progenitore! Egli ha ricevuto il mandato del Cielo

164 Origine e formazione della civiltà cinese e assicurato la sua residenza nel regno di Yu. I dodici duchi

risiedono sulle maestose cime del Signore dell’Alto, solenni e riverenti, rispettosi del mandato del Cielo, costoro hanno protetto e governato il nostro stato di Qin e si sono presi cura dei Man e dei Xia.

I Man sono popolazioni semibarbare del Sud, i Xia coloro che abita-no gli stati del Centro (zhongguo). Yu è il mitico sovraabita-no che imbrigliò le acque, considerato il fondatore della dinastia Xia. I Qin, dunque, erano convinti di appartenere a pieno titolo al mondo Xia (poi divenuto Zhou), anche se si sentivano diversi e persino superiori. In uno dei frammenti di Nanzhihui, infatti, il duca di Qin, dopo aver riaffermato il possesso del mandato del Cielo e la sua competenza sui Man e sui Xia, li invita a pre-sentarsi a corte per rendere i dovuti omaggi, mettendo cosí sullo stesso piano Man e Xia e ponendo i Qin in una posizione di assoluta superiori-tà rispetto a entrambi. Questo atteggiamento di distinzione e superiorisuperiori-tà troverà riscontro anche nella legislazione successiva, come si evince dai manoscritti di Shuihudi della fine del iv secolo a.C. - inizio del iii. Infatti, i codici Qin distinguono nettamente tra la popolazione originaria di Qin e quella proveniente dalle regioni controllate o da altri stati, prevedendo per ogni categoria status giuridici distinti (Pines 2004 e 2005-6).

La questione è variamente interpretata. Il fatto che i duchi di Qin si sentissero investiti del mandato del Cielo, prerogativa dei re Zhou, è apparso infatti come una grave contraddizione in seno al mondo Zhou. Alcuni l’hanno considerato un fatto inusuale per il vii secolo a.C. (Kern 2000, p. 105), altri invece un atto di rottura con i fondamenti stessi del sistema politico Zhou (von Falkenhausen 1993a, pp. 162-65), altri an-cora la manifestazione evidente dell’esistenza di un proprio programma politico egemonico (Ciarla 2005, p. 29), di un’arroganza ai limiti dell’u-surpazione, visto che in questo modo i duchi Qin avrebbero considerato se stessi Tianzi, fatto questo che avrebbe esteso il loro mandato all’intero tianxia (Yoshimoto Michimasa 1995, pp. 55-58). Altri, infine, hanno ri-dimensionato la portata di queste roboanti dichiarazioni, non essendosi i duchi Qin mai fregiati del titolo di Tianzi, come sarebbe stato invece lo-gico attendersi se alle parole avessero fatto seguito le azioni (Pines 2004, pp. 15-19). In effetti, non solo i duchi di Qin, ma nessun altro sovrano di uno stato vassallo rivendicò mai il titolo di Tianzi – l’unica eccezione fu il maldestro tentativo perpetrato dal re Min di Qi (r. 300-283 a.C.), che però non ebbe alcun successo; infatti, nemmeno i suoi piú stretti alleati ne riconobbero la legittimità –, nemmeno quando, uno dopo l’altro, i so-vrani dei vari stati, divenuti ormai indipendenti de facto se non de jure,

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nel tentativo di dichiarare al mondo, anche formalmente, la propria au-tonomia dalla corte Zhou, si autoproclamarono wang («re»), arrogando-si un titolo che fino a quel momento era prerogativa assoluta del Figlio del Cielo, contravvenendo gravemente a uno degli ultimi baluardi di un codice etico ormai sempre piú obsoleto e disatteso. Accadde nel 344 a.C., su iniziativa dei sovrani di Wei e di Qi, che nel giro di pochi anni sareb-bero stati emulati dagli altri capi di governo. Non è di poco conto che il re Xian di Zhou (r. 368-321 a.C.), nel vano tentativo di fermare lo scempio, abbia cercato l’alleanza del duca Huiwen di Qin (r. 337-311 a.C.) e non di altri, anche se poi serví a ben poco: nel 325 a.C., infatti, anche Huiwen si autonominò wang (nemmeno in questo caso, però, Tianzi).

Va inoltre notato che chiunque avesse tentato di usurpare il manda-to del Cielo sarebbe stamanda-to subimanda-to punimanda-to, se non proprio dai Zhou, che avevano ormai perso la forza militare di un tempo, almeno da uno de-gli stati che si sentivano investiti del compito di salvaguardare l’ordi-ne e i valori Zhou, primo fra tutti Qi che proprio in quel periodo si era presentato al mondo come egemone e paladino dei Zhou. Sembrerebbe quindi piú plausibile immaginare che i duchi Qin si sentissero investiti del mandato divino a governare il proprio ducato e i territori occidentali oltre confine nell’ambito della posizione che occupavano all’interno del sistema di governo Zhou, servendo fedelmente i Zhou e gli stati cen-trali (zhongguo) – nelle iscrizioni chiamati Xia –, interpretando in modo sostanzialmente corretto il mandato ricevuto sí dal Cielo, ma per mano diretta del suo legittimo rappresentante in terra, il re Zhou, che non ave-va affatto rinunciato alle sue prerogative in ambito rituale e religioso. È probabile che i Qin si sentissero superiori ai Xia, ma non per questo si sentivano legittimati a sovvertire l’ordine divino sostituendosi a loro.

Delle relazioni tra i Qin e i Zhou durante il v secolo a.C. si sa ben poco, ma è certo che nel iv secolo a.C. qualcosa cambiò. La situazio-ne politica era ormai degesituazio-nerata e la competiziosituazio-ne per la supremazia si era trasformata in lotta senza quartiere di tutti contro tutti. Nel 361 a.C. era arrivato a Qin il grande statista Shang Yang; nominato primo ministro, un paio d’anni dopo il suo arrivo egli diede avvio a un den-so programma di riforme radicali, volte a modificare completamente la struttura amministrativa e militare dello stato e a trasformare Qin in una superpotenza senza pari. Qin stava predisponendosi a diventare lo stato forte e organizzato che avrebbe unificato il tianxia, in un’ottica non piú localistica ma universalistica. Le condizioni dello stato e della popolazione che orbitava nel sistema Qin erano drasticamente mutate nel corso dei secoli ed era ormai maturata una nuova concezione della propria appartenenza al tianxia.

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Fu in questo periodo, in seguito ai profondi cambiamenti avvenuti a Qin e al suo crescente potere politico e militare, che gli stati a oriente avvertirono la minaccia che incombeva sul loro destino. Sono databili ad allora i testi che dipingono il regno di Qin come un pericoloso nemi-co, una seria minaccia per la loro incolumità ed esistenza, da una par-te, e per i valori tradizionali Zhou e la salvaguardia di quel codice etico aristocratico che loro stessi avevano infranto per primi, dall’altra. Pre-se piede dunque una vera e propria campagna di propaganda politica, volta a denigrare un potente nemico, concertata tra la fine del periodo degli Stati Combattenti e l’inizio della dinastia Han, quando le opere della classicità cinese trovarono forma definitiva, con l’obiettivo di co-struire una giustificazione valida e una legittimazione politica ed etica al passaggio di potere dinastico. Vittime di questa operazione denigrato-ria sferrata su vasta scala non furono solo i Qin, ma anche e soprattutto coloro che ne avevano decretato il successo, il re Ying Zheng in primis.

2. Annessione o successione?

Alla luce del processo di revisione in atto, una delle questioni piú in-teressanti dibattute dagli storici riguarda gli avvenimenti relativi alla fase finale della dinastia Zhou. L’attenzione degli studiosi si è focalizzata in particolar modo sul momento di passaggio dai Zhou ai Qin, tradizional-mente poco indagato a causa della scarsità e laconicità delle fonti. Prima dell’impiego sistematico dei documenti epigrafici rinvenuti negli ultimi decenni, lo Shiji era la fonte principale di riferimento; su quest’opera, im-ponente per l’arco temporale preso in considerazione (c. 3000 anni, dalle origini mitologiche al regno dell’imperatore Wu degli Han) e la mole di

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