• Non ci sono risultati.

Quadri di approfondimento

Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento, vi fu un vivace dibattito circa il ruolo, le funzioni e i meccanismi della Banca d’Inghilterra e, più in generale, circa il generale assetto che il sistema bancario avrebbe dovuto possedere per evitare le crisi finanziarie che si erano ripetute, nel corso degli anni, fin dal ritorno alla convertibilità aurea della sterlina, del 1819.

L’inefficacia dei meccanismi con cui era regolato il sistema venne messa in luce dall’inchiesta condotta dal Committee on the Bank Issue, tra il 1840 e il 1841, davanti al quale lo stesso John H. Palmer, governatore della Banca d’Inghilterra tra il 1830 e il 1833, che aveva dato nome alle cosiddette Palmer

Rules nella gestione monetaria, testimoniò in favore di una maggiore

regolamentazione del rapporto tra oro e titoli.

Da questo contesto, caratterizzato dalla disputa tra la Banking School e la

Currency School, si arrivò al Bank Charter Act, che venne presentato al

Parlamento inglese attraverso due discorsi del Primo ministro Robert Peel nel maggio del 1844. Con la legge del 1844, il potere di controllare l’emissione di moneta veniva demandato interamente allo Stato, lasciando però libera l’attività bancaria. La a tesi che veniva quindi sostenuta e ricompresa nella nuova legislazione bancaria si opponeva ad una completa liberalizzazione per le banche private di emettere banconote, per evitare quindi i rischi di sovraemissione che avevano caratterizzato le crisi finanziarie dal 1825 in poi.

La Banca d’Inghilterra poteva, quindi, emettere banconote basandosi sia sulle proprie riserve auree che su una quantità fissa di titoli, che ammontavano a 14 milioni di sterline. Il limite alle emissioni era quindi molto rigido, in quanto la legge stabiliva che esso poteva essere superato solo se le nuove banconote sarebbero state garantite da una riserva di metallo prezioso pari al 100% del circolante.

Il numero delle banconote, inoltre, poteva essere aumentato nel caso in cui una banca di provincia con privilegio di emissione fosse fallita o avesse spontaneamente rinunciato all’emissione: in questo caso i due terzi delle sue banconote potevano essere aggiunti al massimale della Banca d’Inghilterra. Si favoriva, così, un riassorbimento progressivo delle emissioni delle varie banche provinciali da parte della Banca d’ Inghilterra. Infine, il Bank Charter Act suddivideva le attività della Banca in due dipartimenti distinti, per evitare commistioni tra due funzioni che si pensavano diverse: un primo dipartimento si sarebbe occupato delle emissioni e della gestione delle riserve auree; un secondo, invece, avrebbe invece gestito le ordinarie funzioni bancarie.

Il punto centrale della normativa stava nella chiarezza dei meccanismi che andava ad istituire. La Banca d’Inghilterra si vedeva mutilata della discrezionalità nell’emissione di banconote, la quale era ora invece determinata dal flusso di oro che entrava nelle sue casse, aumentando l’emissione all’aumento delle riserve auree e diminuendo la cartamoneta al calo delle medesime.

Nonostante la nuova normativa venne salutata da molti come una vittoria definitiva, bastarono pochi anni e nuove tensioni economiche e finanziarie a farne emergere i limiti. Essi erano dovuti essenzialmente alla rigidità con la quale veniva regolata l’emissione di cartamoneta, che come abbiamo appena vista era strettamente legata alla quantità di riserve auree. Le banconote era, infatti, divenute così dei semplici sostituti della moneta metallica, senza una propria identità e senza, quindi, quell’elasticità necessaria nei momenti di crisi finanziaria.

All’approssimarsi della prima di esse, nel 1847, ovvero solamente tre anni dopo l’approvazione dei decreti di Peel, la finanza londinese fu attraversata da una grave crisi di liquidità in conseguenza alla caduta del prezzo del granturco che aveva causato il fallimento di alcune banche di provincia. La grande richiesta di liquidità che ne seguì cominciò velocemente a prosciugare le riserve della Banca d’Inghilterra, che nell’estate del 1847 raggiunsero il minimo storico di un milione di sterline.

I dirigenti dell’istituto, quindi, si trovarono di fronte ad un problema che si sarebbe periodicamente riproposto sullo scenario finanziario inglese: da un lato essi dovevano rendere conto ai propri azionisti, preoccupati per il drastico calo delle riserve auree e interessati all’adozione di misure funzionali al mantenimento della solidità patrimoniale della banca; dall’altro lato, però, la Banca subiva anche enormi pressioni da un mercato bisognoso di liquidità.

La soluzione, in realtà, avrebbe dovuto essere molto semplice, in quanto la legislazione del 1844 regolava precisamente quale dovesse essere il comportamento dei dirigenti della Banca d’Inghilterra, anche in casi di estrema tensione finanziaria come quello che si stava verificando nell’estate del 1847. Se, tuttavia, la Banca avesse seguito alla lettera le istruzione della normativa di Peel, la stabilità della City e della sterlina sarebbe stata messa seriamente in pericolo, con danni per tutto il sistema finanziario, economico e commerciale dell’intero paese.

Invece di modificare la legge, però, il potere esecutivo, nella persona di Lord Halifax, Cancelliere dello Scacchiere, decise di agire in modo informale, assumendo sulle proprie spalle la responsabilità di sospendere le restrizioni imposte dal Bank Charter Act all’emissione. Con una lettera del 25 ottobre del 1847, quindi, la Banca d’Inghilterra veniva invitata a scontare lettere di credito e altri titoli ad un tasso di sconto minimo dell’8% senza preoccuparsi delle conseguenze. L’istituto londinese, quindi, veniva praticamente invitato a prestare liberamente denaro per andare incontro alle necessità degli operatori finanziari garantendo che, qualora la legge fosse stata infranta, il governo avrebbe provveduto a far approvare una sanatoria dal Parlamento, sollevando quindi i dirigenti della Banca da ogni conseguenza penale.

Il successo dell’iniziativa andò al di là delle più rosee prospettive. Il solo annuncio del contenuto di questa lettera bastò, nel giro di poche ore, a calmare le tensioni. Di conseguenza, la circolazione di banconote della Banca d’Inghilterra rimase, in ultima istanza, al di sotto dei limiti imposti dalla legge e la sanatoria parlamentare promessa dal governo in caso di necessità divenne assolutamente superflua. La medesima politica venne messa in campo sia nel

1857 che nel 1866, conseguendo, in entrambi i casi, risultati soddisfacenti, anche se nel 1857 l’annuncio della lettera non scongiurò del tutto un eccesso di circolazione, la quale si mantenne tuttavia in livelli accettabili ancorché oltre il limite imposto. Il governo, tuttavia, prestò fede alle proprie parole facendo approvare dal Parlamento una sanatoria per i dirigenti della Banca d’Inghilterra.

4.2. La clausola della nazione favorita: il trattato Cobdein-Chevalier e la liberalizzazione dei commerci

Nel periodo precedente al 1860, nell’Europa continentale solamente alcuni piccoli paesi, come Paesi Bassi, Danimarca, Portogallo e Svizzera, che rappresentavano non più del 5% dell’intera popolazione europa, avevano adottato una politica liberista. Il punto di svolta del periodo è certamente il trattato di libero scambio anglo-francese di Cobden-Chevalier che prende il nome dai nomi dei due maggiori promotori.

Richard Cobden, nato nel 1804 e capo della delegazione inglese nelle trattative che iniziarono ufficialmente nell’ottobre del 1859, si era già distinto per le sue idee libero-scambiste fin dal 1838, quando fondò la Anti-Corn Laws League, che si poneva il preciso obiettivo di abolire i dazi doganali sul grano risalenti alle guerre napoleoniche. Michel Chevalier, invece, nato nel 1806, era un ingegnere seguace delle idee di Saint-Simon: nel 1841 divenne professore di politica economica al Collége de France, mentre fu eletto deputato per il dipartimento di Aveyron quattro anni dopo, diventando infine senatore nel 1860.

Il 5 gennaio del 1860, Napoleone III, in una lettera inviata al Ministre d’Etat e pubblicata poi il 15 dello stesso mese sul «Moniteur», espose un vasto programma di riforme liberali, all’interno del quale trova largo spazio l’idea dell’imperatore francese di sottoscrivere una serie di trattati commerciali. Fu proprio quella lettera che, in qualche modo, rese pubbliche le trattative con gli inglesi. Queste aveva raggiunto un punto di svolta, come detto, nell’ottobre del 1859, quando Cobden venne ricevuto da Napoleone III in persona, ma le cui origini possono essere fatte risalire indietro nel tempo fino al 1856, quando vi fu il primo incontro a Parigi tra Cobden e Chevalier.

Il trattato, firmato il 23 gennaio del 1860, doveva avere una durata decennale. Tuttavia la sua entrata in vigore fu diluita su un lungo periodo di tempo, con ritmi diversi a seconda dei diversi settori economici e industriali. Ad esempio l’entrata in vigore del trattato venne stabilita, per il carbone e il coke, il 1 luglio del 1860 e per l’acciaio e il ferro il 1 ottobre dello stesso anno. Per i manufatti in ferro, invece, l’accordo entrò in vigore il 31 dicembre 1860; il 1 giugno 1861, per i filati in canapa e lino e, infine, il 1 ottobre 1861 per tutte le altre tipologie di manufatti.

In conseguenza al trattato, il Regno Unito abolì, o diminuì fortemente, le barriere doganali su molti prodotti francesi, sopprimendo contestualmente il dazio sul carbone. La Francia abolì tutti i divieti di importazione, sostituendoli con dazi doganali che non dovevano superare il 30% ad valorem, che divenne

il 25% dopo il 1 ottobre 1864. Anche i dazi sull’esportazione dei vini francesi vennero ridotti notevolmente, calando di oltre l’80%.

L’aspetto più interessante dell’accordo anglo-francese, che avrebbe comportato i maggiori effetti commerciali ed economici sul continente europeo negli anni successivi al 1860, è l’inserimento della clausola della nazione più favorita. La formula, introdotta mediante un accordo complementare tra Francia e Inghilterra siglato il 16 novembre del 1860, obbligava ciascuno dei due paesi firmatari ad accordare all’altro ogni privilegio, favore o vantaggio commerciale, o relativo alla navigazione, che esso aveva già accordato al momento della stipula del trattato, o che avrebbe accordato in futuro, ad un’altra nazione.

Questa formula non era una novità assoluta nel panorama commerciale europeo: alcuni rari casi si trovano già nel Trecento, ma essa venne affinata nella sua formulazione contrattuale solamente nei secoli successivi, cominciando a venire applicata con maggiore frequenza nel corso del Cinquecento e del Seicento. Tuttavia, in questo periodo sussisteva ancora una forte limitazione: i paesi favoriti dovevano, infatti, essere nominati esplicitamente, riducendo, così, la portata degli effetti commerciali di una clausola della nazione più favorita pura.

Quest’ultima venne introdotta a partire dagli inizi del Settecento. Un esempio di ciò è rappresentato dal trattato stipulato fra l’Inghilterra e la città di Danzica nel 1706, che recitava come segue: «Qualsiasi privilegio riguardante le persone, le navi o le merci straniere nella città di Danzica, che sarà d’ora innanzi accordato a qualsiasi nazione straniere, sarà pienamente goduto nella stessa maniera dai cittadini britannici dalle loro navi e dalle loro attività commerciali».

Nel corso della seconda metà del Settecento, molte nazioni ricorsero all’uso della clausola della nazione più favorita. Tuttavia, alla fine del secolo, gli Stati Uniti cominceranno a invertire questa tendenza, introducendo la nozione di reciprocità, secondo la quale la clausola della nazione più favorita viene attivata solamente nel caso in cui il nuovo vantaggio da estendere all’altro paese è stato ottenuto senza una contropartita. Se, invece, il paese, al fine di acquisire un beneficio commerciale, ha dovuto concedere qualcosa in cambio, esso dovrà ottenere le medesime concessioni anche dal paese beneficiario della clausola della nazione più favorita, che viene così ad essere nuovamente limitata.

Ad esempio, nel trattato commerciale tra Francia e Stati Uniti siglato il 6 febbraio del 1778, si legge che «il Re Cristianissimo e gli Stati Uniti si impegnano ad accordarsi reciprocamente qualsiasi particolare favore relativo al commercio e alla navigazione concesso ad altre nazioni, senza compenso, se quella concessione fu fatta gratuitamente, o in cambio dello stesso compenso, se essa fu onerosa».

Questa clausola, che limita fortemente l’azione liberalizzatrice dei commerci della nazione più favorita, appare in Europa intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, per venire poi applicata sistematicamente in tutti i trattati

degli anni che vanno dal 1840 al 1860. Reintroducendo, quindi, la clausola della nazione più favorita in forma pura, il trattato anglo-francese del 1860 portò ad un processo di generale abbassamento delle tariffe doganali su scala continentale, in quanto esso fu seguito da altri trattati, tutti stipulati con la medesima formula, che legarono la Francia agli altri paesi europei.

Il primo fu quello con il Belgio, firmato nel maggio del 1861, al quale seguì, l’agosto dell’anno successivo, la stipula di un accordo con la Prussia, la quale agiva però in nome dello Zollverein che, dal 1 gennaio del 1834, legava tutti i paesi tedeschi in un’unione doganale di libero scambio. L’accordo franco-tedesco stabilì una riduzione delle tariffe del 40-80% per gli articoli in cotone, del 25% per il ferro grezzo, dell’80% per i manufatti in ferro e del 60-80% per i capi in lana.

Negli anni successivi altri paesi europei si legarono alla Francia da trattati di libero scambio, entrando così nella vasta rete commerciale aperta dai trattati Cobden-Chevalier: l’Italia firmò un accordo con la Francia nel gennaio del 1863, la Svizzera nel giugno del 1864, la Svezia e la Norvegia nel febbraio del 1865, le città anseatiche nel marzo dello stesso anno; la Spagna entrò nel giugno del 1865, i Paesi Bassi nel luglio di quell’anno e l’Austria nel dicembre del 1866; infine, Portogallo e Danimarca entrarono nell’area di libero-scambio europea per effetto dei trattati che avevano già stipulato negli anni precedenti con l’Inghilterra. L’unico paese che rimase fuori da questa rete ancora fino all’aprile del 1874 fu la Russia, anche se anche il paese degli Zar promosse, nel 1868, alcune riforme in senso liberista al suo sistema doganale.

Nello stesso periodo, tra il 1860 e il 1877, si assistette ad una modificazione generale delle politiche commerciali all’interno dei maggiori paesi europei. I nuovi sistemi tariffari nazionali, che andavano a regolare le tariffe con i paesi che non facevano parte dei trattati commerciali appena ricordati andarono a delineare, insieme a questi ultimi, un periodo di generale liberalizzazione dei commerci.

Con la legge del 5 maggio del 1860, implementata da ulteriori decreti nel 1861 e nel 1862, la Francia soppresse la maggior parte delle tariffe doganali sulle materie prime, mentre, con la legge del 15 giugno del 1861, i dazi di importazione sui cereali vennero fissati al 3% del valore. La nuova tariffa doganale del 1869 andò anche oltre, esentando da qualsiasi tipo di barriera doganale quasi tutte le materie prime e i prodotti agricoli. In Germania, dopo la vittoria nella guerra austro-prussiana del 1866, la Prussia impose una nuova organizzazione degli stati tedeschi, dalla quale l’Austria venne esclusa, che portò ad una riorganizzazione del Congresso generale dello Zollverein.

Dal 1867 spariva così il diritto di veto degli stati, che portava quindi a prendere le decisioni secondo un principio di maggioranza assoluta: su 58 voti disponibili in totale, la Prussia ne possedeva ben 17, la Baviera 6, mentre gli altri 23 stati da 1 a 4 ognuno. Proprio questa nuova tipologia di governo dello

Zollverein approvò, tra il 1868 e il 1870, alcune misure liberiste nelle politiche

commerciali, che vennero però implementate e rese effettive solo con la creazione dell’Impero, avvenuta il 18 gennaio del 1871 in seguito alla vittoria nella guerra franco-prussiana. Queste nuove politiche portarono alla

riduzione, o in alcuni casi alla totale abolizione, di una molteplicità di dazi tra il 1873 e il 1875, mentre con la legge del 1 gennaio del 1877, la Germania aboliva le tariffe doganali sulla quasi totalità dei manufatti in ferro.

Dopo l’unificazione dell’Italia del 1861, il regime doganale del Regno di Sardegna, che aveva conosciuto un processo di progressiva liberalizzazione ad opera di Cavour tra il 1851 e il 1859, venne esteso a tutta la penisola italiana. Questo comportò, soprattutto nel meridione, casi di abbassamento dei dazi doganali che arrivavano anche all’80%. Il processo continuò con maggior velocità dopo la sigla del trattato commerciale italo-francese nel gennaio del 1863, che pose l’Italia sulla strada per diventare, alla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, il secondo paese dell’Europa continentale più liberista sotto il profilo dei dazi doganali.

I casi del Belgio e della Svizzera, infine, ci raccontano di come due piccoli paesi industrializzati raggiunsero, in questo periodo, una situazione molto vicina al libero scambio integrale. A causa del gran numero di trattati in cui era coinvolto, le tariffe generali erano diventate in Belgio un’eccezione, dato che la gran parte del commercio era regolato da dazi speciali derivati da accordi internazionali. La Svizzera viveva una situazione molto simile: senza alterare la sua tariffa doganale generale, il paese alpino entrò nell’area di libero commercio attraverso il grande numero di trattati stipulati che includevano la clausola della nazione più favorita: nel periodo che va dal novembre del 1860 all’agosto del 1875 furono, infatti, stipulati accordi commerciali con ben 16 paesi europei.

Per concludere, occorre notare che il Regno Unito, che aveva già dazi doganali molto bassi, fin dall’abolizione delle Corn Laws del 1846, li ridusse ancor di più negli anni successivi al 1860. Le tariffe sul grano, che erano del 2%, vennero completamente abolite nel 1869, mentre i dazi sull’importazione dello zucchero vennero dimezzati una prima volta nel 1870 ed una seconda volta nel 1873, per poi venire infine aboliti del tutto nel 1874.

4.3. La crisi della Baring Brothers

Negli anni Ottanta dell’Ottocento, l’impero dei capitali inglesi impiegati in ogni luogo del mondo stava trovando un nuovo mercato nel quale cominciarono a concentrarsi sempre più investimenti provenienti dalla City di Londra: l’Argentina. Un ruolo di primo piano in questo contesto fu giocato dalla Baring Brothers, una delle merchant bank inglesi più importanti, ricche e prestigiosi che, fin dal 1824, aveva iniziato la sua penetrazione finanziaria nel paese dell’America latina con un prestito di un milione di sterline a favore delle Province Unite del Rio della Plata, denominazione dei territori che nel 1810 avevano conquistato l’indipendenza dalla Spagna, conservata fino al 1830.

Tuttavia, il prestito del 1824 fu un fallimento quasi totale e occorre attendere il 1866 per avere il primo sindacato di emissione per conto del governo centrale argentino. Anche questo prestito fu di dimensione assai modeste, appena 550.000 sterline, e non ebbe certamente un grande successo. La stessa Baring Brothers dovette infatti sottoscrivere 200.000

sterline per mostrare sicurezza nella stabilità dell’Argentina e incoraggiare così altri investitori ad entrare in quel mercato. Un nuovo prestito venne emesse poi nel 1870 per un ammontare complessivo di 2 milioni e 500 mila sterline, mentre nel 1873 vi fu un’emissione di 2 milioni di sterline, non per il governo centrale, ma per il governo della provincia di Buenos Aires.

Nei decenni che vanno dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo, quindi, il Baring ricoprirono un ruolo fondamentale nel finanziare il debito del governo argentino, ma anche di diverse province e municipalità. Sempre in quel periodo, però, la banca inglese iniziò anche la sua penetrazione finanziaria del Banco Provincial de Buenos Aires e della Great Western Railway, entrambe di proprietà dello Stato.

Il vero punto di svolta nel coinvolgimento finanziario della Baring Brothers in Argentina si ebbe però negli anni tra il 1881 e il 1884. In quel periodo la casa bancaria inglese era forse all’apice della proprio ricchezza e, come altre case della haute finance londinese, la sua attività principale era quella del collocamento di prestiti per governi e imprese straniere. Nella prima metà degli anni Ottanta, ad esempio, i Baring gestirono prestiti a governi e imprese ferroviarie fuori dall’Europa per un ammontare di 54,500,000 sterline. Di questa enorme cifra, ben 2,049,200 sterline erano state collocate per conto della provincia di Buenos Aires e altre 1,683,100, in collaborazione con il Comptoir d’Escompte parigino e con la Paribas francese, verso il governo

Documenti correlati