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La mobilità dei capitali (1870-1913)

L’allargamento del mercato mondiale creò enormi possibilità di investimento per i capitali del centro del sistema, le cui esportazioni verso tutte le periferie del globo, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, assunsero dimensioni mai conosciute in precedenza. Questa mobilità internazionale dei capitali ruppe la stretta connessione tra risparmio e investimenti nazionali, portando la domanda di investimenti a ricoprire una funzione chiave per lo sviluppo economico.

Storicamente, la domanda di capitali reali e di investimenti è stata determinata principalmente da tre elementi: il primo è costituito dalla ricerca del progresso tecnico al fine di aumentare la produttività attraverso un miglioramento tecnologico delle attrezzature e degli strumenti utilizzati nella produzione; il secondo è relativo alla crescita della produzione, la quale esigeva maggiori capitali pur lasciando invariate le tecniche produttive; infine, il terzo elemento è rappresentato dalla crescita, o dalla redistribuzione, della forza lavoro, la quale generava la necessità di una maggiore e più efficiente rete di infrastrutture, in particolar modo ferrovie, porti, ponti e strade. Posto che la crescita della produttività e della produzione non sono elementi che influiscono fortemente sulla necessità di capitali esteri, in quanto molti dei paesi che per molto tempo sono stati esportatori di capitali hanno conseguito tassi di crescita della produttività maggiori a quelli dei paesi importatori, la causa più probabile per l’aumento della domanda di investimenti tra il 1875 e il 1913 può essere ragionevolmente indicata nella crescita della popolazione, alla quale si associava tutta una serie di necessità e attività economiche e imprenditoriali.

Un’attendibile spiegazione per l’ammontare delle esportazioni europee di capitale verso paesi extra-europei, come quelli dell’America latina e dell’Australia, è quindi connessa alle necessità legate alla generale espansione delle frontiere, nonché ai bisogni che le potenze europee avevano che i nuovi paesi producessero le materie prime e i beni alimentari che esse dovevano importare per i consumatori europei. A tal proposito, quindi, risultava essenziale costruire reti di trasporti, migliorare il rendimento delle terre ed edificare case per le nuove comunità. Le fluttuazioni rilevate nel periodo in questione nei livelli delle esportazioni di capitale possono essere, conseguentemente, connesse anche con le fluttuazioni relative ai flussi migratori a livello globale. È stato rilevato, infatti, che negli anni in cui questi ultimi erano elevati, cresceva anche il volume degli investimenti di capitali europei, che si muovevano inseguendo in qualche modo le migrazioni.

Alla base dei movimenti che hanno permesso la grande estensione del mercato dei capitali e gli investimenti in ogni angolo del globo vi è certamente

la rivoluzione nei settori dei trasporti e delle comunicazioni che cominciò a realizzarsi fin dalla metà dell’Ottocento. Il telegrafo, in particolare, rese più rapida la trasmissione delle informazioni tra i vari centri finanziari, permettendo quindi una più facile e veloce integrazione dei mercati dei capitali. L’informazione sui differenziali dei prezzi sono, infatti, centrali nel determinare l’azione di investimento da parte degli agenti economici. Il primo cavo sottomarino venne installato, fra Dover e Calais, nel 1851, mentre New York e San Francisco vennero collegate nel 1864 ed infine, nel 1866, venne messo in funzione il primo cavo che collegava le due sponde dell’oceano Atlantico.

In precedenza, gli investitori londinesi venivano in possesso delle informazioni circa i prezzi degli altri centri dall’altra parte dell’oceano in tre settimane. Essi dovevano, quindi, prevedere con in mano informazioni già vecchie, quale sarebbe stato il prezzo sul mercato straniero di destinazione tre settimane dopo la loro decisione di inviare capitali. La lentezza del processo faceva quindi calare inevitabilmente la precisione nelle stime: l’alta incertezza, quindi, portava questi investitori a intraprendere solamente quelle operazioni che garantivano un’altissima percentuale di successo. Successivamente al collegamento telegrafico tra l’Europa e le Americhe, invece, il prezzo sui mercati esteri veniva conosciuto sulle piazze finanziare del vecchio continente in giornata, dando così la possibilità di decidere dell’investimento con un solo giorno di ritardo sull’ultima informazione nota, aumentando notevolmente la precisione dell’informazione e moltiplicando così le possibilità d’investimento.

Un altro elemento che è stato ritenuto centrale nello stimolare un’ampia mobilità internazionale dei capitali è stato il regime di gold standard a cui, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, aderirono tutti i maggiori paesi industriali. Se il Regno Unito tornò alla convertibilità della sterlina nel 1821, dopo il corso forzoso dichiarato nel 1797 in correlazione con le guerre napoleoniche, il Portogallo vi aderì già nel 1865. Dopo la sua adozione da parte della Germania dopo il 1871, molti paesi europei seguirono la stessa scelta e, infine, gli Stati Uniti ripristinarono la convertibilità anche del dollaro nel 1879. L’adesione ad uno standard monetario mondiale, garantito dalla predominanza dell’economia inglese e dalla forza e dalla fiducia che essa donava alla sua valuta, la sterlina, divenuta il mezzo di pagamento degli scambi internazionali, fu certamente un elemento di non secondo piano nel facilitare i movimenti internazionali di capitale. Tuttavia esso può essere considerato più come una conseguenza, che come una causa, dell’ampiezza mondiale del mercato. Inoltre esso non basta certamente a spiegare la mobilità dei capitali e dei commerci, come ben dimostra il caso degli anni tra le due guerre mondiali. Aiutò certamente il fatto che il periodo che va dal 1871 al 1914 fu un periodo generalmente molto stabile da un punto di vista politico, nonché sostanzialmente privo di conflitti.

Molteplici ragioni avevano quindi determinato l’unificazione di un grande numero di mercato nazionale in un unico mercato dei capitali mondiale. I paesi creditori a livello mondiali erano guidati da due nazioni, il Regno Unito e la Francia, dove i saggi di risparmio si mantennero per tutto il periodo elevati e costanti, permettendo la disponibilità di capitali necessaria alla loro

esportazione. Contemporaneamente, anche Stati Uniti e Germania, che stavano diventando le maggiori potenze industriali, cominciavano ad investire all’estero. Tra i paesi in cui la domanda di capitali era più alta figurano, invece, l’Argentina, per tutto il periodo che va dal 1875 alla Prima guerra mondiale, l’Australia, in particolar modo tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, ed infine il Canada, con riferimento agli anni tra il 1900 e il 1914.

La City di Londra era il cuore del mercato globale dei capitali. Nel 1870, la percentuale di ricchezza britannica investita all’estero era già del 17%, crescendo fino ad arrivare al 33% nel 1913. Anche la quota di investimenti all’estero calcolata sul totale dei risparmi nazionali era in forte ascesa: essa ammontava a circa il 35% fra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, salendo poi al 47% alla fine degli anni Ottanta e finendo a pesare per il 53% negli anni che precedettero la Prima guerra mondiale. Per quanto riguarda la specializzazione geografica, prendendo come campione gli anni che vanno dal 1907 al 1913 che rappresentano l’apice del processo di internazionalizzazione del mercato dei capitali, si nota che quasi il 70% degli investimenti inglesi erano indirizzati ai territori dell’America del nord, dell’America latina e dell’Australia, mentre il restante 30% era diviso tra Cina, Giappone, Europa orientale e Russia. In generale, i territori dell’Impero britannico assorbivano circa il 40% del totale degli investimenti, di cui la parte maggioritaria era collocata in India e in altre colonie di insediamento di popolazione bianca, come il Canada, il Sudafrica, l’Australia e la Nuova Zelanda.

L’esportazione del capitale non fu tuttavia un processo continuo e subì anche forti fluttuazioni, seguendo i cicli economici che si susseguirono in quel periodo. Osservando alcune cifre, ad esempio, si nota come i flussi di capitale britannico indirizzati verso l’estero ammontavano a 100 milioni di sterline nel 1872, crollando fino a 8 milioni nel 1878, per poi ricrescere fin ad un nuovo picco di 95 milioni di sterline nel 1888. Nel decennio successivo gli investimenti calarono nuovamente drasticamente, arrivando a toccare appena gli 11 milioni di sterline nel 1902, per vivere poi un’ultima vertiginoso impennata raggiungendo i 218 milioni nel 1913.

Se il Regno Unito faceva la parte del leone, la Francia era saldamente al secondo posto tra i paesi esportatori di capitali. Fino al 1875 l’obiettivo degli investimenti francesi era stato essenzialmente limitato all’Europa occidentale e centrale, ma nell’ultimo quarto del secolo essi si diressero sempre più verso l’Europa orientale, l’America latina, l’Asia e le colonie. Il paese che beneficiò maggiormente degli investimenti provenienti da Parigi fu, in questo periodo, la Russia, che assorbiva da sola il 25% dei capitali francesi investiti all’estero: quando, tra il 1891 e il 1894, la Russia e la Francia firmarono una serie di accordi e convenzioni militari che consolidarono un’alleanza costruita essenzialmente in funzione anti-tedesca, la somma dei prestiti francesi verso San Pietroburgo ammontava, infatti, già a 6 milioni di franchi. Altri paesi privilegiati per i capitali francesi erano, poi, i Balcani, la Scandinavia, ma anche l’Impero ottomano, dove vennero finanziate le ferrovie di Baghdad e dell’Anatolia, e l’Egitto, che rappresentavano la destinazione del 60% del totale degli investimenti francesi all’estero. In generale, infine, la Francia investiva meno della Gran Bretagna nelle proprie colonie, le quali erano per

altro economicamente molto meno rilevanti, raggiungendo tuttavia una quota, tutt’altro che irrilevante, del 13% degli investimenti totali all’estero.

Come accennato in precedenza, anche la Germania e gli Stati Uniti, i paesi in quel periodo emergenti dal punto di vista industriale, cominciavano ad avere importanti quote del proprio capitale investite all’estero. Per quanto riguarda la Germania, i capitali venivano investiti sia in Europa che nel resto del mondo, in particolare nei territori dell’Impero ottomano e dei paesi balcanici da una parte, e dell’Impero austro-ungarico dall’altra: queste due aree assorbivano rispettivamente il 15% e il 13% dei capitali tedeschi complessivamente sportati. Gli Stati Uniti, invece, destinavano i propri investimenti maggiormente ai paesi a loro vicini. I capitali andavano quindi principalmente verso il Canada, a cui veniva destinato il 24,7% del totale, e verso il Messico, per un 24,3%; seguivano, poi, i paesi dell’America latina, con una quota del 10,4%, ed infine Cuba e i Caraibi, che assorbivano il 9,6% del totale esportato.

In Francia gli investimenti esteri erano legati, molto più che in Gran Bretagna, alle necessità di Stato e di sicurezza nazionale, cosicché i rapporti tra la comunità degli investitori e il governo centrale erano molto più stretti e costanti. Ad esempio, quando nel 1887 venne rinnovata l’alleanza che legava l’Impero austro-ungarico, la Germania e l’Italia, le banche francesi vendettero i titoli di Stato italiani per dirigersi verso l’acquisto dei titoli russi. Quando, alcuni anni dopo, l’Italia si rivolse nuovamente verso la piazza parigina per ottenere nuovi crediti, i Rothschild, d’accordo con il governo, rifiutarono di cooperare con il governo italiano. In particolar modo, quindi, dopo il 1870, la Germania fu un luogo proibito per i capitali francesi, così come l’Impero austro-ungarico che entrò nella Triplice alleanza, insieme all’Italia, nel 1882.

Anche se non con i livelli francesi, anche nel Regno Unito a volte la politica governativa si appoggiava o supportava gli interessi degli investitori britannici, con un tetraedro di relazioni che coinvolgeva il Ministero degli affari esteri, il Tesoro, la Borsa di Londra e la Banca d’Inghilterra, la cui dirigenza tentava la mediazione tra gli interessi governativi e quelli finanziari. In generale, comunque, sulla piazza londinese venivano piazzati titoli di Stato coloniali, titoli di Stato stranieri, ferrovie coloniali, statunitensi e straniere, ed infine azioni di società estere.

Flussi internazionali di capitale in percentuale sulla produzione nazionale lorda per un campione di paesi, 1870-1910

Percentuale di investimenti all’estero rispetto al totale del risparmio,

Di converso, le necessità delle industrie nazionali sembravano essere sufficientemente soddisfatte dai capitali raccolto nei territori di provincia. La preferenza per i finanziamenti di iniziative imprenditoriale all’estero da parte degli investitori londinesi derivava anche dal fatto che prima del 1914 i dati pubblici relativi alle ditte inglesi erano scarsi e gli azionisti basavano le proprie scelte quasi esclusivamente sulle proprie conoscenze personali. Sulla piazza di Londra, invece, venivano quotati i titoli esteri venivano quotati con una grande dovizia di informazioni, paradossalmente più facili da reperire rispetto a quelle inerenti le aziende che operavano sui territori provinciali del paese, indirizzando così più risorse in questo settore.

Esportazione di capitale britanniche e investimenti domestici (Fonte:

Complessivamente, nel periodo considerato, gli investimenti erano costituiti per la maggior parte, poco meno del 70%, da investimenti di portafoglio, che prendevano la forma di azioni e obbligazioni emesse sulla piazza londinese da imprese straniere. Per quanto riguarda i capitali britannici, ad esempio, nel 1913 questo tipo di investimenti rappresentava il 79% del totale, mentre la percentuale saliva all’85% se si prendono in considerazione esclusivamente i territori dell’Australia e dell’America del nord. Per quanto riguarda le destinazioni produttive, la grande maggioranza dei capitali andava a finanziare le infrastrutture: circa il 70%, infatti, fu utilizzato per costruire ferrovie, le quali da sole assorbivano circa il 41% del totale dei capitali investiti, oltre a porti, fognature, reti telefoniche, miniere e altri investimenti di pubblica utilità.

Esistevano, tuttavia, anche investimenti di tipo diretto. In questo caso è interessante osservare come la distribuzione dei due tipi di investimento risulti molto diversa da paese a paese. Ad esempio gli Stati Uniti costituiscono un caso del tutto particolare, in quanto gli investimenti diretti all’estero costituivano ben il 75% del totale, una percentuale che, se consideriamo alcuni paesi dell’America latina, poteva superare anche l’80%. La maggior parte di questi investimenti diretti, che non passavano per il mercato secondario dei titoli, era costituito da gare d’appalto per l’assegnazione di contratti per determinate opere che raramente sfociavano in comportamenti di sfruttamento da parte delle società estere. Un paio di eccezioni a questa norma sono costituite dal monopolio conferito a due società inglesi in Africa, la British South Africa Company e la Royal Niger Company. LA BSA & Co, ad esempio, effettivamente operò uno sfruttamento delle risorse in favore dei coloni europei, espropriando a loro beneficio tutti i territori della Rhodesia meridionale.

Altre forme di sfruttamento coloniale si realizzarono anche quando non vi era l’esclusiva nell’utilizzo di determinate risorse o imprese da parte delle aziende europee. Una prassi comune era costituita, ad esempio, dal vincolare gli investimenti in un determinato territorio alle esportazioni, determinando così un ulteriore profitto per il paese esportatore di capitali. Questa pratica era già in uno nell’Europa continentale. I francesi, ad esempio, erano soliti assicurarsi commesse in cambio della concessione dei prestiti soprattutto in relazione ai territori dei Balcani e dell’Impero ottomano. Solitamente un rappresentante della Schneider-Creusot, la più grande azienda francese produttrice di materiale bellico e di acciaio della regione della Borgogna, o di una qualche banca all’interno del cui consiglio di amministrazione l’impresa era ben rappresentata, era presente ai negoziati tra la Francia e i paesi importatori di capitale da Parigi.

Tuttavia, il legame tra prestiti concessi e importazione di materiale non deve essere sopravvalutato. Numerosi sono, infatti, gli esempi in cui non sussiste questa correlazione. Nel caso di 17 prestiti accordati da investitori americani ed europei al governo cinese per la costruzione della rete ferroviaria tra il 1898 e il 1914, la nazionalità del prestatore si dimostrò del tutto irrilevante nella decisione della concessione degli appalti di costruzione. A riprova di questo, gli Stati Uniti, che detenevano la minor quota dei prestiti ferroviari cinesi, appena 3 milioni su un totale di 123, erano però il secondo maggior esportatore di rotaie e materiale rotabile; viceversa la Gran Bretagna, il maggior investitore che deteneva quasi il 50% del totale del prestito, era penultimo nella classifica delle commesse ricevute.

Una situazione simile si verificò anche nell’America latina. Ad esempio in Argentina, il 75% delle ferrovie erano di proprietà di investitori inglesi, ma le società britanniche riuscirono ad assicurarsi meno del 50% delle importazione di attrezzature ferroviarie. Anche i francesi, che detenevano in Brasile quasi la metà dell’intero sistema ferroviario, esportavano in quel paese una quota di materiale ferroviario più esigua di quella indirizzata in Argentina.

L’investimento di capitali all’estero, soprattutto quelli indirizzati a finanziare il debito degli Stati, potevano avere anche notevoli ripercussioni dal punto di vista politico. Se, infatti, un’impresa non riusciva a far fronte ai pagamenti veniva dichiarato il fallimento, aprendo una procedura legale che prevedeva anche il carcere per i debitori, se a dichiarare l’impossibilità a pagare il debito era un intero Stato la faccenda era certamente più problematica per i creditori privati.

Dal 1873 in poi, in conseguenza della depressione economica internazionale, molti Stati in tutto il mondo dovettero dichiarare l’insolvenza delle proprie obbligazioni. Honduras e Santo Domingo nel 1873; Costa Rica, Liberia e Paraguay nel 1874; Bolivia e Guatemala nel 1875; infine, Perù e Impero ottomano nel 1876. Nell’ultimo quarto dell’Ottocento si verificarono una molteplicità di casi simili e gli Stati insolventi vennero sottoposti ad un procedimento affine a quello utilizzato per le aziende. Una serie di curatori stranieri, nominati in qualità di rappresentanti delle potenze economicamente e politicamente più importanti, venivano incaricati di gestire una parte degli

introiti fiscali, spesso quelli derivanti dai dazi doganali, al fine di trattenere le entrate necessarie a ripagare i debiti pendenti.

Solitamente le grandi potenze tendevano ad evitare, in questi casi, l’intervento diretto armato. Sono esistite, tuttavia, eccezioni a questo comportamento, come ad esempio nel caso dell’Egitto, dove era in ballo anche una questione politicamente e strategicamente rilevante come quella dell’accesso al Canale di Suez. A partire dalla salita al trono di Ismail Pasha, avvenuta nell’ottobre del 1863, il debito pubblico egiziano aveva raggiunto dimensioni preoccupanti. I finanziamenti ottenuti in particolar modo da Londra e Parigi vennero utilizzati soprattutto per la ricostruzione del Cairo, che prendeva come modello proprio la capitale francese, per aumentare i possedimenti del Khedivè, che raggiunsero la quota del 20% di tutte le terre coltivabili egiziane, ed infine per costruire ferrovie, una rete telegrafica, un sistema stradale e numerosi canali d’irrigazione.

Con la depressione del 1873 la situazione si fece più problematica. Nel 1876 venne nominata una commissione internazionale incaricata di mettere sotto controllo alcune entrate tributarie, come quelle sul tabacco e sul sale, al fine di garantire i prestiti. La curatela era composta da quattro rappresentanti dei creditori, nominati da Ismail Pasha ma praticamente imposti dalle nazioni che rappresentavano la fetta maggiore del debito egiziano, ovvero Francia, Gran Bretagna, Italia e Austria-Ungheria. Lo stato delle finanze egiziane rimase comunque critico ed una Commissione d’inchiesta internazionale, nominata nel 1878, raccomandò nuove, più drastiche, soluzioni, come il licenziamento degli ufficiali dell’esercito, la tassazione delle classi elevate e ulteriori limitazione al potere del Khedivè. Ismail Pashà venne destituito nel 1879, ma il contenzioso tra la commissione internazionale e il Parlamento egiziano continuò anche negli anni successivi, scatenando, nel 1881, dei sommovimenti popolari nazionalisti che portarono al governo il colonnello Ahmed Arabi.

A questo punto, dopo le violenze anti-europee di Alessandria d’Egitto del giugno del 1882, gli inglesi intervennero militarmente, in quanto temevano che i sentimenti nazionalisti che dilagavano in tutto il paese potessero minacciare il loro accesso al Canale di Suez. Dal 1883, quindi, la nuova costituzione dava il potere effettivo al Console generale britannico, la cui amministrazione rimase in carica fino al 1913 con i compiti di regolarizzare il prelievo fiscale, riformare il sistema dei conti pubblici e controllare la spesa dello Stato. Solo nel 1923 l’Egitto riconquistò, infine, la sua indipendenza politica.

Una situazione simile si realizzò anche in Grecia, quando il paese ellenico nel 1893 decise unilateralmente di ridurre il pagamento sugli interesse del debito. Cinque anni dopo, nel 1898, alla sconfitta della Grecia nella guerra contro l’Impero ottomano, il governo ebbe bisogno di nuovi aiuti finanziari internazionali, i quali vennero concessi solamente dopo la nomina di una

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