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La delocalizzazione produttiva come strategia di internazionalizzazione

3. Rapporti Italia Cina

3.3. Partecipazioni italiane in Cina nel settore TA

3.3.1 La delocalizzazione produttiva come strategia di internazionalizzazione

Con il termine "delocalizzazione produttiva" intendiamo qui quell'accurato e non ca- suale processo di trasferimento della produzione di beni e/o dell'offerta di servizi in altri Paesi, con il fine di sfruttare specifici vantaggi competitivi, difficili da ottenere all'interno del territorio nazionale. Tale procedimento viene anche definito "Frammen- tazione Internazionale della Produzione" (FIP), termine che tende a sottolineare la sud- divisione del processo produttivo precedentemente realizzato in un unico sito e ora posizionato in più strutture e in diversi Paesi (Tajoli, 2011, p. 92). Spesso la delocaliz-

zazione viene considerata azione indistinta dalla citata internazionalizzazione per ou-

tsourcing. Tuttavia i due termini non possono essere visti come sinonimi in quanto

quest'ultimo coinvolge un'azienda straniera, la quale si occupa attivamente della pro- duzione, mentre la delocalizzazione non concede necessariamente tale libertà a terzi ed il processo di realizzazione del prodotto rimane sotto stretto controllo dell'azienda d'origine.

Con la delocalizzazione all'estero dell'apparato produttivo (parziale o integrale) segue anche un adattamento non sempre facile della struttura organizzativa e della gestione operativa. Si instaurano nuovi rapporti di sub-fornitura con attori esteri e si assiste in genere ad una collaborazione con figure già attive sul terreno straniero, dotate di espe- rienza e contatti con terzi. Si sfrutta la manodopera straniera a basso costo, spesso motivo principale di tale scelta strategica ma si investono i maggiori sforzi nel mante- nere la qualità del prodotto precedentemente realizzato in Italia, secondo gli standard prestigiosi del Made in Italy.

Il fenomeno della delocalizzazione produttiva del settore TA italiano si presenta in modo più insistente e diffuso a partire dagli anni Novanta (Fig. 21) per poi intensifi- carsi nel primo quinquennio del nuovo secolo.

Fig.21 Struttura produttiva del settore TA italiano (Cancrini, 2006, p. 152)

Come evidenziato dalla figura 21, la struttura produttiva del TA italiano subisce delle prime rilevanti modifiche a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo.

passando da un 13,2% alla fine degli anni Novanta ad un 20,7% nel 2004, a scapito di terzisti e di connazionali.

Le principali mete delle industrie italiane sono rappresentate da Romania, Tunisia, Turchia per poi concentrarsi verso la Cina. Il territorio cinese viene riconsiderato negli anni poiché da un lato la manodopera dei Paesi dell'Est Europa e del centro Europa subisce un aumento dei costi, dall'altro perché l'economia cinese ed il potenziale rap- porto economico-commerciale con la Cina prospettano una collaborazione più profi- cua e a lungo termine.

L'internazionalizzazione tramite la modalità in esame avviene in genere in base ad una delle seguenti strategie:

 Market-oriented, con lo scopo di avvicinarsi al mercato di sbocco ed offrire rapidi servizi ai clienti, abbattendo i costi di trasporto, migliorando la propria reputazione, sviluppando le politiche interne di marketing ed aggirando le bar- riere protezionistiche (in particolare i dazi doganali);

 Supply or cost-oriented, giustificata specialmente da questioni economiche in quanto si riducono i costi della forza lavoro, del terreno, delle risorse utilizzate così da incrementare i profitti. Il prodotto finito rientra in genere nel Paese d'origine dell'azienda e viene venduto nel territorio nazionale o nei mercati esteri più tradizionali (Faraone, 2009, p. 45; Cancrini, 2006, pp. 150-151).

Oltre agli evidenti vantaggi legati ai costi, l'azienda delocalizzata accumula inevitabil- mente maggiore esperienza da sfruttare negli scambi commerciali nazionali ed inter- nazionali, giocando un ruolo di maggior rilievo e godendo di una più elevata competi- tività. Con lo spostamento all'estero, inoltre, ha la possibilità di intrecciare nuovi rap- porti economici, espandendo il proprio mercato e la propria influenza.

All'interno degli studi di fattibilità, un'azienda non solo deve selezionare la strategia da seguire ma definisce anche verso quale Paese indirizzare il processo di delocalizza- zione produttiva. In base alla strategia e quindi alle necessità e agli scopi individuati, l'industria avvia una sorta di processo di selezione considerando le caratteristiche del

Paese ospitante, la concorrenza presente e una lunga serie di fattori legati ai costi (ri- sorse umane e naturali, infrastrutture e terreni, spese logistiche, fiscali eccetera) e all'a- deguatezza del luogo. Inoltre è necessario non vengano sottovalutati gli ostacoli innal- zati dal nuovo sito, quali barriere linguistiche, culturali, percezione da parte dei citta- dini e dei lavoratori stranieri.

Per meglio comprendere la scelta da parte delle aziende di delocalizzare o meno la produzione, è interessante leggere i dati riportati da Davide Castellani (Castellani, 2007, pp .469-475) riferiti alla nona Edizione dell'Indagine sull'imprese manifatturiere condotta da Capitalia. Tale indagine risale al 2004 e coinvolge quasi 5000 imprese italiane operanti nell'industria manifatturiera, le quali si presentano come protagoniste del processo di internazionalizzazione. Il settore manifatturiero e, nello specifico quello del TA, risulta essere infatti tra i comparti più adatti al trasferimento produttivo oltreconfine, poiché richiede un'elevata quantità di forza lavoro, non necessariamente qualificata ad alti livelli.

Tra i risultati di tale indagine ci soffermiamo ora sulle motivazioni dichiarate dai par- tecipanti riguardanti l'avvenuta, o non, delocalizzazione della fase produttiva (Figg. 22-23).

Fig.22 Motivi che hanno indotto le imprese a delocalizzare parte della produzione all'estero (nel periodo 2001-2003)

Com'era prevedibile la ragione più comune che ha spinto le imprese alla delocalizza- zione ha radici economiche: oltre il 50% afferma di aver ricercato un risparmio di risorse umane e naturali a basso costo così da poter ridurre i prezzi e mantenere il proprio livello di competitività all'interno dell'arena internazionale. Circa 50 aziende invece dichiarano di aver perseguito una strategia di stampo market-oriented, giustifi- cando la scelta con la vicinanza ai mercati di sbocco. Gli intervistati risultano invece meno sensibili ai possibili vantaggi fiscali in territorio estero e in minor misura inte- ressati e coinvolti in potenziali agevolazioni in tema di responsabilità sociale.

La Figura 23, invece, racchiude quelli che sono risultati essere i principali ostacoli e dubbi presentatisi alle aziende indecise sul futuro della produzione interna e le stesse hanno optato infine per un rifiuto alla delocalizzazione delle strutture produttive.

Fig.23 Motivi che hanno indotto le imprese a NON delocalizzare la produzione all'estero (nel periodo 2001-2003)

(Castellani, 2007, p. 475)

Il grafico evidenzia che l'indagine, oltre ad aver ricevuto molte risposte non previste dal questionario, ha ottenuto maggior riscontro in due motivazioni. La prima trova

giustificazione nella temuta difficoltà a livello logistico ed organizzativo nello svol- gere le operazioni a causa della lontananza geografica, mentre un differente numero di aziende frena la sua corsa all'internazionalizzazione per trasferimento in mancanza di personale qualificato e professionalmente adeguato. Le imprese che decidono di spo- stare parte delle operazioni investono infatti, non solo in nuove tecnologie ed innova- zioni di prodotto e processi, ma anche in figure professionali capaci di adattarsi al nuovo ambiente e stabilire una rete funzionale di rapporti tra la sede originale e le filiali estere. Il capitale umano disponibile a molte aziende non appare adeguato e ne- cessariamente specializzato, per questo l'azienda non si sente abbastanza armata per affrontare la competizione oltre i confini nazionali. Oltre alla ritenuta inadeguatezza di tali figure, un'ulteriore difficoltà riscontrata da un numero di poco inferiore alle 500 imprese coinvolte, è legata alla problematica individuazione di collaboratori in loco, attori indispensabili per un inserimento di successo nel nuovo ambiente.

In conclusione possiamo affermare che in Italia il processo di FIP procede oggi con maggior ottimismo ed energia, dopo una prima fase di perplessità e timori giustificata anche dalla dimensione contenuta delle nostre imprese. Lo spostamento delle fasi pro- duttive richiede un ingente investimento di capitali ed un costante impegno a livello logistico ed organizzativo, con un coinvolgimento di manager e ricercatori. La specia- lizzazione e la relativa struttura distrettuale del TA italiano frenano ulteriormente l'in- ternazionalizzazione in quanto la tipica composizione del nostro complesso industriale risulta difficilmente riproducibile all'estero, dove mancano gli intermediari di fiducia che collegano i processi a monte e a valle.

L'azienda inoltre, può perdere la tanto sudata fidelizzazione del cliente, il quale associa la delocalizzazione produttiva ad una perdita di qualità del prodotto e credibilità dell'impresa. Il consumatore potrebbe interpretare il trasferimento come un'ancora di salvataggio afferrata da un'azienda in possibile crisi e dunque decidere di non investire ulteriore denaro in beni non più prestigiosi. Altra percezione comune da parte dei clienti nel Paese d'origine si traduce in un senso di risentimento verso l'azienda. I con- nazionali possono condannare l'impresa delocalizzata, complice della crisi occupazio- nale e della perdita di innumerevoli posti di lavoro. Tuttavia questa sensazione viene smentita empiricamente da molti casi di aziende italiane che da anni guardano oltre i confini nazionali. In breve si è riscontrato che quando un'industria delocalizza (con

successo) la produzione riesce a ridurre le spese a favore di un incremento sostanzioso dei profitti e parte di tale capitale viene investito nel potenziamento dell'azienda stessa tramite tecnologie e capitale umano, necessari per mantenere standard più elevati e competitivi. Non viene meno dunque la domanda di manodopera bensì si assiste ad un mutamento della composizione del personale: aumenta la componente richiesta di fi- gure qualificate e di operai specializzati, mentre le funzioni più basilari vengono la- sciate agli assunti oltre confine (Prota; Viesti, 2007, p. 409).

In conclusione, la delocalizzazione può essere accompagnata da un forte aumento de- gli indici di redditività, una ricchezza che rientra in patria con prodotti concorrenziali, accessibili a più categorie di consumatori e con l'offerta di prestigiosi e remunerativi posti di lavoro.

4. Il caso CAPE HORN

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