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L’Unione alla prova della Grecia Dimitri Deliolanes

Nel documento Senza presente e senza futuro (pagine 148-156)

L’eventuale espulsione della Grecia dall’eurozona segnerebbe l’incompatibilità tra la moneta comune e qualsiasi politica economica espansiva. Berlino smetterebbe di nascondersi dietro ai trattati e mostrerebbe la sua faccia di vero e unico principe europeo

Tsipras ostenta ottimismo e punta su un «accordo di reciproco vantaggio» da definire nel colloquio con la Merkel e Hollande al Consiglio Europeo di Riga. Varoufakis è ancora più dettagliato: «La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte», ha dichiarato lunedì, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. «Ci chiedono casse in pareggio con 27% di disoccupazione», si è lamentato il ministro delle Finanze.

Se a Riga sarà fumata nera, allora Atene si avvierà speditamente verso una sospensione dei pagamenti del debito. Dal 5 giugno inizia infatti una sequenza infernale di versamenti che alla fine del mese ammonteranno a 1,2 miliardi. Poi, a luglio e inizi agosto altri 6 miliardi, tra Fmi, Bce e titoli in scadenza. Sono soldi che la Grecia semplicemente non ha.

Anche Varoufakis è convinto che alla fine vincerà la «ragionevolezza». Secondo lui, il dominio di Schauble dentro l’eurogruppo non è assoluto: «Certo, ci sono i fanatici dell’austerità, ma ci sono anche quelli che hanno dovuto subire l’austerità e che ora, per ragioni politiche, non possono dire che hanno sbagliato. E poi ci sono coloro che temono di alzare troppo la voce per non subire a loro volta misure di austerità». Ovviamente, nel secondo gruppo c’è la destra spagnola e portoghese e nel terzo i socialisti francesi e i democratici italiani.

Tsipras è convinto di avere alleati in Europa, seppure occasionali. Non perché piace loro la sinistra radicale greca, ma perché vedono con grande preoccupa- zione i rischi che comporta l’estremismo liberista tedesco. In sostanza, hanno il fondatissimo sospetto che sul caso greco Schauble stia giocando fino in fondo la sua carta più politica: che la questione del debito esca anche ufficialmente dagli schemi della politica monetaria comune e diventi il paradigma della nuova geometria della politica europea. L’eventuale espulsione della Grecia dall’eu-

rozona segnerà nel modo più formale l’incompatibilità tra la moneta comune e qualsiasi politica economica espansiva. Berlino smetterebbe di nascondersi dietro ai trattati e mostrerebbe la sua faccia di vero e unico principe europeo. Per ottenere questo, la destra oltranzista tedesca sembra anche disposta a proce- dere in mezzo alle rovine dell’eurozona. Le ripetute assicurazioni di Schauble sulla presunta «corazza» che la difenderebbe dal fallimento greco esprimono esattamente questo spirito avventuriero: il «ricatto» di Tsipras non deve passare, costi quel che costi.

In queste condizioni il progetto di unificazione europea sta arrivando in un punto critico. La vittoria di Cameron ha aperto la strada verso il referendum britannico sulla permanenza nell’Ue e non è per niente scontato che vincano gli europeisti. Gli umori dei popoli europei li abbiamo potuti tastare in maniera esauriente nelle elezioni europee dell’anno scorso. Infatti, non a caso, i risultati di quelle urne sono stati immediatamente rimossi, censurati e messi tra paren- tesi. Ora il loro spettro ritorna e batte forte sul tavolo: gli europei sono furiosi con l’Europa, una fetta crescente della popolazione non ne vuole più sapere: o si astiene vistosamente oppure indirizza polemicamente il suo voto verso movi- menti antieuropei, spesso di destra.

Lasciando da parte la questione immigrazione, sulla quale (purtroppo) l’Eu- ropa incide pochissimo, la protesta popolare si rivolge contro un avversario che si chiama euro e le sue regole. Negli ultimi sei anni gli europei hanno assistito a una gestione della crisi apertamente e spietatamente di classe, a una tempesta di tagli, all’abbattimento del costo del lavoro, alla disgregazione dello stato sociale e all’impoverimento della società. Tutto questo in nome di regole applicate da organismi privi di legittimazione democratica. La «destra» e la «sinistra» non solo hanno «abbandonato» la società ma sono stati «complici» nel far nascere questo mostro, si sente dire, e non è facile smentire questa accusa. Questa nostra tragedia, ovviamente, si svolge di fronte al mondo intero e sarebbe strano che anche i britannici non traggano le loro conseguenze.

Anche Tsipras viene accusato dentro il suo partito di aver tirato le trattative per le lunghe, con il rischio di «annacquare troppo» il programma del governo di sinistra. La vera accusa però è un’altra e nessuno osa dirla a voce alta: è quella di non aver voluto rompere con l’eurozona, non aver voluto ricorrere da subito alla «bomba atomica» in mano alla Grecia, cioè la sospensione immediata del paga- mento del debito. È un’accusa fondata: né Tsipras né Varoufakis hanno voluto

sparare per primi e hanno sempre risposto in maniera ferma ma conciliante alle provocazioni di Schauble e dei suoi amici. Il premier greco si è giustificato dicendo che il mandato elettorale diceva: niente austerità ma all’interno dell’eu- rozona. Una posizione estremamente più complessa e più difficile di quella di Beppe Grillo, di Farage o di Marine Lepin che vogliono farla finita con l’Ue una volta per tutte.

il manifesto 21 maggio 2015

Mario Pianta

I rapporti tra Grecia ed Europa sono arrivati a una stretta decisiva. Ora si aprono quattro scenari: un accordo, un compromesso temporaneo, una rottura tra Atene e Bruxelles, o un avvitamento della crisi

La prima possibilità – quella auspicabile – è un accordo sulla base della propo- sta del leader greco Alexis Tsipras: fine dell’austerità, sblocco degli aiuti europei previsti, ristrutturazione radicale del debito. Ma perfino il più morbido, Jean- Claude Juncker, ha detto ieri «non capisco Tsipras. Non mi è possibile evitare a ogni costo il fallimento dei colloqui». Non si prepara un accordo dicendo che c’è un dialogo tra sordi.

La seconda possibilità è che i colloqui di questo fine settimana portino a un compromesso intermedio: fondi ponte europei per il rimborso degli 1,6 miliardi di euro da restituire al Fondo monetario a fine giugno. E, nel frattempo, ieri sono arrivati 2 miliardi del fondo di liquidità di emergenza fornito da Mario Draghi alle banche di Atene. Dopo che molti miliardi di capitali sono fuggiti dal paese.

La terza possibilità è la più probabile. Una rottura radicale tra Atene e Bruxel- les. Il primo messaggio l’ha dato Mario Draghi lunedì 15 giugno (ma l’aveva già detto il 18 aprile) «se la crisi dovesse precipitare, entreremmo in acque scono- sciute». Pierre Moscovici, commissario europeo all’economia, l’ha confermato venerdì 19 giugno: «siamo alla fine dei giochi. È ora di agire e decidersi. Non c’è molto tempo per evitare il peggio». Ancora più esplicito Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: la Grecia deve accettare la nostra offerta, «o avviarsi verso il default». Ma la proposta europea è quella di una ritorno al passato che Syriza non potrà mai accettare. Così Alexis Tsipras, venerdì a San Pietroburgo con Putin, ha replicato tranquillo: «siamo al centro di una tempesta, ma non ci spaventa il mare aperto, siamo pronti a solcare nuovi mari».

Quale forma potrà prendere la rottura? E con quali tempi? Ci sono tre «strappi» possibili. Il più morbido è una dichiarazione d’insolvenza senza uscire dall’euro. Atene annuncia che non ripagherà il debito pubblico detenuto per l’80% da fondi europei d’emergenza, paesi membri, Fmi, Bce, né pagherà gli interessi dovuti. Si toglie in questo modo la pietra che ha al collo, la spesa

pubblica greca non viene intascata dalla finanza, l’economia riparte. Se la Bce fosse d’accordo, continuerebbe a alimentare la liquidità delle banche greche, e troverebbe il modo di gestire senza troppi danni i 322 miliardi di euro non ripa- gati. Il grande vantaggio sarebbe evitare il contagio: nessuna speculazione sulla fine dell’euro. Ma un precedente pericoloso di vittoria di un paese indebitato e un trionfo politico per Syriza che Berlino difficilmente potrebbe permettere. L’alternativa opposta – un’uscita dall’euro senza insolvenza – darebbe ad Atene solo svantaggi: svalutazione e un debito sempre più impossibile da restituire.

Resta l’uscita dall’euro accompagnata dal default sul debito pubblico. L’Eu- rozona e Berlino si liberano del paese membro indisciplinato, Atene riprende la sua autonomia di politica economica con una dracma che si svaluta immedia- tamente (magari del 40%), il debito che non si paga, i mercati finanziari che dichiarano guerra alla Grecia, l’economia che crolla per poi riprendersi. Berlino tira un sospiro di sollievo, ma a Roma, Madrid e Lisbona e nei piccoli paesi dell’est europeo inizia l’incubo: spread alle stelle, scommesse su chi sarà il pros- simo a uscire, assalto della speculazione. A meno che l’eurozona garantisca a tutti i soci «buoni» dell’euro le garanzie che avrebbero potuto salvare la Grecia e l’Europa fin dall’inizio: mutualizzazione del debito, azzeramento dello spread con gli interventi della Bce, blocco della speculazione della finanza.

Come si realizza questa rottura? Prima un periodo di attesa e le rassicura- zioni sulla stabilità dell’euro e dell’Europa, poi si aspetta la chiusura di borse e banche il venerdì sera, il sabato e domenica si bloccano i movimenti di capitale e – se torna la dracma – si forniscono le banche delle nuove banconote fresche di stampa in arrivo da Mosca o Pechino. Nel week end si annuncia la rottura, a mercati chiusi, e il lunedì il Consiglio europeo sancisce il cambiamento, spergiu- rando sull’unità dell’Europa e dell’euro. È quello che è successo nei giorni scorsi e che potrebbe succedere proprio in queste ore. Oppure tutto questo si prepara per il prossimo fine settimana, alla scadenza del rimborso per il Fondo moneta- rio. O magari nel mezzo dell’estate, come la fine di Bretton Woods il 15 agosto 1971.

Un interrogativo decisivo è se la rottura avviene in forma concordata – una separazione consensuale – o al culmine di uno scontro politico. Nel primo caso l’Europa potrebbe sopravvivere e lo choc in una Grecia impoverita, ma non più oppressa, potrebbe essere superato in qualche mese. Nel secondo caso potrebbe succedere qualunque cosa, un avvitamento caotico che farebbe a pezzi l’Eu-

ropa insieme alla Grecia. Lo scenario più drammatico sarebbe proprio questo: nessuna proposta al Consiglio europeo di lunedì, nessun «piano B», nessun accordo nemmeno su come separarsi, l’Europa che si accanisce contro la culla in cui è nata, una crisi verticale dell’economia greca, una strategia della tensione contro il governo di Syriza, un contagio che dal debito si estende al collasso politico dell’Europa. C’è qualche margine per evitare questo peggio. E per soste- nere fino in fondo le ragioni di Alexis Tsipras e della Grecia, con l’euro o con la dracma. Che sono le ragioni della democrazia, ad Atene come in Europa.

il manifesto 19 giugno 2015

Che cosa succede dopo il voto di Atene

Nel documento Senza presente e senza futuro (pagine 148-156)