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In questo quarto e ultimo capitolo viene presentata la dimensione politica del design critico- speculativo come il campo d'azione privilegiato per questo tipo di pratiche.

La dimensione politica viene introdotta a fronte di una riflessione sui limiti di queste pratiche: all'inizio di questo capitolo vengono infatti discusse alcune criticità, o punti deboli, che possono mettere in discussione la validità di questi progetti (capitolo 4.1). Se il design critico-speculativo è stato ridefinito in base alla propensione a costruire nuove forme di conoscenza critica e situata in merito a un determinato fenomeno, come è possibile misurare l'utilità sociale di queste forme di conoscenza, ovvero la loro capacità di modificare – o di mettere in discussione – l'orizzonte cognitivo entro cui il fenomeno in questione viene solitamente percepito e rappresentato?

A fronte di questa domanda verrà discussa l'idea secondo cui queste pratiche acquisiscono un valore sociale là dove riescono a rappresentare determinate situazioni conflittuali, articolando quelle prospettive o tensioni che solitamente rimangono escluse o che vengono travisate nelle

rappresentazioni convenzionali. In questo senso si fa riferimento a una dimensione politica del design critico-speculativo (capitolo 4.2).

4.1. La critica al design critico-speculativo

L'analisi della letteratura e la discussione sulla casistica che è stata proposta nel capitolo 2, così come la descrizione dei quadri teorici di riferimento per le pratiche critico-speculative condotta nel terzo capitolo, seppur in modo sporadico e discontinuo, hanno portato a galla alcune incongruenze e alcuni limiti di queste pratiche, che di fatto ne mettono a repentaglio il potenziale critico. In questa prima parte del quarto capitolo torneremo su queste criticità, cercando di organizzarle e presentarle in maniera più coerente e approfondita. Prima di entrare nel dettaglio è bene precisare che tipo di critiche sono state considerate, e motivare le ragioni per cui diverse voci e prospettive, che negli ultimi anni hanno sollevato dubbi a proposito del design critico-speculativo, sono state invece tralasciate. Rischiando di semplificare e di generalizzare posizioni diverse, può comunque essere utile radunare queste prospettive attorno a due polarità. Da una parte troviamo quelle argomentazioni e quei punti di vista esterni al design critico-speculativo, e che faticano a includere questo genere di pratiche

all'interno del mondo professionale e accademico del progetto, mettendone in discussione la

legittimità. Queste posizioni sono generalmente accomunate da una diffidenza verso qualsiasi progetto e lavoro di design che si sottrae al modello “problem-solving” e che rinunciando all'input di un cliente esterno cerca di formulare autonomamente – o in collaborazione con altre figure professionali o del mondo accademico – una domanda di design la cui risposta non è necessariamente legata all'effettiva produzione materiale (di un prodotto, di un messaggio, di un ambiente o di un servizio). In questa sede si è però deciso di non considerare questo genere di critiche, dato che il valore delle pratiche

progettuali che rinunciano alla produzione materiale e alla distribuzione dei propri prodotti attraverso i convenzionali canali del mercato è oggi riconosciuto all'interno del mondo accademico e

professionale, ed è di fatto sottinteso dall'ambito della “research through design” (Koskinen et al. 2011)298.

298Le pratiche e le metodologie di ricerca che fanno riferimento a quel modello progettuale che viene chiamato “problem-posing” o “problem-setting” sono ormai riconosciute come un'estensione necessaria anche all'interno degli ambiti progettuali finalizzati alla produzione materiale di beni di consumo, servizi e ambienti. In un certo senso l'approccio progettuale descritto dal concetto di “problem-posing” (Blauvelt e Davis 1997) è già implicito nell'idea di “design thinking”: “By constructing prototypes, scenarios, role- playing, and body-storming we explored how to refine the design of those new things we were bringing into the world. Such design research applied whether we were developing a smart phone, reinventing a bank branch, conceiving a premium service for an airline, or creating new systems and processes for a fast-food company. It embodied the approach reflected in the current discourse about design thinking and “business in beta” which encourages companies to learn by doing – to commit resources to experimentation and

prototyping as an on-going process” (Koskinen et al. 2011, p. X). Mentre nelle riflessioni di Blauvelt, questo approccio deve essere direzionato verso la produzione di una posizione critica, nel “design thinking” la fase di ricerca rimane ancorata alla produzione materiale di un prodotto, ambiente o servizio. Questa tensione delle pratiche progettuali verso la produzione di conoscenza o la costruzione di strategie e scenari, implicito nel concetto di “design thinking”, viene riconosciuta anche da Margolin (“The emergence of design thinking in the twentieth century is important in this context. […] Designers, are exploring concrete integrations of knowledge that will combine theory with practice for new productive purposes, and this is the reason why we

La seconda polarità può invece essere intesa come una tipologia di critica interna allo stesso ambito del design critico-speculativo. Le posizioni interne in cui vengono formulati dubbi, perplessità e contraddizioni rispetto a questo tipo di pratiche sono quindi finalizzate a promuovere una discussione disciplinare per dare fondamento e rafforzare quelle stesse pratiche. Non a caso molti degli autori che esprimono queste prospettive sono già stati citati e presi come riferimento per argomentare l'analisi della casistica del secondo capitolo, così come la ridefinizione di design critico-speculativo formulata nel terzo capitolo. Si è deciso quindi di considerare, presentare e discutere questa seconda tipologia di critiche, nel tentativo di evidenziare i problemi di una serie di pratiche che, pur non aspirando a tracciare una strada maestra all'interno della disciplina del design, rivendicano comunque una certa validità sociale. Questa discussione si concentrerà soprattuto su due questioni irrisolte: la deriva artistica del design critico-speculativo (4.1.1) e la difficoltà di misurare l'impatto sulla realtà sociale in cui opera (4.1.2).

4.1.1. La deriva artistica

Il primo aspetto problematico in merito alle pratiche e ai progetti del design critico-speculativo fa in realtà riferimento a una questione storica irrisolta, ossia il rapporto tra design e arte299. Tale questione è riemersa con una certa insistenza tra la fine del XX secolo e l'inizio del XXI – in concomitanza cioè con la fase postmoderna del design, con lo sviluppo di una consapevolezza intorno alla sua dimensione culturale e soprattutto con le sperimentazioni progettuali del design critico-speculativo. Con

l'espressione “deriva artistica” del design s'intende quindi la propensione a incorporare e a imitare processi, metodologie e strumenti tipici delle pratiche artistiche, così come la tendenza a utilizzare o a fare riferimento agli stessi canali, infrastrutture, istituzioni e risorse del mondo dell'arte. In queste senso la deriva artistica non riguarda solamente gli aspetti progettuali interni alla disciplina, ma anche e soprattutto quelli esterni: il designer che adotta un approccio critico-speculativo non desta sospetti soltanto perché la sua pratica progettuale sembra a tratti indistinguibile da quella di un'artista, ma anche perché le strategie o i canali con cui finanzia, pubblica e diffonde il suo lavoro si

sovrappongono spesso a quelli utilizzati dagli artisti. Questa diffidenza, che in alcune occasioni raggiunge dei toni decisamente aspri300, è alimentata non solo da molti dei progetti del design critico-

turn to design thinking for insight into the new liberal arts of technological culture”, Margolin 1992, p. 6) e più recentemente anche da Metahaven (“Design thinking is – by its inventor – seen as a higher, strategic form of design. It outsources the actual making to others, while it talks about design ideas and strategies in a way which more directly ties in with boardroom-level decision-making”, Metahaven 2009a, p. 257).

299Una buona panoramica sul rapporto tra graphic design e arte è contenuta nel capitolo “Graphic design and art”, all'interno del testo Graphic design as communication, di Malcolm Barnard (pp. 162-178).

300In un articolo comparso sulla rivista Print Magazine, il critico Rick Poynor afferma: “If critical graphic design is more than an aloof intellectual pose, it should spend less time hanging out with artists, turn its intelligence outward, and communicate with the public about issues and ideas that matter now” (Poynor 2008b). In modo ancora più perentorio, Tonkinwise afferma: “If it is in gallery, it is art. If it is in a gallery, it is circumscribed and so impotent” (https://medium.com/@camerontw/just-design-b1f97cb3996f)

speculativo301, ma dalla stessa letteratura, che spesso pone tra i propri riferimenti e precedenti storici esempi tratti dall'arte del XX secolo302.

Gli stessi Dunne e Raby hanno contribuito a espandere questa sorta di zona grigia in cui pratiche artistiche e di design sembrano confondersi e mischiarsi. Nel loro Speculative Everything, i due designer affermano: “We have long been inspired by radical architecture and fine art that use

speculation for critical and provocative purposes” (Dunne e Raby 2013, p. 6), mentre poche pagine più avanti citano direttamente le “Sentences on Conceptual Art” di Sol LeWitt (p. 14). Nonostante nello stesso libro venga poi ribadita la necessità di distinguere le pratiche artistiche da quelle del design speculativo, di fatto questa differenza non viene mai approfondita o chiarita. Jeffrey e Shaowen Bardzell hanno fatto emergere l'incongruenza o l'ambiguità che attraversa non solo i progetti e i testi di Dunne e Raby, ma in generale tutta l'esperienza del Critical Design anglosassone303. I due ricercatori sostengono che la distinzione tra design e arte propugnata dal Critical Design non è una distinzione “ontologica” – non segna cioè una differenza implicita e costitutiva tra le due pratiche – ma dipende dalle specifiche caratteristiche di ogni progetto: “Their answer seems to be that any given good critical design walks a fine line: 'Too weird and it will be dismissed as art, too normal and it will be

effortlessly assimilated'. But this answer suggests that it is the individual design, not the ontological category to which it belongs (i.e., art vs. critical design), that determines its critical effects” (Bardzell e Bardzell 2013).

Queste osservazioni non trovano conferma solamente nei testi di riferimento del Critical Design, ma soprattutto nella sua produzione progettuale. Gli stessi Dunne e Raby ribadiscono più volte come lo spazio museale e l'evento-mostra costituiscano il luogo e il momento privilegiati per presentare gli output di un progetto a un pubblico304. Il Critical Design si è fatto conoscere al di fuori dell'ambiente accademico soprattutto grazie all'organizzazione di mostre, sia attraverso il format dell'esibizione finale di un corso di laurea che attraverso la collaborazione con musei, fondazioni e curatori305. Molte

301Gli stessi progetti presentati nel capitolo 2 e 3 sono spesso frutto di collaborazioni con artisti, o vengono finanziati e promossi da istituzioni e fondazioni d'arte.

302Ad esempio, nel testo Introduction to Speculative Design Practice, Ivica Mitrovic scrive: “Today’s speculative designers would rightfully, of course, make a reference to the heritage of avant-garde and neo- avant-garde of the 20th century, modernism, various utopian visions and projections of close and usually better future by various architects, artists and designers” (Mitrovic 2016). Riferimenti alle avanguardie, alle neo-avanguardie e all'arte concettuale compaiono anche in Dunne e Raby (2013), Laranjo (2015b) Mazè e Redström (2007), Mazé (2009).

303“By identifying critical designs as artifacts that bring about criticality; as aesthetic artifacts that operate (epistemologically at least) outside of global capitalism; and as artifacts that foreground provocation and transgression, the staging of existential situations, and the exposition of cultural assumptions, Dunne and Raby deploy a conceptual vocabulary strongly associated with art” (Bardzell e Bardzell 2013).

304“So far, the exhibition has been the main platform for us. Although projects might have developed in different contexts, the exhibition serves as a form of reporting space for presenting the results of research and experimentation” (Dunne e Raby 2013, p. 140).

305Tra le oltre cento mostre ed esibizioni elencate sul loro sito, vale la pena ricordare: Strangely Familiar:

Design and Everyday Life (2003), Walker Arts Center (Minneapolis, USA); Designing Critical Design

(2007), Arts centre Z33 (Hasselt, Belgio); Design and the Elastic Mind (2008), MoMA (New York, USA);

Wouldn't it Be Nice (2008), Somerset House (Londra, UK); What If… (2009, curata dagli stessi Dunne e

Raby), Science Gallery (Dublino, Irlanda), (2011) National Museum of China, Beijing International Design Triennial (Pechino, Cina); Between Reality and the Impossible (2010), Saint Etienne International Design

delle posizioni critiche che fanno riferimento alla sovrapposizione tra arte e design insistono proprio sulla scelta di quella fruizione che avviene all'interno della “white room” di un museo a quella che ha luogo in un ambiente domestico o quotidiano: “the artifacts being promoted by Speculative Everything are not to be experienced in everyday life, but instead exist primarily within carefully curated

exhibitions, alongside high-end photography and textual fragments from the scenario being exhibited or about the exhibition as a whole. Images of the artifacts as exhibited then circulate in the media” (Tonkinwise 2014). Secondo questo tipo di critica lo spazio museale funzionerebbe da anestetico, disinnescando e neutralizzando le potenzialità e le istanze critiche del progetto.

Le ragioni che portano i progetti del Critical Design, ma in generale del design critico-speculativo, a prediligere il contesto di musei, gallerie e fondazioni per presentare il proprio lavoro sono diverse. Secondo Laranjo, uno dei principali motivi va ricercato nei tagli ai fondi destinati a incentivare attività di ricerca e altre pratiche culturali – un fenomeno tipico delle politiche economiche degli stati europei negli anni a cavallo tra la prima e la seconda decade del XXI secolo306. Altri autori e designer hanno invece visto nel museo l'approdo più consono per una tipologia di progetti che si distingue per il suo carattere speculativo (Mallol 2010). Secondo questa prospettiva, l'attività speculativa incorporata in un progetto di Critical Design è spesso sinonimo di costruzione di scenari futuri rivolti ad anticipare e prefigurare trend e tendenze già riscontrabili nel presente. Il progetto al centro di questi scenari prende quindi la forma del prototipo, il cui effettivo funzionamento non è garantito dalle possibilità

tecnologiche a disposizione. In questo senso l'output di un progetto di Critical Design normalmente non può essere riprodotto secondo gli standard del mercato; spesso anzi, il progetto viene declinato e sviluppato attraverso diverse strategie di comunicazione – filmati, documentari, produzione

fotografica, costruzione di scenari o ambienti – necessarie per simulare i cambiamenti prodotti dal prototipo in questione e per misurarne quindi l'impatto sulla vita sociale delle persone307. Questo limite – tipico del Critical Design e in generale di quel design in cui la speculazione viene rivolta verso situazioni o condizioni future – ha quindi portato i suoi autori e progettisti a prediligere lo spazio museale, dato che non vi è la necessità di presentare un prodotto finito e perfettamente funzionante. Tuttavia questa scelta non è priva di problemi e spesso ha portato diversi autori a interrogarsi sulle sue conseguenze308. Secondo questi autori il maggiore rischio implicito nella scelta dello spazio museale come principale dispositivo di pubblicazione e di diffusione riguarda quella che nel capitolo 2.3.1 è stata chiamata la spettacolarizzazione del Critical Design o del design speculativo. Ma se in quella sede la deriva spettacolare veniva indicata come conseguenza di una scelta progettuale interna – e cioè

Biennale; The Future is not What it Used to Be (2014), 2nd Istanbul Design Biennial (Istanbul, Turchia);

Hello Robot (2017), Vitra Design Museum (Weil am Rhein, Germania).

306“In the mid-2000s graphic design was openly flirtatious with fine art. […] With severe cuts to arts funding as a consequence of the austeriterian politics spread across Europe, museums and art galleries became the remaining (semi)public platforms that allowed designers to display their research” (Laranjo 2015b).

307Carl DiSalvo parla infatti di “combined use of visual representation and physical prototypes to communicate the potential of use” di un progetto di Critical Design (DiSalvo 2012a, p. 120).

308“if critical and speculative design are presently and trendily closer to Art Basel and Frieze Art Fair than the streets and public forums other than art museums, then there is a need for further debate.” (Laranjo 2015b).

la fascinazione verso gli immaginari fantascientifici come rischio implicito nella speculazione rivolta verso il futuro – in questo caso viene messa in relazione con la modalità di fruizione tipica dello spazio espositivo. In altre parole, presentare un lavoro che, almeno sulla carta, incorpora una dimensione critica dentro una teca posta su di un piedistallo porterebbe i suoi fruitori a prediligere le componenti estetiche di quel lavoro. Per questa ragione DiSalvo dichiara che “It is fair to ask if trading on aesthetics is a problem because it flirts with an exploitative aestheticization of the political” (DiSalvo 2012a, p. 120).

Posti di fronte a questa domanda, le risposte formulate dai ricercatori e dai designer vicini al Critical Design – ma in generale alle pratiche critico-speculative – offrono diverse prospettive con cui valutare la legittimità e la funzionalità dello spazio espositivo e delle modalità di fruizione offerte dal museo. Jeffrey e Shaowen Bardzell si schierano apertamente contro questa tendenza: “A better strategy would have been to say that critical design and art may or may not overlap, but that critical design, tactically speaking, should not be absorbed into the social practices of the artworld, with their institutional structures of exhibitions, museums, and funding” (Bardzell e Bardzell 2013). Secondo i Bardzell la distinzione tra pratiche artistiche e progettuali dovrebbe quindi manifestarsi nelle modalità con cui un progetto viene presentato e inserito all'interno del contesto culturale in cui intende diffondere la propria prospettiva critica. Non lo spazio protetto del museo, quindi, ma piuttosto gli ambienti domestici e quotidiani in cui un prodotto o un servizio andrebbe utilizzato e fruito: “critical design works best when it is operating within industry and commerce, not because art can’t get into everyday life, but rather because it is easier to get design into everyday life in predictably quotidian ways. If one composes a sonata, it is hard to anticipate any particular public reception of it, but if one builds an app, one can get it onto people’s mobile devices and see what happens (at worst by paying research

subjects to do so as part of a study). It is the comparative ease with which design can be dropped into everyday life (in contrast to art) that makes it appealing as a medium for critical research” (Bardzell e Bardzell 2013). L'argomentazione dei due ricercatori è piuttosto solida: se fruito entro lo spazio museale un progetto critico-speculativo verrà probabilmente giudicato e valutato soprattuto per i suoi elementi estetici o per la capacità dello scenario narrativo di catturare l'attenzione dell'osservatore e di proiettarlo nel mondo immaginato e generato dal “What if…” con cui è stata sviluppata l'ipotesi speculativa di partenza. Questo tipo di fruizione porterebbe quindi a oscurare le prospettive critiche del progetto. Ma se invece l'output del lavoro viene in qualche modo messo a disposizione nel suo reale contesto d'uso, allora sarà possibile “misurare” le reazioni dei suoi utenti – si avranno cioè più probabilità di capire se il progetto sia in grado di modificare il comportamento di chi lo utilizza o di metterlo in contatto con la prospettiva critica incorporata. In questo senso il rischio della

spettacolarizzazione potrebbe essere superato, o per lo meno messo alla prova, dal momento che uno dei vantaggi offerti dalle pratiche progettuali risiede nella loro capacità di produrre artefatti, oggetti, dispositivi che si inseriscono nella dimensione quotidiana delle persone. Un progetto avrebbe allora l'opportunità di costruire e diffondere la propria argomentazione o prospettiva critica non con

un'astrazione logica ma attraverso l'utilizzo che gli utenti fanno dell'oggetto, artefatto o dispositivo in questione – e quindi attraverso pratiche e comportamenti sociali.

Tuttavia altri autori hanno cercato di rivalutare alcune delle potenzialità offerte dallo spazio museale che favorirebbero una fruizione critica da parte dell'osservatore. Tra questi troviamo, oltre ovviamente agli stessi Dunne e Raby309, anche il docente e teorico statunitense Benjamin Bratton. Bratton fa riferimento ad alcuni possibili vantaggi che il contesto museale e lo spazio dell’esibizione artistica possono offrire ai progetti del design critico-speculativo. Riferendosi al progetto Autonomy Cube310 frutto della collaborazione tra il già citato Trevor Paglen e il ricercatore e hacker Jacob Appelbaum e presentato in diversi musei e gallerie [fig. 4.1.a] – Bratton fa notare come “Outside the gallery, the device may have been confiscated or otherwise intercepted, but inside the gallery – where mimesis takes precedence – the sculpture is granted a kind of asylum and immunity from prosecution. […] SD [Speculative Design] is a zone where the tactical exceptions to norms can be granted and where, thereby, new norms are prototyped with some impunity” (Bratton 2016). Secondo Bratton lo spazio artistico può in certi casi garantire una legittimità a quei progetti dal forte carattere politico e polemico che si muovono nei coni d’ombra della legalità o dell’etica. In questo senso lo spazio museale

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