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Tra unità a sinistra e populismo Paolo Gerbaudo

Nel documento Senza presente e senza futuro (pagine 140-148)

Gli ultimi sette anni di lotta contro crisi e austerity in Europa hanno evidenziato la presenza di due strategie organizzative contrapposte: l’unità a sinistra o il populismo. Il modello ibrido di Syriza

Unire la sinistra o costruire il popolo? Gli ultimi sette anni di lotta contro crisi e austerity in Europa hanno evidenziato la presenza di due strategie organizza- tive contrapposte, che si sono manifestate sia nel campo dei movimenti sociali che nel campo della politica di partito: l’unità a sinistra o il populismo. Queste strategie riflettono diverse «diagnosi» differenti interpretazioni della natura della presente crisi, e propongono diverse ricette organizzative. L’unità a sini- stra punta su una logica di coalizione, capace di alleare vari attori sociali e politici pre-costituiti (movimenti, partiti, associazioni); il populismo invece scommette su una logica di fusione, proponendo di reintegrare quella che Emanuele Ferra- gina ha chiamato la «maggioranza invisibile», i «disorganizzati», i non garanti e i non rappresentati dentro un soggetto sociale politico unitario, che parli a nome del «popolo tutto».

La strategia dell’unità a sinistra è quella più longeva e riconoscibile nel contesto europeo. In fondo si tratta della stessa logica che portò negli anni ’90 alla creazione di vari «partiti di coalizione» di sinistra come Izquierda Unida in Spagna, e Synaspismos in Grecia, e per certi versi Rifondazione Comunista in Italia. Formazioni sorte per unire le forze di una sinistra altrimenti destinata alla sconfitta a causa della sua proverbiale frammentazione. Ed era pure la logica di fondo del movimento anti-globalizzazione, con il suo tentativo di mettere assieme le diverse anime della «società civile globale»: sindacati, le ONG, i movi- menti ambientalisti, partiti di sinistra e gruppi autonomi.

Dall’inizio della crisi economica del 2008 questa strategia ha dato vita a nuove coalizioni politiche e sociali contro l’austerità. Nel campo politico ne è esempio la creazione del Front de Gauche in Francia, che ha unito diversi partiti opposti alle politiche di austerità. Nel campo della società civile questa logica di coalizione si è vista all’opera nelle proteste di Blockupy, contro la Banca Centrale a Francoforte che ha portato assieme organizzazioni come Attac, vari

sindacati tedeschi, e gruppi autonomi e anarchici, e nel contesto italiano con il tentativo di Uniti Contro la crisi nel 2011 e la recente creazione della Coalizione Sociale di Landini.

La strategia populista, che trae ispirazione dall’ondata rosa del populismo socialista latinoamericano, costituisce invece la vera novità di questo ciclo di lotta. Una strategia populista si è manifestata invece nella creazione di nuovi attori sociali e politici, che hanno cercato di dissociarsi dal tradizionale imma- ginario della sinistra, appellandosi a masse di cittadini atomizzati che non si riconoscono in alcun blocco sociale pre-costituito. Questa strategia si è mani- festata nel contesto dei movimenti, nelle azioni degli indignados spagnoli, dei loro cugini grechi, i polites aganaktismenoi (cittadini indignati), e il modo in cui appellandosi all’insieme della cittadinanza contro «politici e banchieri» sono riusciti a portare in piazza milioni di persone, molte delle quali alla loro prima esperienza di protesta. Infine, la creazione di Podemos, con il suo tentativo di andare oltre la sinistra tradizionale spagnola e creare un soggetto politico unitario che potesse unire categorie sociali molto diverse attorno a una comune identità popolare, ha dimostrato la potenza della strategia populista e della sua logica di fusione pure nel campo della politica elettorale.

È evidente che queste due strategie sono per molti versi contrapposte. Laddove l’unità a sinistra punta a «inanellare» nuclei organizzati pre-costitu- iti, la logica populista ha l’ambizione di creare ex-novo una rappresentanza del popolo.

Laddove l’unità a sinistra tende a cucire assieme simboli e discorsi che rappre- sentano le diverse anime della sinistra frammentata – comunisti, trotzkisti, verdi, femministe, ambientalisti – la logica populista utilizza quelli che il filosofo Erne- sto Laclau chiamava «significanti vuoti», simboli unificanti, apparentemente onnicomprensivi – popolo, gente, cittadini – che vogliono interpellare la massa dei cittadini atomizzati non garanti, dei non rappresentati, dei non organizzati. Eppure esistono modalità ibride e possibili transizioni tra queste due tipologie.

L’esempio più evidente è il caso di Syriza e della sua recente trasforma- zione. Le radici del partito affondano in Synaspismos la coalizione della Sinistra, dei Movimenti e dell’Ecologia fondata nel 1991. Tuttavia sotto la leadership di Tsipras il partito ha operato una «svolta populista», vista sia nel cambiamento del discorso e del linguaggio politico, sia nel contesto organizzativo. Il momento decisivo di trasformazione è stata la svolta verso «un partito unitario» (piuttosto

che un partito di coalizione) celebrato nel congresso di luglio 2013, che portò alla dissoluzione ufficiali dei partiti membri. Si tratta di una mossa chiaramente ispirata dal movimento degli aganaktismenoi, e dal modo in cui hanno contribu- ito in aprire uno «spazio popolare» che una pura strategia di unità a sinistra non avrebbe potuto rappresentare.

Sia la strategia di unità a sinistra che la strategia populista contengono poten- zialità e pericoli. La logica dell’unita a sinistra offre la possibilità di costruire un fronte relativamente ampio ma al tempo stesso omogeneo ideologicamente. Tuttavia corre il rischio classico della «sinistra-sinistra» di rinchiudersi in un angolo. La logica populista offre una strategia «pigliatutto» che risponde bene alla presente fase di crisi associativa e crisi di appartenenza. Ma al tempo stesso è molto esposta ai cambiamenti di umore dell’opinione pubblica, e alla insta- bilità delle emozioni collettive. In ogni caso concreto la scelta tra queste due strategie dovrebbe rispondere a una fondamentale considerazione strategica. Qual è in questa fase politica il compito più urgente e il cammino più credibile per combattere la politica d’austerità? Unire le forze di quelli che ancora si rico- noscono in identità di sinistra e con livelli relativamente alti di appartenenza e rappresentanza? O dare voce alla «maggioranza invisibile» dei disorganizzati, dei non garantiti e dei non rappresentati?

il manifesto 27 marzo 2015

Domenico Mario Nuti

Una domanda di uscita unilaterale della Grecia dall’Ue avrebbe effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per eventuali rinegoziazioni. Ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a più miti consigli i falchi della troika che hanno traumatizzato il paese

Nei panni di Alexis Tsipras farei domanda immediatamente perchè la Grecia lasciasse unilateralmente l’Unione europea, come previsto dall’art. 50 del Tue (versione consolidata del Trattato sull’Unione europea, Gazzetta Ufficiale dell’U-

nione Europea, C 115/15, 9/5/2008).

Dall’inizio della crisi della Grecia nel 2010 la Troika (scusatemi, ora si deve dire «le istituzioni internazionali») hanno impegnato nel suo salvataggio circa 245 miliardi di euro, ossia più di quanto sarebbe stato sufficiente a quell’epoca a estinguere l’intero debito greco. Tutti sanno che questi fondi non hanno bene- ficiato i greci ma sono andati quasi interamente a salvare le banche francesi, svizzere e tedesche dalla loro massiccia esposizione ai titoli di stato greci. E nel Financial Times del 21 aprile Martin Wolf demistifica la «mitologia» greca, tra cui il mito che «la Grecia non ha fatto nulla»:

«La Grecia ha subìto un enorme aggiustamento dei saldi del suo bilancio pubblico e dei suoi conti con l’estero. Tra il 2009 e il 2014, il saldo primario di bilancio (al lordo degli interessi) si è ridotto del 12 per cento del Pil, il disavanzo di bilancio strutturale del 20 per cento del Pil e il saldo delle partite correnti del 12 per cento del Pil.»

«Tra il primo trimestre del 2008 e l’ultimo del 2013, la spesa reale per l’eco- nomia greca è diminuita del 35 per cento e il Pil del 27 per cento, mentre la disoccupazione ha raggiunto il 28 per cento della forza lavoro. Questi sono aggiustamenti enormi. In effetti, una delle tragedie dell’impasse sulle condizioni per gli aiuti è che l’aggiustamento è già avvenuto. La Grecia non ha bisogno di risorse aggiuntive.»

Il costo di tali aggiustamenti per i greci sono stati immensi. Il tasso medio di disoccupazione al 28% ha raggiunto il 48% per la disoccupazione giova- nile. Lo smantellamento della contrattazione collettiva ha abbassato i salari reali

orari del 25% nel 2014; il salario minimo è sceso al livello degli anni 1970. La pensione minima è scesa al di sotto della soglia di povertà. Ben il 35,7% della popolazione e il 44,1% dei bambini di età compresa da 11 a 15 anni sono ora a rischio di povertà o di esclusione sociale. È peggiorata la sanità e sono aumentati significativamente i suicidi. E Gechert e Rannenberg (della Fondazione tede- sca Hans Böckler) dimostrano che senza l’austerità l’economia greca avrebbe sofferto solo un periodo di ristagno, evitando la profonda recessione, mentre l’aumento delle imposte senza tagli alla spesa pubblica sarebbe stato molto più efficace nel ridurre il rapporto debito/Pil.

Un altro mito sfatato da Martin Wolf è che la Grecia pagherà il suo debito per intero. In seguito al consolidamento fiscale e al peso degli interventi di salva- taggio il debito pubblico greco è passato da circa il 120% del Pil nel 2010 a oltre il 177% di oggi. Così la Grecia ha bisogno o di un’ulteriore riduzione del debito o, al fine di continuare il servizio del debito, ha bisogno dei 7,2 miliardi di euro di assistenza che avrebbe dovuto ricevere già l’anno scorso ma che non sono stati erogati a causa di presunti ritardi o inadempimenti nella realizza- zione di «riforme strutturali» (licenziamenti, privatizzazioni, tagli pensionistici e di welfare) che erano state accettate nel Memorandum d’intesa negoziato dal precedente governo di destra con le «istituzioni internazionali».

Dopo le elezioni del 25 gennaio il nuovo governo, eletto democratica- mente su una specifica campagna elettorale anti-austerità, e che oggi secondo i sondaggi comanda con il sostegno dell’80% della popolazione, il 20 febbraio ha raggiunto un accordo di principio con le «istituzioni» per l’esborso dei € 7,2 miliardi residui, a condizione di riforme strutturali un po’ diverse, ma ancora non specificate. Tuttavia ci sono state continue dispute sul fatto se le proposte greche di riforma fossero o meno sufficienti a giustificare l’esborso dei fondi residui.

Fino a oggi la Grecia ha pagato puntualmente alla scadenza interessi e ammortamento del debito, ad esempio $ 450mn dovuti al Fmi il 9 aprile e una serie di buoni del tesoro giunti alla scadenza a meta’ aprile. Ma il 1° maggio è scaduta una rata di 203 milioni di euro e il 12 maggio ne scade un’altra di 770 milioni, oltre a 1,6 miliardi di euro nel mese di giugno, tutti dovuti al Fmi, mentre anche una parte del debito con la Bce scade in maggio e giugno. Il governo greco ha raschiato il fondo del barile procedendo alla requisizione delle disponibilità liquide delle imprese statali e delle autorità locali. E ha già

annunciato che non è in grado di effettuare questi pagamenti, a meno che non sospenda il pagamento delle pensioni e dei salari e del settore pubblico alla fine di aprile. Senza l’accesso a questi € 7,2 miliardi la Grecia rischia il default sui suoi pagamenti dovuti al Fmi e alla Bce.

Il 15 aprile il Ft ha riferito che dei funzionari greci avevano proposto infor- malmente al Fmi di rinviare il rimborso dei prestiti dovuti a maggio, ma gli è stato detto che una rinegoziazione non era possibile; addirittura sono stati persuasi a non fare quella richiesta ufficialmente, presumibilmente per evitare un aperto rifiuto.

Allo stesso tempo, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble in un’intervista ha praticamente escluso che nella riunione dell’Eurogruppo a Riga il 24 aprile un accordo potesse sbloccare fondi di salvataggio per Atene. «Non si possono gettare centinaia di miliardi ... in un pozzo senza fondo.»

Tuttavia sempre il 15 aprile Die Zeit ha riferito che Angela Merkel ora potrebbe appoggiare misure di emergenza che darebbero alla Grecia l’accesso continuato alla Assistenza di Liquidità di Emergenza anche in caso di default. La possibilità che un default greco non sia seguito da Grexit viene discussa sempre più frequentemente (vedi ad esempio Wolfgang Munchau e Martin Wolf sul Financial Times). Potrebbe essere possibile, forse, ma sarebbe sempre molto problematica, disordinata e costosa, e se ci fosse la buona volontà sufficiente a rendere possibile questa soluzione sarebbe molto più efficiente semplicemente erogare i benedetti 7,2 miliardi di euro in sospeso.

Il Financial Times on line del 18 aprile riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi ha dichiarato alla riunione di primavera del Fmi che l’Eurozona era oggi meglio attrezzata di quanto non fosse in passato (nel 2010, 2011 e 2012) per affrontare una nuova crisi greca, ma ha avvertito che, se la situazione dovesse deteriorarsi gravemente, si navigherebbe in «acque inesplorate».

Il 21 aprile BloombergBusiness riferiva che «La Banca centrale europea sta studiando misure per la limitazione della Assistenza di Liquidità di Emergenza alle banche greche, data la crescente resistenza in seno al Consiglio direttivo ad aiutare ulteriormente i paesi debitori in difficoltà». Un infausto presagio.

I costi di una uscita greca dall’euro (Grexit) sarebbero molto gravi non solo per la Grecia ma per tutta la eurozona e oltre i suoi confini, ma il ritiro unila- terale da tutta l’Unione europea piuttosto che semplicemente dalla zona euro avrebbe più senso. Una domanda di uscita unilaterale dall’Unione avrebbe

effetto solo due anni dopo, lasciando ampio tempo per un possibile ritiro di tale domanda e per eventuali rinegoziazioni, ma potrebbe essere un modo efficace e rapido di far venire a piu’ miti consigli Schäuble e gli altri falchi della troika che hanno traumatizzato la Grecia spingendola verso il default a tutti i costi. A questo punto la Grecia dovrebbe e potrebbe riprendere l’iniziativa, fra l’altro anche per evitare una crisi di governo interna.

Particolarmente deplorevole è la doppiezza e malafede del Fmi, che in Grecia e altrove su scala globale ha imposto incessantemente il consolidamento fiscale e le riforme strutturali (un eufemismo per la libertà delle imprese di licenziare i dipendenti e per la sistematica distruzione dello stato sociale), ma allo stesso tempo hanno svolto un ruolo di primo piano nello screditare sia il consolidamento fiscale sia le «riforme» come strumenti di politica economica per combattere una recessione.

Il World Economic Outlook del Fmi dell’ottobre 2012 (Box 3.1 insolitamente firmata dal suo Chief Economist Olivier J. Blanchard e dal Senior Economist David Leigh, presumibilmente per suggerire che le loro opinioni sono perso- nali e non ufficiali) ha riveduto al rialzo le precedenti stime dei moltiplicatori fiscali prevalenti nei quaranta anni precedenti, per diverse ragioni. In primo luogo, l’inefficacia di una espansione monetaria che possa compensare il conso- lidamento in prossimità di un tasso di interesse vicino allo zero; in secondo luogo, la mancanza di opportunità di svalutazione del tasso di cambio soprat- tutto nell’Eurozona; in terzo luogo, l’esistenza di un ampio divario tra il reddito potenziale e quello reale (dato che i moltiplicatori fiscali sono più elevati in una recessione che in un boom) e, infine, il ricorso simultaneo al consolidamento in molti paesi. Tale revisione dei moltiplicatori previsti implicava una revisione al rialzo dei costi del consolidamento fiscale, fino al punto di teorizzare che gli aumenti di imposte e tagli di spesa in realtà avrebbero fatto aumentare, anzi- che’ diminuire, il rapporto tra debito e Pil, stabilendo così un circolo vizioso. Questo, naturalmente, è quello che è successo puntualmente in Grecia e in altre economie fortemente indebitate – come l’Italia – a seguito di successivi consoli- damenti fiscali severi.

Inoltre il World Economic Outlook IMF 2015 (Cap. 3, Box 3.5 su gli effetti delle

riforme strutturali sulla produttività totale dei fattori, pp. 104-107) pubblicato il 14

aprile scorso riconosce candidamente, sulla base dell’ampia evidenza econome- trica disponibile, che la produttività totale dei fattori Fmi può essere aumentata

utilizzando manodopera più qualificata e tecnologie informatiche e di comuni- cazione (ICT), investendo di più in ricerca e sviluppo e abbassando il grado di regolamentazione nei mercati dei prodotti (soprattutto dei servizi). Al contrario, il Fmi non trova alcun effetto statisticamente significativo di una liberalizza- zione del mercato del lavoro sulla produttività totale dei fattori (vedi anche Ronald Janssen su Europa sociale).

Tale doppiezza schizofrenica da parte del Fmi non ha nemmeno l’ignoranza come concepile giustificazione. Un ritiro unilaterale greco dall’Unione Europea farebbe rinsavire molta gente anche a Washington e non solo a Bruxelles, Fran- coforte e Berlino. Forza Alexis e Yanis, fatelo anche a nome di tutti noi e non solo per conto della Grecia.

L’Unione alla prova della Grecia

Nel documento Senza presente e senza futuro (pagine 140-148)