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La concentrazione del capitale (1870-1913)

A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento si realizzò quella che viene definita come la prima ondata di globalizzazione della storia, che si accompagnò, e fu al tempo stessa favorita, dalla nascita degli imperi coloniali delle grandi potenze. L’ambiente istituzionale ed economico tra il 1870 e il 1914 era, quindi, particolarmente favorevole allo sviluppo di centri finanziari internazionali. Il ruolo dominante spettava ancora alla City di Londra, capitale dell’economia dominante all’interno del contesto globalizzato, seguita al secondo posto per importanza da Parigi ed in seguito da Berlino e New York. La Francia, tuttavia, cominciava a declinare rapidamente in quanto ad importanza internazionale, e veniva sempre più relegata a ruolo regionale, come erano regionali le zone di influenza degli altri centri minori, come Francoforte, Ginevra, Zurigo e Milano.

Tre cambiamenti fondamentali si realizzarono in questo periodo in connessione con la rapida globalizzazione del sistema economico e finanziario. Il primo è di tipo strettamente quantitativo: i flussi di capitale esportato raggiunsero, infatti, somme mai viste in precedenza. Il secondo fu, invece, la maggiore integrazione fra i diversi centri finanziari mondiali, resa possibile dall’avanzamento tecnologico nel sistema dei trasporti, quindi delle informazioni, e dalla libera circolazione di capitali. Il terzo ed ultimo mutamento fu l’aumento del numero dei centri finanziari mondiali, all’interno dei quali, come detto, Londra rimase tuttavia il più importante fino alla Prima guerra mondiale.

In particolar modo il flusso di capitali a livello internazionale era il centro della crescita delle attività economiche e finanziarie. La quantità di capitale inglese investito all’estero, ad esempio, quadruplicò tra il 1875 e il 1914, mentre quello francese triplicò. Le attività all’estero erano per la maggior parte, circa il 65%, investimenti che prendevano la forma di attività di portafoglio in titoli di governi stranieri, obbligazioni di ferrovie, in particolar modo negli Stati Uniti, e titoli di imprese di forniture pubbliche.

Il flusso di capitali raggiunse tutto il mondo, anche se l’Europa rimase l’area maggioritaria, seguita dall’America del Nord, dall’America centro-meridionale,

dall’Asia e dall’Africa. Tuttavia, i diversi centri finanziari si specializzarono rapidamente anche per aree geografiche: se, infatti, i capitali inglesi erano indirizzati per il 40% nei territori dell’Impero britannico, gli investitori francesi privilegiarono investimenti in Europa, Medio Oriente, Impero ottomano ed Egitto, che insieme costituivano il 60% del totale investito.

3.1 Il centro: Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti La Gran Bretagna

Fino al 1914 la Gran Bretagna rimase l’economia egemone nel sistema economico e finanziario mondiale. Anche se altre economie nazionali, come la statunitense e la tedesca, cominciavano in quel periodo a crescere a tal punto da mettere in discussione la supremazia industriale inglese, Londra rimase in posizione dominante nei settori del commercio estero, che rappresentava ancora il 14% del totale nel 1913, con la marina commerciale più grande al mondo, e nei settori dei servizi e della finanza, che vedevano ancora la Gran Bretagna al centro dei sistemi dei pagamenti internazionali grazie al ruolo delle sterlina, cardine del sistema monetario mondiale in uso all’epoca.

Nell’ultimo quarto dell’Ottocento e fino al 1914, la supremazia finanziaria della City di Londra faceva perno sul suo sistema bancario che, insieme ad altre tipologie di intermediari finanziari come le compagnie di assicurazione e le società finanziarie, creavano un sistema specializzato e fortemente orientato alle attività internazionali. Le parti di cui il sistema finanziario inglese si componeva tra il 1870 e il 1914, erano tra loro complementari, creando così una forte omogeneità che garantiva il buon funzionamento dell’intera struttura del credito. Ognuna delle principali istituzioni finanziarie della City rappresentava un ingranaggio essenziale. Uno di questi ingranaggi era rappresentato dalle mercahnt bank, che finanziavano la maggior parte degli scambi internazionali.

Il volume delle accettazioni sul mercato londinese crebbe, tra il 1875 e il 1913, di circa il 120%, passando da circa 50-60 milioni di sterline a 140. Le

merchant bank mantennero anche il predominio dell’altra maggiore attività

finanziaria londinese, cioè l’emissione dei prestiti esteri. Tra il 1870 e il 1914, infatti, esse furono incaricate del 37% delle emissioni collocate sul mercato, superando la quota di qualsiasi altra tipologia di banca.

Nonostante il mercato bancario londinese divenisse, per via della sua forza di polo di attrazione mondiale, più competitivo con il passare del tempo, le grandi banche mercantili inglesi riuscirono a mantenere il predominio almeno fino alla Prima guerra mondiale. È questo il caso, ad esempio, delle note «Big Five»: Rothschild, Baring, Morgan, Schroder e Kleinwort. La maggiore di esse era certamente la N.M. Rothschild & Sons, che nel 1873 aveva un capitale triplo della sua più vicina rivale, la Baring Brothers. Alla fine dell’Ottocento, tuttavia, la Rothschild subì un declino, che in realtà fu solo relativo, in quanto essa crebbe ma non con la rapidità delle sue concorrenti.

Tra gli anni ’80 e ’90, i Rothschild di Londra, in cooperazione con il ramo parigino della famiglia, cominciarono a costruire il proprio impero minerario, investendo in oro, diamanti, metalli non ferrosi e petrolio, e mantennero comunque saldamente il controllo sulle emissioni del debito pubblico estero. Nel periodo che va dal 1865 al 1914, infatti, si calcola che i Rothschild si fecero carico di emettere quasi il 75% dei prestiti di Stati lanciati sul mercato inglese.

La grande rivale dei Rothschild, la Baring Brothers, ebbe vicende altalenanti in questo periodo. Dopo una grande crescita negli anni ’70 e ’80, subentrò una forte crisi, dovuta in particolar ad alcuni investimenti non andati a buon fine in Argentina, che ne causarono la caduta nel 1890. Troppo grande per poter fallire, in quanto le conseguenze sarebbero state disastrose per tutto il mercato finanziario inglese e mondiale, la Baring Brothers venne salvata dalla comunità finanziaria, guidata dalla Banca d’Inghilterra, e riorganizzata sotto forma di società a responsabilità limitata.

Proprio la costituzione di banche in società per azioni a responsabilità limitata fu una delle novità del periodo preso in considerazione. Il mondo bancario inglese subì infatti un violento scossone nel 1878, quando il fallimento della City of Glasgow Bank ebbe numerose ripercussioni sull’intero sistema. La City of Glasgow Bank era una banca costituita in società per azioni senza responsabilità limitata. I suoi azionisti, quindi, vennero chiamati a farsi carico dei debiti della banca dopo la sua bancarotta per ben due volte. Questi eventi, che portarono a conclusione un dibattito avviato sin dagli anni ’30, dimostrando tutti gli svantaggi derivati dalla non introduzione della responsabilità limitata nella formazione delle banche in società per azioni.

Con i Companies Acts del 1879 venne inserita la possibilità di mutare i regolamenti societari per inserire la responsabilità limitata nelle già esistenti banche costituite in società per azioni. Lo shock provocato dal fallimento della banca scozzese, e i danni che i debiti e la bancarotta di quest’ultima causarono agli azionisti, fecero si che durante gli anni ’80 ben 27 istituti bancari inserirono nei loro statuti la responsabilità limitata. I vantaggi di quest’ultima erano, infatti, ormai divenuti così evidenti che negli anni ’90 del secolo era davvero raro trovare una banca che non ne facesse uso.

La crisi della Baring nel 1890 diede il colpo finale alle maggiori banche di deposito private, che, già in crisi nel periodo precedente per l’avanzare delle grandi banche anonime, cominciarono a scomparire una dopo l’altra nel periodo fino al 1914. In questo periodo le banche costituite in società per azioni con responsabilità limitata cominciarono a crescere, costruendo le proprie reti di filiali nelle province. Le prime a muoversi in questa direzione furono la National Provincial Bank e la London and County Bank che, insieme alla Westminster Bank, presente solo a Londra, divennero le tre più grandi banche del paese sino alla fine degli anni ’80.

Tra il 1870 e il 1914 vi fu anche un mutamento nelle dimensioni delle maggiori banche, che crebbero in maniera esponenziale. Se, ad esempio, nel 1891 i depositi della National Provincial Bank ammontavano a 41 milioni di sterline, quelli della Midland Bank, nel 1913, toccavano la cifra di 216 milioni.

Parallelamente, si assistette alla crescita del numero delle filiali che queste grandi banche aprivano nelle province inglesi. Tuttavia, per quanto riguardava la tipologia di attività bancaria svolta, queste nuove banche non erano molto diverse da quelle che le avevano precedute nel corso dell’Ottocento. L’attività principale, infatti, rimaneva il credito a breve termine, che andava quindi a sostenere gran parte delle attività finanziarie del mercato della City di Londra. L’altro grande settore all’interno del quale il mondo finanziario londinese dominava erano le assicurazioni. Soprattutto dagli anni ’70 in poi, l’attività assicurativa aumentò notevolmente: l’ammontare dei premi per rischio d’incendio, ad esempio, crebbe da 4 a 29 milioni di sterline nel periodo compreso tra il 1870 e il 1914, mentre i premi per le assicurazioni sulla vita aumentò da 10 a 29 milioni. Tale crescita dei volumi fu accompagnata da una maggior concentrazione. Le dieci più grandi compagnie di assicurazioni, tra cui spiccavano la Royal, la Commercial Union raccoglievano il 70% dei premi in incendi; per quanto concerneva le assicurazioni marittime, i Lloyd’s controllavano praticamente l’intero mercato; infine, per quanto riguardava le assicurazioni sulla vita, la Prudential controllava, da sola, più della metà del mercato.

Contestualmente, stava mutando anche la tipologia degli investimenti operati dalle compagnie assicurative, che tendevano, nell’ultimo quarto di secolo, a diversificare il collocamento dei propri guadagni. Si assistette, innanzi tutto, ad un allargamento degli investimenti all’estero, che passò dal 7% del 1870 al 40% nel 1914; inoltre, aumentò la quota detenuta di azioni di imprese private, che nel medesimo lasso di tempo salì dal 13% al 40% del totale dei fondi investiti. Tale diversificazione avvenne per la maggior parte a scapito dei tradizionali investimenti delle compagnie di assicurazione, che consisteva in titoli di Stato, prestiti a enti locali e obbligazioni ferroviarie britanniche, il cui rendimento era in costante calo.

Ultimo, fondamentale tassello del sistema finanziario inglese della tarda età vittoriana era ovviamente la Banca d’Inghilterra. Con la medesima struttura organizzativa prevista dal Bank Charter Act del 1844, la Banca d’Inghilterra, a causa dell’enorme crescita del mercato e dello sviluppo delle banche di deposito che, come visto, stavano diventando in questi anni dei veri e propri colossi, aveva sempre più difficoltà a gestire il mercato monetario attraverso solamente lo strumento del tasso di sconto. Si cominciò, quindi, a far ricorso ad altri mezzi al fine di rendere efficace la propria politica monetaria, in particolar modo prendendo in prestito sul mercato con lo scopo di far salire il costo del denaro, attraendo così oro a Londra. In questi anni, comunque, la Banca d’Inghilterra controllava saldamente la comunità finanziaria della City di Londra, come dimostra la guida che essa, attraverso principalmente il suo governatore William Lidderdale, acquisì nell’operazione di salvataggio della Baring Brothers nel 1890-1891.

La Germania

Dopo la vittoria sulla Francia del 1871, in Germania si realizzò contemporaneamente l’unificazione politica, l’unificazione monetaria, e la

costruzione di una banca centrale che avesse il compito di regolare il nuovo sistema finanziario nazionale.

La nuova istituzione venne creata per iniziativa del Reichstag. La Reichsbank nacque nel 1876 attraverso la trasformazione della principale banca prussiana con sede a Berline, la Preussische Bank, che rifletteva la posizione dominante della Prussia e di Berlino all’interno del nuovo stato. Pur avendo la supremazia come organo di vigilanza e di emissione, la legge consentiva la sopravvivenza di altri trentadue banche con diritto di emissione, limitando tuttavia questo privilegio con vincoli territoriali particolarmente stringenti.

L’unificazione monetaria, che giunse a conclusione con l’adozione di un’unica moneta tedesca convertibile in oro, il marco, era comunque già in moto dagli anni Sessanta in quanto il tallero prussiano si era diffuso in tutti gli Stati tedeschi, diventando la moneta di uso comune. Modellata seguendo il modello inglese del Bank Charter Act del 1844, la Reichsbank doveva mantenere, per legge, una riserva pari a un terzo delle proprie passività in cartamoneta. Era tuttavia prevista l’elusione di questo limite attraverso una multa pari al 5% delle eccedenze.

L’adozione del gold standard e il rapido sviluppo economico tedesco, resero il marco una delle valute di riserva più pregiate a livello internazionale al fianco della sterlina e del franco, rafforzando la posizione della Germania nei campi del finanziamento del commercio estero e nelle emissioni di prestiti stranieri. Sulla piazza berlinese gli affari erano dominati dalle grandi banche. Al vertice del sistema vi erano le cosiddette «quattro D»: Deutsche Bank, Dresdner Bank, Disconto Gesellschaft e Darmstadter Bank. Nel 1914, esse comparivano tra le venti maggiori banche del mondo e secondo alcune classifiche la Deutsche Bank sarebbe stata al primo posto.

La struttura del sistema bancario tedesco era tuttavia vasta e andava al di là di questi grandi istituti, che tuttavia, come vedremo, giocarono un ruolo essenziale in particolar modo dagli anni Ottanta in poi. Le nove maggiori banche berlinesi raccoglievano, secondo una stima del 1913, solamente il 12% delle risorse bancarie nazionali. Il grosso dei depositi era raccolto da centinaia di banche anonime territoriali e da altre tipologie di istituti, come casse di risparmio, istituti di credito ipotecario e banche popolari.

Ciononostante, tre fattori determinavano l’importanza capitale delle grandi banche tedesche. In primo luogo, fondamentali si rivelarono le loro dimensioni e i grandi capitali a disposizione, acquisiti grazie ad un peculiare processo di concentrazione del settore bancario, attraverso il quale presero forma delle comunità di interessi, realizzate tramite compartecipazione ai profitti e partecipazioni incrociate, più che mediante fusioni e acquisizioni. La Deutsche Bank, ad esempio, nel 1904 si trovava alla guida di un gruppo di quattordici banche, il cui capitale ammontava a 700 milioni di marchi.

In secondo luogo, le grandi banche tedesche erano quelle che vengono tradizionalmente definite come banche universali, che univano quindi l’attività di investimento a quella di deposito. In questo modo, questi istituti di credito

partecipavano sia al finanziamento dell’industria nazionale, sia a grandi operazioni bancarie e finanziarie internazionali, con particolare riferimento all’emissione di prestiti esteri. Queste attività erano esclusivo appannaggio delle grandi banche, che escludevano totalmente le altre banche locali e i diversi istituti di credito presenti nel paese da questo genere di affari.

Fino ancora agli anni Settanta dell’Ottocento, i prestiti internazionali vennero emessi soprattutto dalle banche private. Tuttavia la loro importanza era in fase discendente e dagli anni Ottanta in poi le grandi banche conquistarono il predominio di tali operazioni finanziarie. Da quel momento in poi, in particolare la Deutsche Bank e la Disconto Gesellschaft dominarono i sindacati di emissione, soprattutto verso i paesi dell’America latina, oltre che verso la Cina e l’Impero ottomano.

In Germania, fortissimi erano i legami tra le grandi banche e l’industria, come ad esempio nei casi della Siemens & Halske e la Deutsche Bank; dell’Aeg e della Berliner Handels-Gesellschaft; infine della Gelsenkirchen Bergwerkgelleschaft e la Disconto Gesellschaft. I rapporti tra grandi industrie e grandi banche era stretto e reciproco: gli industriali erano rappresentati all’interno dei consigli delle banche e, viceversa, le grandi banche sedevano nei consigli delle imprese.

Gustav Mevissen rappresenta un tipico esempio di queste strette relazioni tra finanza e imprenditoria tedesca nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Egli partecipava, ad esempio, ai consigli di sei imprese minerarie – e di due di esse era nel comitato esecutivo – e di due società industriali, di cui era anche presidente; era, inoltre, presidente della Darmstadter Bank e della Luxemburger Internationale Bank; membro del consiglio di amministrazione dello Schaaffhausenscher Bankverein, della Bank fur Suddetuschland, della Kolner Privatbank e della Berliner HAndels-Gesellschaft, nonché, infine, della società ferroviara Rheinische Eisenbahngesellschaft.

Nacquero in questi anni, a Berlino, anche alcune overseas bank, anche se in numero decisamente minore rispetto a quelle sorte a Londra e Parigi. Nate con l’obiettivo di finanziare il commercio e gli investimenti esteri tedeschi, esse furono tutte fondate dalle grandi banche. La Deutsche Bank, ad esempio, fondò con propri capitali nel 1886 la Deutsche Uberseeische Bank per gestire gli affari in America del sud, e la Deutsch-Asiatische Bank nel 1889, in collaborazione con la Disconto Gesellschaft e con Beichroder, uno degli ultimi esponenti del settore bancario privato.

Gli Stati Uniti

Negli anni tra il 1870 e il 1914 si assistette al sorpasso degli Stati Uniti sull’Inghilterra come principale potenza economica del mondo. Se già nel 1870 il Pil statunitense superava di poco quello inglese, che rimaneva comunque al primo posto nel settore manifatturiero con quasi un terzo dell’intera produzione globale, nel 1914 il Pil degli Stati Uniti eguagliava la somma dei Pil di Inghilterra, Francia e Germania, ovvero le altre tre nazioni più industrializzate del mondo.

In relazione a questa crescita, e al peculiare sistema bancario statunitense, New York divenne uno dei centri finanziari internazionali attraverso un percorso in parte diverso da quello di Londra, Parigi o Berlino. Fino ancora alla fine dell’Ottocento, infatti, gli Stati Uniti erano un paese importatori di capitali, legando quindi inversamente New York ai grandi centri europei che finanziavano il commercio estero statunitense. Quest’ultimo continuò quindi a dipendere in larga parte dai capitali della City di Londra, ponendo la piazza di New York in una posizione ambigua, risolta solamente dopo la Prima guerra mondiale.

La rilevanza del mercato finanziario statunitense, tuttavia, divenne sempre più chiara con il passare dei decenni in particolar modo in relazione a tre tratti: l’ammontare degli investimenti esteri negli Stati Uniti, la grande crescita economica del paese e la centralità di New York come polo finanziario nazionale. Il mercato dei capitali di New York, che crebbe enormemente di importanza soprattutto tra il 1870 e il 1914, andò a finanziare le imprese di enormi dimensioni che caratterizzarono l’ambiente microeconomico statunitense, come ad esempio le ferrovie e, alla fine dell’Ottocento e come conseguenza di un’ondata di fusioni e acquisizioni aziendali, i grandi giganti industriali che ne scaturirono.

Il fulcro del centro finanziario newyorkese era costituito dalle banche d’investimento. Le più importanti di queste ultime erano quelle che avevano i legami più stretti con i centri finanziari europei ed in particolar modo con la piazza di Londra. Anche se quasi tutte le banche d’investimento statunitense vennero fondate nel corso della prima metà dell’Ottocento, fu solo con la conclusione della Guerra civile che esse conobbero un massiccio sviluppo. Esistevano due grandi gruppi di case bancarie, caratterizzati dalle origini sociali e dall’appartenenza etnico-religiosa.

Il primo gruppo era costituito da banchieri di religione protestante e di origine anglo-sassone, come ad esempio la J.P. Morgan, che agli inizi del Novecento era indubbiamente la più grande e importante del paese, la Kidder Peabody & Co. e la Lee Higginson & Co. La J.P. Morgan affondava le sue origini nell’attività di una delle maggiori merchant bank inglesi di Londra, la J.S. Morgan & Co., che portava il nome del padre di John Pierpont Morgan. Quest’ultimo, dopo un apprendistato a Londra e, dal 1858 in poi, a New York, divenne socio nel 1871 della Drexel & Co., della quale assunse il controllo sei anni dopo, alla morte di Anhony J. Drexel, cambiandone il nome in J.P. Morgan & Co. nel 1895. La Kidder Peabody & Co. era invece originaria di Boston, dove aveva iniziato, già dagli anni ’20 del secolo, un’attività di brokeraggio sotto la guida della famiglia Thayer. Alla morte dell’ultimo discendente, tre impiegati dell’azienda rilevarono l’attività, costituendo una nuova società con il nome di Peabody & Co. La casa Lee Higginson & Co., anch’essa di Boston, fondata nel 1845, cominciò ad espandere le proprie attività soprattutto dopo la conclusione della Guerra civile, in particolar modo offrendo i propri servizi di investimento alla ricca clientela degli stati della Nuova Inghilterra, nel

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