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Verso un nuovo orientamento del design critico speculativo : pratiche progettuali, produzione e articolazione dei conflitti

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Academic year: 2021

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Università Iuav di Venezia Scuola di dottorato

DOTTORATO IN SCIENZE DEL DESIGN XXIX ciclo, 2014-2016

VERSO UN NUOVO ORIENTAMENTO DEL DESIGN CRITICO-SPECULATIVO Pratiche progettuali, produzione di conoscenza e articolazione dei conflitti

candidato Andrea Facchetti relatore

Prof.ssa Emanuela Bonini Lessing coordinatore

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Abstract

Questa tesi propone un’indagine intorno agli approcci speculativi e alle pratiche critiche che sono emerse negli ultimi decenni all'interno del campo del design, e che oggi ne costituiscono un'estensione riconosciuta. L'obiettivo della ricerca è di determinare in quali condizioni questi approcci critico-speculativi sono in grado di costruire forme di conoscenza critiche e “situate”, orientando le pratiche progettuali verso l'articolazione e la ridefinizione di un determinato problema, piuttosto che verso la sua risoluzione. Dopo un inquadramento generale del campo d'indagine in cui s'inserisce la ricerca (cap. 1), viene restituita una mappatura critica dello stato dell'arte attraverso un'analisi dei casi più significativi di design critico-speculativo (cap. 2). Questa mappatura servirà per descrivere la pluralità di approcci e di pratiche che questo termine porta con sé, e per farne emergere sia le strategie progettuali più interessanti che i limiti e le lacune. A fronte di questa analisi vengono introdotti alcuni concetti teorici presi a prestito da altri ambiti disciplinari: in particolare si farà riferimento al campo di ricerca delle politiche della rappresentazione e al concetto di “situated knowledge” emerso nel campo dei cultural studies e della filosofia politica (cap. 3.1). Le idee di critica e di speculazione verranno quindi ripensate e riconfigurate, integrando l'analisi del capitolo 2 con le prospettive teoriche emerse da questi nuovi concetti. Attraverso questa riconfigurazione si cercherà di delineare una metodologia progettuale attraverso cui la speculazione è in grado di costruire una conoscenza critica e “situata” (cap. 3.2). Verranno infine discusse le potenzialità che il design critico-speculativo acquisisce nell'ambito politico, per dimostrare come queste pratiche possano inserirsi nei processi di articolazione e rappresentazione dei conflitti e delle tensioni politiche e sociali (cap. 4).

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Indice

Introduzione

1. Il design tra forme di visualizzazione e produzione di conoscenza 1.1. La svolta iconica nei visual culture studies

1.1.1. Conoscere guardando: processi di visualizzazione e produzione di conoscenza

1.1.2. La performatività delle immagini 1.1.3. Il ruolo della critica

1.2. Il pluralismo del design

1.2.1. Il design come attività normativa e culturale 1.2.2. Il dibattito sul graphic design postmoderno

1.2.3. Verso una nuova articolazione del rapporto tra critica e progetto 2. Pratiche critiche e approcci speculativi

2.1. Jan Van Toorn e il visual journalism

2.1.1. Forme riflessive e dialogiche nel design della comunicazione 2.1.2. Limiti delle pratiche critico-riflessive

2.2. Cartografie radicali: la mappa come testo culturale 2.2.1. Introduzione alla cartografia critica e radicale 2.2.2. J.B. Harley: la mappa come costruzione culturale

2.2.3. Pratiche e strategie di visualizzazione nella radical cartograhy 2.3. Il Critical Design anglosassone

2.3.1. La critica al Critical Design 2.4. Approcci critici al design dell’informazione

2.4.1. Johanna Drucker e l'approccio umanistico 2.4.2. Visualizzazioni critiche

2.5. Il design think-tank di Metahaven

2.5.1. Per una ridefinizione del rapporto tra design, ricerca, conoscenza e speculazione

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3. Verso una ridefinizione del design critico-speculativo 3.1. quadri teorici di riferimento

3.1.1. Condizioni di visibilità e politiche della rappresentazione 3.1.2. Conoscenza situata

3.2. Le strategie progettuali del design critico-speculativo 3.2.1. Network visualization

3.2.2. Layering 3.2.3. Straniamento 3.2.4. Camouflage

4. La dimensione politica del design critico-speculativo 4.1. la critica al design critico-speculativo

4.1.1. la deriva artistica

4.1.2. considerazioni sull'efficacia del design critico-speculativo 4.2. Approcci speculativi e articolazione dei conflitti

4.2.1. Dal design a-politico al design come articolazione dei conflitti

4.2.2. La speculazione come strategia progettuale per l'articolazione dei conflitti 5. Conclusioni

6. Bibliografia 7. Apparato visivo

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Introduzione

Questa ricerca nasce per investigare un tema controverso e dibattuto nel mondo del design, il rapporto tra le pratiche progettuali e la possibilità di costruire, attraverso quelle pratiche, una critica alla realtà sociale in cui operano, nella speranza di esercitare una pressione su di essa, e per produrre quindi un qualche tipo di cambiamento. Tale questione, che accompagna la storia del design fin dall'Art and Crafts di William Morris, ha contraddistinto la fase forse più significativa della disciplina, il Bauhaus, e ha dato vita, nel corso del XX secolo, a diverse esperienze, sperimentazioni e riflessioni che hanno cercato in vario modo di incorporare una prospettiva critica nella propria attività progettuale. Non si pretende qui di analizzare e discutere la storia del design critico, e nemmeno la storia della critica al design che è emersa in vari ambiti della ricerca sociale, della filosofia e dei media studies, anche se quelle riflessioni e quelle esperienze rappresentano un riferimento obbligato, e hanno aiutato a definire alcuni importanti quadri teorici.

L'oggetto di questa ricerca è costituito invece dalle pratiche critiche del design emerse verso la fine del Novecento, e che nei primi anni del XXI secolo sono diventate un'estensione riconosciuta in diversi ambiti del mondo del progetto (Tonkinwise 2014). Nonostante l'importanza acquisita, queste pratiche – così come l'idea di critica applicata al progetto – sono ancora oggetto di un forte dibattito all'interno della comunità dei designer. La loro riluttanza a operare all'interno dei contesti e dei modelli

convenzionali per le pratiche del design pone infatti dei seri interrogativi sul futuro della professione. Inoltre la difficoltà di osservarne e analizzarne l'effettivo impatto all'interno dei contesti in cui

operano, costringe le pratiche critiche del design a interrogarsi sul proprio valore sociale. L'obiettivo di questa ricerca sarà allora di inserirsi nel dibattito teorico sulle pratiche critiche del design, cercando di descrivere i cambiamenti disciplinari che queste pratiche comportano, e al tempo stesso di

circoscriverne il valore sociale e il campo d'azione all'interno dei processi di produzione della conoscenza e nell'ambito delle politiche della rappresentazione. In altre parole si cercherà di dimostrare in quali condizioni il design critico può essere uno strumento per costruire nuovi

framework cognitivi all'interno dei quali riconfigurare e articolare una problematica o un aspetto della realtà.

Le pratiche critiche emerse negli ultimi vent'anni, nonostante vengano descritte e raggruppate attraverso diverse etichette – critical design, fiction design, speculative design, conceptual design, adversarial design, discursive design, ecc. – condividono e fanno propria l'idea secondo cui oggi il design debba essere considerato a partire dalla sua dimensione culturale e normativa. Questo significa che le teorie, gli strumenti e le metodologie implicate e utilizzate nella progettazione di oggetti, artefatti, dispositivi, servizi e ambienti, vengono comprese e praticate a partire dalla loro capacità di

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intercettare, orientare, modificare e determinare il pensiero, i comportamenti e le relazioni che interessano tanto i singoli individui che intere comunità. In questo senso le pratiche progettuali verranno inserite e considerate come una parte costitutiva dei processi di costruzione sociale della realtà. Ciò renderà necessario un confronto – presentato nel primo capitolo – con quegli autori e quelle teorie che negli ultimi anni si sono interrogati intorno alla dimensione epistemologica del design, e che quindi hanno analizzato le pratiche progettuali come attività che contribuiscono alla costruzione e alla diffusione di informazioni, significati, esperienze, immaginari, e quindi di forme di conoscenza. Va qui precisato come questa prima discussione – ma in generale l'intera ricerca – prediligerà quelle riflessioni e prospettive teoriche che, concentrandosi sulla dimensione estetica del progetto, analizzano i linguaggi e le forme visive, e quindi i processi con cui quei linguaggi e quelle forme vengono prodotti, diffusi e fruiti. Questo non significa che le pratiche progettuali che qui costituiscono l'oggetto dell'investigazione saranno circoscritte esclusivamente all'ambito del visual o graphic design; tuttavia i progetti e gli approcci discussi saranno analizzati a partire dalla loro dimensione visiva.

L'inclusione delle pratiche progettuali all'interno dell'ambito della “research through design”, così come la valorizzazione della loro dimensione normativa e culturale, obbligherà a riformulare l'idea di critica applicata al progetto. Posto di fronte al suo carattere normativo, il design che rivendica un ruolo critico per la società in cui opera sarà costretto a ripensare la propria attività al di là della formulazione di un giudizio tecnico o stilistico, o della funzione di smascheramento e di denuncia. All'interno della ricerca l'istanza critica sarà infatti rivolta a visualizzare e interrogare le condizioni di possibilità entro cui viene formulata e costruita una determinata forma di conoscenza. In questo senso le pratiche critiche del design che verranno prese in considerazione prediligono un approccio progettuale rivolto all'articolazione di una problematica, piuttosto che alla soluzione di un problema.

L'attività articolatoria costituirà il principale scarto tra il design critico emerso negli ultimi anni e le forme più tradizionali di critica applicata al progetto. Inoltre l'attività critica, interpretata come articolazione di una problematica, farà emergere il carattere speculativo di un progetto, dal momento che il suo obiettivo non sarà descrivere un fenomeno, ma produrre una sostanziale differenza nella comprensione di quel fenomeno. Al pari dell'idea di critica, anche il concetto di speculazione

attraversa l'intera storia del design. Si potrebbe infatti sostenere che l'attività speculativa stia al centro di qualsiasi progetto, dal momento che il design è sempre caratterizzato da una tensione dialettica tra reale e possibile, tra presente e futuro (Margolin 1997). Tuttavia in questa ricerca l'attività speculativa verrà messa direttamente al servizio dell'istanza o dell'impulso critico. In questo senso la speculazione verrà intesa come uno strumento d'indagine e di ricerca; servirà cioè a sviluppare e ad articolare una conoscenza critica intorno a un aspetto della realtà che viene preso in considerazione, cercando di introdurre una differenza o una distanza nel modo in cui quell'aspetto viene normalmente considerato. Nel secondo capitolo, la mappatura critica dei progetti – affiancata dalle riflessioni emerse nel

realismo speculativo e nella teoria critica – permetterà quindi di riformulare il concetto di speculazione soprattutto in relazione a tre punti: a) la speculazione verrà descritta come una reazione di fronte alla

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complessità e all'opacità della realtà fisica e sociale, e allo stesso tempo come un'attività in grado di produrre una differenza o una distanza rispetto alle immagini e alle rappresentazioni convenzionali di quella realtà; b) l'attività speculativa sarà messa in relazione con la produzione di una conoscenza critica; c) questa conoscenza critica verrà orientata verso una comprensione della realtà capace di includere quegli elementi, soggetti e fenomeni che solitamente ne sono esclusi, ma che partecipano comunque alla costruzione sociale di quella realtà.

La relazione tra critica e speculazione, oltre a motivare la scelta terminologica con cui sono state chiamate le pratiche del design oggetto di questa ricerca, funzionerà da criterio di selezione per individuare quelle esperienze e quegli approcci progettuali presentati, analizzati e discussi nel secondo capitolo. Attraverso questa analisi emergeranno le principali questioni teoriche a cui le pratiche critico-speculative del design fanno riferimento, e che nel terzo capitolo aiuteranno a descrivere i quadri concettuali impliciti in questo tipo di pratiche. Nello specifico si sosterrà l'ipotesi secondo cui l'attività epistemica di queste pratiche debba essere orientata verso l'idea di una conoscenza situata (Haraway 1988) – una forma di conoscenza che presenta i caratteri della contingenza, della parzialità e dell'instabilità. A seguito di questa riformulazione teorica del design critico-speculativo, verranno descritte quattro strategie progettuali impiegate per visualizzare le condizioni di possibilità che determinano la nostra comprensione di un certo aspetto della realtà sociale. Allo stesso tempo queste pratiche di visualizzazione speculativa consentiranno di articolare nuove condizioni con cui

rappresentare quell'aspetto, e di costruire quindi nuove forme di conoscenza critica e situata.

Nell'ultimo capitolo infine verranno discussi i limiti e i punti di maggiore criticità che questo tipo di pratiche portano con sé. Questa discussione ruoterà intorno a una questione: se il design critico-speculativo può essere riconfigurato in base alla capacità di costruire forme di conoscenza situata in merito a un determinato fenomeno, come è possibile misurarne il valore sociale, ovvero la sua abilità di modificare – o di mettere in discussione – l'orizzonte cognitivo entro cui quel fenomeno viene percepito e rappresentato? Questa domanda non troverà qui una risposta esaustiva, ma, seguendo lo stesso spirito con cui sono state riconfigurate le pratiche del design critico-speculativo, verrà articolata in una serie di questioni che chiameranno in causa il ruolo sociale e il significato politico della

professione. A loro volta tali questioni, pur rimanendo aperte, tracceranno i contorni di un approccio progettuale in cui la critica e la speculazione trovano la propria ragion d'essere nelle pratiche di rappresentazione e articolazione dei conflitti.

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1. Il design tra forme di visualizzazione e produzione di conoscenza

In questo primo capitolo viene offerta una panoramica del campo di ricerca in cui s'inserisce e si muove la tesi. Questo campo è costituito dall'insieme degli approcci teorici, delle metodologie e delle pratiche progettuali che il design – e in particolare il design della comunicazione visiva – utilizza per costruire, rappresentare e diffondere determinate forme di conoscenza. In particolare verrà discusso il ruolo che le forme espressive visive – e le pratiche del design che le producono – detengono nei processi di “costruzione sociale della realtà” (Berger e Luckman, 1966)1. Come vedremo, l'idea che i linguaggi visivi2 contribuiscano a costruire i fenomeni che descrivono è stata oggetto di analisi all'interno dei visual culture studies emersi verso la fine del XX secolo. Tuttavia all'interno di questo dibattito il ruolo del design – e in particolare del graphic design3 – è stato per lo più trascurato, nonostante al centro di quelle analisi troviamo artefatti e prodotti tipici delle attività dei designer della comunicazione: campagne pubblicitarie, programmi televisivi, loghi e corporate identity, infografiche, ecc. Il campo dei visual culture studies, pur rappresentando un passaggio obbligato per capire il

1 Nella Blackwell Encyclopedia of Sociology Stuart Henry descrive il processo di “costruzione sociale della realtà” teorizzato da Berger e Luckmann come “a series of interconnected social processes through which humans create institutionalized social phenomena that are seen as having an independent existence out side of the people who created them. In this process humans lose sight of their own authorship of the world, 'reifying' it into an apparent objective reality that then acts back on its producers”. All'interno di questo processo il ruolo della comunicazione, e di altre attività di interazione tra gli individui, assume quindi una posizione centrale (“Through communication humans construct categories to define the events they experience”). Tra gli elementi chiave di questa teoria, alcuni appaiono particolarmente interessanti per la ricerca: “social constructionists argue that knowledge or truth about the social world should not be

uncritically accepted as real or self evident; its taken for grantedness as a reality should be questioned. Thus, social constructionism takes a relativist epistemology rather than a realist one. […] commonsensical

assumptions and expert knowledge are historically and culturally bound to time and place. […] all knowledge is a result of social processes based on interaction and shared (intersubjective) meaning that is subject to negotiation by the participants involved. […] knowledge production is a political process, subject to being shaped by concentrations of interests with a view to producing social effects; in other words, knowledge is intertwined with power and social action” (Henry 2007, p. 1088). Queste considerazioni torneranno infatti più volte al centro delle analisi e delle discussioni sui progetti critico-speculativi del design.

2 La locuzione “linguaggi visivi”, al pari di “media visivi”, “artefatti visivi”, “rappresentazioni visive”, potrebbe sollevare alcune legittime obiezioni. Già nei visual culture studies autori come William J.T. Mitchell (2005) e Mieke Bal (2003) hanno criticato la presunta purezza che questi termini sembrano suggerire, come se un dato oggetto (si tratti di un quadro, di una fotografia, di una pubblicità o di una rappresentazione grafica) sia composto esclusivamente da elementi visivi o possa essere fruito solamente attraverso lo sguardo. Per comodità, ma tenendo bene in mente queste precisazioni, nel corso della ricerca queste locuzioni verranno comunque impiegate per indicare sia l'oggetto di studio dei visual culture studies, che più in generale quelle opere o prodotti la cui produzione e fruizione sembra prediligere il senso della vista e l'attività dello sguardo.

3 Anche il termine “graphic design” necessita qui di una precisazione. Se fin verso la fine del XX secolo poteva essere utilizzato senza troppi problemi per indicare l'ambito delle pratiche progettuali che maggiormente hanno a che fare con la comunicazione visiva, negli ultimi vent'anni il termine è stato “vittima” degli stravolgimenti tecnologici e sociali che hanno investito il mondo della comunicazione. All'interno della ricerca si utilizzerà quindi il termine “graphic design” facendo riferimento a un periodo storico che si conclude più o meno con la fine del Novecento, mentre per indicare le pratiche progettuali del XXI secolo si prediligerà il termine “visual design”.

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terreno d'indagine entro cui si muove la ricerca e per introdurre alcuni concetti chiave, manca ancora di una riflessione approfondita sul legame tra visual design e i processi di produzione di significati e forme di sapere. Questo legame, che ancora oggi è tutt'altro che scontato o determinato, è stato oggetto, soprattutto negli ultimi decenni del XX secolo, di un'accesa discussione che ha attraversato la comunità dei graphic designer. All'interno del cosiddetto dibattito sul design postmoderno, le questioni legate ai modi in cui un significato o una determinata forma di conoscenza debba essere approcciata in un progetto di comunicazione visiva, hanno costituito il terreno di confronto e di scontro tra diverse posizioni teoriche e sperimentazioni. Grazie soprattutto al contributo proveniente dalle riflessioni del post-strutturalismo e dei cultural studies – riflessioni che alcuni designer hanno saputo

contestualizzare e applicare nei propri progetti – il modello della “comunicazione come trasmissione” (Smith 1994; Barnard 2005) inizia a essere messo in discussione. Concetti quali “decostruzione”, “retorica visiva”, “negoziazione” e “riflessività”, una volta traslati nell'ambito della progettazione grafica iniziano a problematizzare l'idea – e l'ideale – di un design neutrale e trasparente. È in questo periodo quindi che iniziano a delinearsi alcune delle questioni teoriche, degli interrogativi e delle problematiche che ancora oggi attraversano e orientano le riflessioni e le sperimentazioni di quel design della comunicazione che rivendica un ruolo critico all'interno della società in cui opera. Più precisamente, è proprio da questo dibattito che emergerà e si rafforzerà un'idea “performativa” delle pratiche progettuali. In questa idea il design non si limita a trasferire forme di conoscenza e significati già dati e codificati secondo un linguaggio visivo ben definito, ma al contrario interviene direttamente nei processi di costruzione di informazioni, significati, discorsività e saperi. In altre parole la realtà non è più qualcosa di scontato che viene semplicemente descritto attraverso delle rappresentazioni, ma diventa il prodotto di una costruzione sociale – costruzione a cui il design partecipa in modo attivo attraverso le sue pratiche e i suoi strumenti.

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1.1. La svolta iconica e le teorie dell'immagine nei visual culture studies

I linguaggi visivi hanno assunto una presenza ingombrante nella nostra società. Le immagini vengono ormai prodotte in quantità impensabili fino a un secolo fa, tanto da farne il principale mezzo attraverso cui costruiamo e comunichiamo informazioni ed esperienze4. Questa osservazione è al centro di quella che viene definita la “svolta iconica” – iconic turn (Boehm 1994) o anche pictorial turn (Mitchell 1992, 2009) – l'idea secondo cui l'uomo organizza e dà un senso alla realtà in cui si trova immerso attraverso la produzione e la fruizione di immagini e rappresentazioni visive. La svolta iconica, emersa negli anni '90 del secolo scorso soprattutto dalle riflessioni di Gottfried Boehm e William J.T.

Mitchell, si forma dall'idea che nelle società contemporanee i processi cognitivi – cioè i modi in cui l'uomo ricompone i frammenti della realtà che lo ospita all'interno di un orizzonte di senso o di un quadro logico – e le attività di comunicazione e rappresentazione della conoscenza non possano essere ridotte al solo linguaggio e alla logica verbale, ma facciano ampio affidamento anche su forme

espressive visive.

Come ci ricorda Andrea Pinotti, il termine turn (“svolta”) potrebbe trarre in inganno, suggerendo una contrapposizione tra la logica verbale e quella visuale, tra il modo di esprimere e descrivere il mondo attraverso le parole e attraverso le immagini. In realtà uno degli obiettivi dei visual cultural studies è proprio quello di analizzare il rapporto e il gioco che si viene a instaurare tra elementi verbali e visivi all'interno di una forma di comunicazione o di rappresentazione5. Inutile quindi vedere nella svolta iconica le origini di una società completamente votata alle opere e agli artefatti visivi. Ciò che piuttosto emerge dalle riflessioni di Boehm, Mitchell e degli altri protagonisti dei visual culture studies è la necessità e l'urgenza di un approccio critico alla produzione, alla diffusione e alla fruizione delle immagini nel mondo contemporaneo – ciò che Hans Belting chiama iconologia critica6 e che Didi-Huberman associa al bisogno di “orientarsi nell'immagine”7.

Un'altra precisazione riguarda l'originalità delle riflessioni emerse dall'iconic turn. È sempre Pinotti, assieme ad Antonio Somaini, a ricordarci che “l'orizzonte di pensiero […] che da tempo va sotto il nome di iconic turn o pictorial turn […] non è affatto inedito o originale (né pretende peraltro di

4 “We acquire more information through vision than through all of the other senses combined. The 20 billion or so neurons of the brain devoted to analyzing visual information provide a pattern-finding mechanism that is a fundamental component in much of our cognitive activity” (Ware 2004, p. 2).

5 “Parlo di 'correlazione critica' nei confronti del linguistic turn e non di mera contrapposizione, poiché non si tratta di mettere semplicemente un turn al posto di un altro e di sostituire ingenuamente l’immagine al linguaggio come paradigma dominante e coloniale, passando dal logocentrismo all’iconocentrismo. […] ne va di respingere l’idea che l’esperienza cognitiva debba risolversi senza resti nella logica del linguaggio, trascurando la logica del visuale; di comprendere il modo peculiare nel quale l’immagine da un lato e la parola dall’altro danno forma e senso all’esperienza” (Pinotti 2014, p. 271).

6 “Una iconologia critica è oggi un bisogno urgente, dal momento che la nostra società è esposta al potere dei mass media in un modo che non ha precedenti” (Belting 2009, p. 76).

7 “[…] l'immagine ha esteso a tal punto il suo dominio che diventa difficile, oggi, pensare senza dover orientarsi nell'immagine” (Didi-Hubermas 2009, p. 243).

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esserlo), ma si radica anzi in un'antichissima tradizione, i cui primordi si identificano con le origini stesse del pensiero occidentale” (Pinotti e Somaini 2009, p. 13). Questa doverosa precisazione non toglie però ai visual culture studies il merito di aver rinvigorito e articolato il campo d'azione della ricerca e degli studi sui linguaggi visivi, soprattutto in un periodo storico in cui i processi di produzione, distribuzione e fruizione delle immagini sono stati completamente stravolti dalle innovazioni in campo tecnologico – e dalle loro immediati ricadute sul piano sociale. In particolare, dopo oltre vent'anni dalle riflessioni di Boehm e Mitchell sembra ormai evidente come i visual culture studies abbiano avuto il merito di far esplodere un campo d'indagine fino ad allora dominato dalla tradizione della storia dell'arte, e che quindi aveva come oggetto di studio privilegiato le opere dell'arte “alta” della cultura occidentale. Superata la sterile contrapposizione tipica degli anni '60 tra cultura “alta” e cultura “bassa”, il dibattito contemporaneo si è mostrato capace di ampliare la propria riflessione verso qualsiasi forma espressiva in cui vengono adottati dei linguaggi visivi8. Questo ampliamento dell'orizzonte d'indagine chiamerà in causa anche il design, che tra la fine del XX secolo e l'inizio del XXI tornerà a interrogarsi sulla propria dimensione culturale e sul ruolo svolto nei processi cognitivi.

Prima di affrontare l'influenza dell'iconic turn nell'ambito accademico e professionale del design, è necessario vedere più da vicino alcune delle riflessioni maturate nei visual culture studies – riflessioni che più o meno direttamente si ripresenteranno nelle discussioni teoriche che sul finire del XX secolo andranno poi a comporre il dibattito sul design postmoderno.

1.1.1. Conoscere guardando: processi di visualizzazione e produzione di conoscenza

Uno dei punti centrali che contraddistingue il campo di ricerca dei visual culture studies riguarda l'irriducibilità della logica visuale e le differenze che la contraddistinguono da quella verbale. Come si è detto, una delle premesse implicite di questa rinnovata attenzione per il mondo delle immagini è la loro capacità di intervenire nei processi cognitivi umani, di porsi come uno dei principali intermediari tra l'uomo e la realtà che lo circonda. Le dinamiche e le caratteristiche che accompagnano questo ruolo da intermediario occupano un posto privilegiato nell'iconic turn. Una particolare attenzione è stata dedicata a quegli aspetti che rendono i linguaggi visivi irriducibili a quello verbale, e di conseguenza alle differenze tra la conoscenza prodotta dalle parole e quella che invece si genera nelle immagini. Ancora una volta, tali questioni non sono una prerogativa dei visual culture studies. Non serve scomodare Platone e il mito della caverna per rendersi conto di quanto il legame tra forme espressive

8 “Lo sguardo retrospettivo rivolto al tempo prima dell'antichità, ai manufatti preistorici, alle culture popolari, all'ambito della cosiddetta arte applicata, come anche lo sguardo rivolto all'arte tribale extraeuropea oppure all'eredità figurativa di più remote civiltà progredite, chiariscono che il nostro pregiudizio – spesso inespresso – di misurare l'immagine sul modello del “quadro” oppure del dipinto su tavola, conduce a un vicolo cieco ed è bisognoso di revisione” (Boehm 2009, p. 65).

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visive e produzione di conoscenza permei gran parte della storia culturale occidentale. Di volta in volta questo legame ha assunto declinazioni molto diverse. Da una parte troviamo le posizioni più “fiduciose”, come ad esempio il sistema Isotype di Otto Neurath9 e i vari tentativi di formalizzare le componenti dei linguaggi visivi in principi universali e astratti che soprattutto con Klee e Kandinsky segnano l'esperienza del primo modernismo10; dall'altra invece le posizioni più critiche, come

testimoniano i casi di iconoclastia che accompagnano la storia delle immagini sacre, o la diffidenza di quel pensiero filosofico che da Platone fino a Baudrillard punta il dito contro la falsificazione insita nelle rappresentazioni visive. A questo atteggiamento contraddittorio assunto dal pensiero critico-teorico occidentale va associata una sorta di schizofrenia latente dell'uomo nei confronti delle immagini. Una schizofrenia che, come nota giustamente Didi-Huberman11, sembra aver raggiunto un nuovo apice nella società contemporanea, in cui gli impulsi iconoclastici e iconofili si susseguono senza soluzione di continuità. Tuttavia, come molti autori dell'iconic turn tengono a precisare, non si tratta di assumere una posizione a favore o contro le immagini. Nei visual culture studies non ci si interroga sulla capacità (o l'incapacità) dei linguaggi visivi di produrre descrizioni del mondo fedeli, oggettive o universali; il problema sta semmai nel determinare il tipo di conoscenza che si genera da quei linguaggi, le dinamiche che regolano questo tipo di attività cognitive ed espressive, e soprattutto le ricadute sul piano sociale.

Un buon esempio di come le immagini non solo siano irriducibili alla logica verbale, ma si comportino da mediatori indispensabili per la comprensione dei fenomeni e la produzione di nuova conoscenza, ci è dato dalle rappresentazioni visive utilizzate in ambito scientifico. L'epistemologia visiva, al pari dei visual culture studies, pone al centro delle proprie investigazioni la stretta relazione tra processi di visualizzazione e produzione di conoscenza. Secondo questa prospettiva, le iscrizioni visive (inscription) non possono essere ridotte a semplici didascalie a corredo delle spiegazioni e delle descrizioni verbali, ma assumono un ruolo autonomo – o comunque non subordinato – generando contenuti propri. Soprattutto in quelle discipline che si occupano dei mondi invisibili all'occhio umano – come l'astronomia, la fisica, la chimica – le immagini non servono a riprodurre mimeticamente il fenomeno che si sta cercando di spiegare. Queste immagini funzionano semmai da dispositivi

autonomi attraverso cui un dato fenomeno viene rappresentato e mostrato in un modo del tutto inedito. Come spiega il sociologo Bruno Latour nel suo Visualization and cognition: drawing things together

9 “Neurath's philosophical project as a logical positivist was to create a scientific language whose system would mirror the structure of nature. […] he aimed to design a universal pictography for charting social facts, grounded in the apparent objectivity of perception. Neurath intended his visual language, like the proposed scientific language of the logical positivists, to become a set of signs free of the redundancy and potential ambiguities of an historically evolved verbal language” (Lupton 1986, p. 58).

10 Le riflessioni di Klee sono raccolte soprattutto in Teoria della forma e della figurazione (1959), mentre quelle di Kandinsky si trovano in Punto, linea, superficie. Contributo all'analisi degli elementi pittorici (1968) e ne Lo spirituale nell'arte (2005).

11 “Essa [l'immagine] non ha mai mostrato verità tanto crude; e allo stesso tempo non ha mai mentito tanto, sollecitando la nostra credulità; non ha mai proliferato tanto, e subito tante cesure e distruzioni. Mai, dunque […] l'immagine ha subito tante lacerazioni, tante rivendicazioni contraddittorie e rifiuti incrociati,

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(1986): “[…] no scientific discipline exists without first inventing a visual and written language which allows it to break with its confusing past. The manipulation of substances in gallipots and alambics becomes chemistry only when all the substances can be written in a homogeneous language where everything is simultaneously presented to the eye. The writing of words inside a classification are not enough. Chemistry becomes powerful only when a visual vocabulary is invented that replaces the manipulations by calculation of formulas. Chemical structure can be drawn, composed, broken apart on paper, like music or arithmetic, all the way to Mendeleiev’s table” (Latour 1986, p. 13). La chimica, al pari della fisica, della biologia, della genetica e di altre discipline scientifiche12, necessita non solo di nuove e potenti tecnologie dello sguardo per riuscire a osservare dei fenomeni invisibili, ma soprattutto di nuove forme di visualizzazione per rendere quegli stessi fenomeni comprensibili, comparabili e comunicabili.

Lo stesso si può anche per quelle discipline che si occupano di enti e fenomeni direttamente osservabili. Il caso della cartografia – che verrà più volte discusso nel corso della ricerca – è

significativo. Una mappa, una rappresentazione visiva di un territorio, non può essere considerata una trasposizione mimetica dello spazio geografico che rappresenta. Allo stesso modo, l'utilità del

linguaggio cartografico non sta solamente nella realizzazione di strumenti facilmente trasportabili e riproducibili. Ciò che rende mappe, cartine e atlanti degli strumenti tanto importanti per la conoscenza e le pratiche spaziali è semmai la capacità di tradurre la realtà tridimensionale di un territorio nella superficie bidimensionale, producendo una nuova immagine del mondo; un'immagine che oltre a rendere il territorio osservabile in un colpo solo e da una posizione privilegiata (ossia dall'alto), è in grado di sovrapporre diversi livelli di informazioni e significati, mettendoli in relazione fra loro. Sia che si tratti dei confini nazionali, che dell'altezza di una catena montuosa – per non parlare delle mappe tematiche in cui fenomeni complessi come la densità della popolazione o il PIL di un stato vengono visualizzati e messi in diretta correlazione con lo spazio geopolitico – il linguaggio

cartografico riesce a riprodurre un'immagine del mondo estremamente ricca e articolata. Non a caso il paesaggista statunitense James Corner, per descrivere la capacità del linguaggio cartografico di riconfigurare lo spazio che nella mappa viene rappresentato, ricorre all'espressione “agency of mapping”13 – lo stesso termine che già l'antropologo Alfred Gell aveva impiegato in riferimento alla

12 Significativamente, Latour nel suo saggio precisa come le scienze naturali non siano le uniche a fare ricorso a sistemi di visualizzazione per produrre una conoscenza in merito ai fenomeni di cui si occupano. Anche le scienze sociali, sostiene il sociologo francese, dipendono direttamente da queste forme di visualizzazione: “There is no detectable difference between natural and social science, as far as the obsession for graphism is concerned” (Latour 1986, p. 15). Questa osservazione viene sostenuta analizzando come molti dei macro-concetti o delle entità al centro degli studi sociali – quali ad esempio l'economia, il mercato, l'ideologia, la cultura – risultino altrettanto invisibili e opachi se non si ricorre a determinati metodi di visualizzazione: “It is of course impossible to talk about the economy of a nation by looking at “it”. The “it” is plainly invisible, as long as cohorts of enquirers and inspectors have not filled in long questionnaires, as long as the answers have not been punched onto cards, treated by computers, analyzed in this gigantic laboratory. Only at the end can the economy be made visible inside piles of charts and lists” (Latour 1986, p. 14).

13 “In other words, the unfolding agency of mapping is most effective when its capacity for description also sets the conditions for new eidetic and physical worlds to emerge. Unlike tracings, which propagate redundancies, mappings discover new worlds within past and present ones; they inaugurate new grounds upon the hidden

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performatività delle immagini e delle opere d'arte.

In questo senso la conoscenza che si produce attraverso le rappresentazioni visive è una conoscenza che difficilmente può essere acquisita attraverso altri mezzi.

Resta però da chiarire in che modo i linguaggi visivi riescano a produrre artefatti apparentemente semplici – per lo più bidimensionali, statici e composti da un numero ristretto di elementi – ma capaci di dispiegare livelli di informazione complessi e articolati.

A questo proposito uno dei contributi più interessanti è dato sicuramente dall'analisi di Boehm in merito alla vicinanza tra metafora e immagine. Nell'introduzione al suo Was ist ein Bild? (1995)14, lo storico dell'arte tedesco osserva come: “La teoria analitica del linguaggio si è imbattuta nella metafora come in un'anomalia che minacciava di trasformarsi in una malattia rischiosa per la conoscenza. Responsabile di questo pericolo sembrava la sua polivocità cangiante, difficilmente sanabile” (Boehm 2009, p. 55). La metafora, al pari delle rappresentazioni visive, ha per lungo tempo sofferto di una certa diffidenza da parte del pensiero razionale occidentale proprio per la sua tendenza a produrre un surplus di significati – quella che Boehm chiama “polivocità” – e la capacità di mettere in relazione campi semantici e mondi distanti. La conoscenza che si produce dalle metafore non si costituisce attraverso la simulazione, non è frutto di un'attività mimetica quanto piuttosto di un'attività poietica. L'immagine della realtà che si produce per mezzo della metafora non può quindi essere considerata una copia, ma una nuova rappresentazione che va ad aggiungere qualcosa di più rispetto all'immagine di partenza. Ed è proprio questo aspetto che viene percepito come una minaccia, almeno agli occhi di chi vorrebbe ridurre la realtà a qualcosa di fisso e identico a sé (Boehm 2009, p. 45). La capacità delle metafore di “dire facendo vedere” si forma attraverso l’incompletezza, l’apertura, la polivocità e soprattutto il contrasto. Queste caratteristiche secondo Boehm fanno della metafora il “modello strutturale dell’immaginalità” (Boehm 2009, p. 56). Guardando un'immagine il nostro sguardo e la nostra mente non si comportano come di fronte a un testo scritto, dove la produzione di significati e forme di sapere passa attraverso precise regole sintattiche e semantiche. In particolare lo storico dell'arte tedesco insiste sull'idea di contrasto15, ovvero la capacità di “accomunare le differenze senza sopprimerle”. Ciò che nel linguaggio verbale16 viene visto con diffidenza in ragione delle più

traces of a living context. The capacity to reformulate what already exists is the important step” (Corner 1999, p. 214).

14 Il testo in questione è disponibile nella traduzione italiana nell'antologia di testi Teorie dell'immagine. Il

dibattito contemporaneo (2009), curata da Pinotti e Somaini.

15 “La figuralità che ci offre la metafora si lascia contrassegnare, riassumendo le singole osservazioni, come un fenomeno di contrasto” (Boehm 2009, p. 57).

16 Va precisato come qui non si stia affatto negando la possibilità, da parte del linguaggio verbale, di sperimentare ed esercitarsi in forme espressive che presentano le caratteristiche dell’incompletezza, dell’apertura, della polivocità o del contrasto. D'altronde la metafora stessa, come figura retorica, nasce ed è propria del mondo parlato e scritto. Tuttavia la logica solitamente impiegata nel linguaggio verbale che descrive, analizza, traduce e spiega la realtà e le sue infinite sfaccettature è, fin dai tempi di Aristotele, ancorata a un'idea fissa e immutabile di quella realtà. Il vero obiettivo del logos – inteso come discorso razionale – è di produrre enunciati veri sempre e comunque. In questo senso la logica verbale tende a presentare e riprodurre un'immagine statica della realtà che descrive.

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elementari regole di coerenza e identità, nei linguaggi visivi – sia che si presentino come dipinto, fotografia, video, mappa o interfaccia digitale – trova il medium più consono17.

Sarebbe però ingenuo ritenere che osservando un'immagine o una raccolta di immagini, lo sguardo e la mente dell'osservatore sia portato naturalmente a riconoscervi la ricchezza e la stratificazione di significati da essa implicata. Così come sarebbe un errore pensare che questo tipo di conoscenza abiti naturalmente l'immagine. In questo senso è più corretto dire che quel tipo di conoscenza può generarsi dall'incontro dell'immagine con lo sguardo dell'osservatore. Da cosa dipende la trasformazione di questa possibilità in realtà è uno dei temi che guida l'indagine condotta da Didi-Hubermas nel saggio L’image brûle (2004). Partendo dalle riflessioni di Benjamin sulla fotografia, Didi-Hubermas descrive l'abilità di “orientarsi nell'immagine” attraverso due fasi: la sospensione e la costruzione. “la

leggibilità delle immagini […] supporrà innanzitutto la sospensione, il mutismo provvisorio davanti a un oggetto visivo che vi lascia disorientati, privi della capacità di dargli senso, forse persino di descriverlo; essa imporrà quindi la costruzione di questo silenzio in un lavoro del linguaggio capace di operare una critica dei propri cliché. Un'immagine guardata bene sarebbe allora un'immagine che ha saputo disorientarci, e poi rinnovare il nostro linguaggio, quindi il nostro pensiero” (Didi-Hubermas 2009, p. 255).

Ancora una volta all'interno del campo dei visual culture studies sembra trovare conferma l'idea secondo cui la conoscenza che si genera dalle immagini trova la sua ragion d'essere e il suo valore sociale nel momento in cui l'incontro tra una rappresentazione visiva e lo sguardo dell'osservatore è in grado di produrre un cambiamento sia nell'oggetto raffigurato – che in qualche modo viene restituito attraverso una nuova immagine – che nel soggetto che guarda – trasformato dal rinnovamento del proprio linguaggio e del proprio pensiero.

1.1.2. La performatività delle immagini

La teoria della metaforicità dei linguaggi visivi di Boehm porta con sé delle conseguenze importanti in merito alla capacità di immagini e rappresentazioni visive di interferire nella relazione tra l'uomo e la realtà che lo circonda. Nello specifico le riflessioni di Boehm, ma anche di Mitchell (2009), di Latour

17 Ancora una volta è doveroso precisare come Boehm non stia cercando di dimostrare una presunta superiorità da parte della logica visuale – e della conoscenza che da essa si produce – rispetto a quella verbale.

L'obiettivo non è di esprimere dei giudizi in merito a chi, tra parola e immagine, detenga un primato o una maggiore validità nei processi cognitivi e di rappresentazione dell'esperienza. Questa analisi serve

innanzitutto a dimostrare l'irriducibilità del pensiero visuale, la sua differenza rispetto a quello logico-verbale e soprattutto le conseguenze di questa differenza sul piano cognitivo. E come si è detto, la prima conseguenza riguarda proprio il tipo di realtà che i linguaggi visivi, in virtù della loro metaforicità, ci restituiscono: una realtà arricchita dall'attività poietica delle immagini, resa più densa e stratificata attraverso risonanze, citazioni, interazioni con altre realtà; una realtà complicata da quell'idea di contrasto capace di “accomunare le differenze senza sopprimerle”.

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(2009) e soprattutto di Alfred Gell (1998), aprono prospettive interessanti su quella che può essere chiamata la performatività delle immagini.

Il tema della performatività delle opere d’arte e di altri artefatti visivi non è sicuramente un’esclusiva del pensiero legato ai visual culture studies. Gli esempi abbondano in campo artistico e soprattutto nell’ambito psicologico, antropologico ed etnografico dove numerosi studi hanno mostrato come monili, totem, idoli e altre immagini ritenute sacre o magiche, abbiano la proprietà di agire direttamente sui processi cognitivi e affettivi dei suoi fruitori, fino a indirizzarne, orientarne o

determinarne specifici comportamenti individuali e pratiche sociali. Anche diverse riflessioni maturate nell’ambito della psicoanalisi e della filosofia marxista si sono cimentate con la questione dell'agency degli artefatti visivi, soprattutto in merito al concetto del feticismo18. Come ci ricorda Mitchell, la cultura occidentale moderna è pervasa e quasi ossessionata dall'idea che le immagini – o alcuni oggetti, sempre attraverso la loro componente visuale – abbiano la capacità di esercitare un potere e un'influenza sulle persone19. La vera questione riguarda allora la comprensione delle dinamiche di questo potere, le sue declinazioni all'interno della nostra società e il tipo di reazione o di relazione che è possibile – o auspicabile – intrattenere con le immagini.

Un primo contributo orientato in questa direzione è quello di Alfred Gell, che sul finire del XX secolo affronta la questione con una certa profondità teorica all’interno degli studi sull’arte e più in generale dei cultural studies. Nel suo Art and Agency Gell tenta di ricostruire le dinamiche che si celano dietro a questo potere psicologico e sociale, arrivando a riconsiderare radicalmente la natura stessa delle immagini all'interno della società contemporanea. L'antropologo, cercando di evitare le aporie filosofiche implicite in concetti come causalità, intenzionalità, volontà, dichiara di voler utilizzare il termine “agency” come “a culturally prescribed framework for thinking about causation, when what happens is (in some vague sense) supposed to be intended in advance by some person-agent or thing-agent” (Gell 1998, p. 17)20. Il termine descrive quindi in modo piuttosto generale la capacità che le persone e le cose hanno di indurre, innescare, determinare specifici avvenimenti non attraverso una concatenazione di eventi fisici, ma con “acts of mind or will or intention”. Approfondendo le sue considerazioni Gell specifica come a interessare la sua teoria dell’agire delle immagini non sia la semplice “agency”, bensì la più specifica “social agency”, ovvero quei casi in cui gli eventi causati interessano direttamente la rete delle relazioni sociali21.

18 Marx riconosceva infatti alle merci, proprio attraverso la loro componente estetica e alla loro composizione tecnica, la capacità di caricarsi di significati, di pulsioni, di una certa volontà che oltrepassa la semplice dimensione funzionale o il valore d'uso dell’oggetto. Allo stesso modo, il tema del feticismo, dell'animismo e della personificazione delle cose occupa un ruolo importante nel pensiero di Freud.

19 “L'idea che le immagini abbiano una specie di proprio potere psicologico o sociale è, infatti, un cliché dominante negli studi sulla cultura visuale contemporanea” (Mitchell 2009, p. 103)

20 E ancora: “The concept of agency I employ is relational and context-dependent, not classificatory and context free” (Gell 1998, p. 22).

21 “To restrict the scope of the discussion, I propose that the category of indexes relevant to our theory are those which permit the abduction of ‘agency’ and specifically ‘social agency’” (Gell 1998, p. 15)

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Una volta chiariti i termini principali su cui si regge la sua costruzione teorica, Gell introduce la premessa che costituisce l’aspetto innovativo e originale del suo pensiero: l’idea che all’interno della rete di relazioni sociali in cui ci troviamo immersi, gli attori (o gli agenti) che si muovono, che interagiscono e che si condizionano vicendevolmente non si esauriscono con la classe degli essere umani, ma arrivano a comprendere non solo il mondo delle creature viventi (animali, piante, batteri) ma anche quello degli enti inanimati: “The immediate 'other' in a social relationship does not have to be another 'human being'. My whole argument depends on this not being the case. Social agency can be exercised relative to 'things' and social agency can be exercised by 'things' (and also animals)”22 (Gell 1998, pp. 17-18). La teoria di Gell introduce qui uno scarto rispetto alle teorie della semiotica dell’arte, per cui le opere e gli artefatti artistici vanno considerati alla stregua di “testi culturali”, su cui l’osservatore più attento esercita un’azione di interpretazione volta a svelarne significati (o livelli di significato) nascosti o impliciti. In altre parole questi artefatti non sono tanto il mezzo di una

comunicazione simbolica, quanto gli attori che guidano la comprensione che noi abbiamo della realtà che ci circonda (o di un aspetto di essa), determinando quindi il modo in cui ci relazioniamo con quell’aspetto di realtà attraverso le nostre azioni, i nostri giudizi e le nostre rappresentazioni23. Un'impostazione simile viene proposta qualche anno più tardi da William Mitchell, nel testo What do pictures want?. Come mette in evidenza il titolo, Mitchell cerca subito di presentare il problema della performatività allontanandosi dai termini più tradizionali della semiotica o della retorica – in cui il punto centrale ruota attorno ai significati delle immagini, e quindi alla domanda “Che cosa significano le immagini?”. Con una certa ironia24, Mitchell introduce la questione mettendo l'accento sulla

presunta volontà delle immagini, e vedendo quindi in esse dei soggetti animati. Paradossalmente la provocazione di Mitchell è diretta verso quegli atteggiamenti, tanto diffusi nella nostra società, che tendono a caricare le immagini e gli artefatti visivi di un eccessivo potere politico o di un'influenza sociale: “Senza dubbio le immagini non sono senza potere, ma potrebbero averne molto meno di quanto pensiamo. Il problema è rendere più complessa e raffinata la nostra valutazione del loro potere e del modo in cui esso opera. Questo è il motivo per cui ho spostato la questione da ciò che le

immagini fanno a ciò che esse vogliono, dal potere al desiderio, dal modello di un potere dominante, cui bisogna opporsi, a un modello del subalterno che bisogna interrogare o (meglio) invitare a parlare”

22 Premessa questa che trae origine da un filone di pensiero emerso verso la fine degli anni ’80 e che trova alcune delle sue espressioni nel concetto di “oggettificazione” di Miller (in Material culture and mass

consumption, 1987) o nella Actor-Network Theory di Latour (in Reassembling the social. An introduction to Actor-Network-Theory, 2005). A ben vedere anche le teorie contemporanee dell’Internet of Things

condividono le stesse premesse.

23 “In place of symbolic communication, I place all the emphasis on agency, intention, causation, result, and transformation. I view art as a system of action, intended to change the world rather than encode symbolic propositions about it. The 'action'-centred approach to art is inherently more anthropological than the alternative semiotic approach because it is preoccupied with the practical mediatory role of art objects in the social process, rather than with the interpretation of objects 'as if' they were texts” (Gell 1998, p. 6).

24 “[…] sono anche consapevole che questa domanda gioca ambiguamente con un atteggiamento regressivo e superstizioso nei confronti delle immagini, un atteggiamento che, se fosse preso seriamente, ci riporterebbe a pratiche quali il totemismo, il feticismo, l'idolatria e l'animismo” (Mitchell 2009, p. 101).

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(Mitchell 2009, p. 105). Qui Mitchell prende di mira in particolare quelle posizioni emerse nel dibattito pubblico degli ultimi decenni che imputano alle immagini determinate responsabilità politiche e sociali, l'accusa secondo cui determinati prodotti visuali siano la causa diretta di specifici comportamenti deviati o criminali. Si pensi solo alla polemica che negli Stati Uniti cerca di porre in una relazione causale la violenza di certi film o di certi videogiochi con le school shooting che puntualmente segnano la cronaca americana. È di fronte a esempi come questi che Mitchell cerca di ridimensionare il potere – qui sì magico e demoniaco – delle immagini, proponendo invece un nuovo inquadramento della problematica che consenta di restituire agli artefatti visivi una posizione più subalterna. “Tutto ciò a cui si è giunti è un impercettibile spostamento dell'obiettivo

dell'interpretazione, una sottile modificazione dell'idea che abbiamo delle immagini […]. Le chiavi per questa modificazione/spostamento sono: 1) l'assenso dato a una finzione costitutiva delle immagini come entità “animate”, dei quasi-agenti, delle pseudo-persone; e 2) la costruzione delle immagini non come soggetti sovrani o come spiriti disincarnati, ma come soggetti subalterni i cui corpi sono segnati come stigmate della differenza e che funzionano sia come intermediari sia come capri espiatori nel campo sociale del visibile” (Mitchell 2009, p. 118). Sia in Gell che in Mitchell – anche se con modalità differenti – il discorso sulla performatività delle immagini segna uno spostamento rispetto alle modalità con cui il tema del potere degli artefatti visivi viene solitamente inquadrato. Il campo d'indagine intorno alla cultura visuale subisce quindi una riconfigurazione. L'immagine, l'artefatto visivo, la forma di visualizzazione emerge ora come un soggetto attivo e fattivo; un soggetto che sicuramente non può essere isolato dalla vasta rete di attori e infrastrutture che stanno dietro alla sua produzione, distribuzione e fruizione, ma che allo stesso tempo non può nemmeno essere ridotto alla volontà, alle intenzioni o all'agenda politica di quegli attori e di quelle reti: “immagine non come […] correlato oggettuale, inerte e statico, di un soggetto umano attivo nel suo essere produttore e/o fruitore del manufatto iconico; al contrario, l’immagine si presenta come quasi-soggetto, dotato di un proprio carattere, di poteri e desideri, di intenzionalità e motivazioni, con il quale l’essere umano intrattiene una relazione intersoggettiva” (Pinotti 2014, pp. 285-286).

Le due posizioni presentate e discusse non esauriscono di certo il discorso sulla performatività delle immagini e sul ruolo di mediazione che svolgono nei processi di comprensione ed espressione della realtà naturale e sociale. Tuttavia le riflessioni di Gell e di Mitchell condividono un'idea molto simile in merito all'agency dei linguaggi visivi. Per questi autori parlare di performatività delle immagini significa parlare della loro capacità di costruire l'oggetto della propria rappresentazione nel momento in cui questo viene posto di fronte agli occhi dell'osservatore. Nelle parole di Mitchell: “Lo

spostamento di maggior portata, indicato dalla ricerca di un concetto adeguato di cultura visuale, è l'enfasi posta sul campo del sociale del visuale, ossia sui quotidiani processi del guardare […] e dell'essere guardati. Questo terreno complesso di reciprochi sguardi non è soltanto un effetto

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linguaggio nel mediare le relazioni sociali, e non è riducibile al linguaggio, al “segno” o al discorso. Le immagini vogliono […] essere considerate come individui complessi che assumono una

molteplicità di posizioni soggettive e di identità” (Mitchell 2009, p. 119).

Lo scarto che si produce con l'iconic turn – lo spostamento di cui parla Mitchell – è quindi la consapevolezza che qualsiasi rappresentazione visiva non si limita a descrivere ciò che raffigura, ma determina la cornice logica, l'orizzonte di senso entro cui l'oggetto della sua raffigurazione verrà esperito, compreso, discusso. Sia che ci troviamo di fronte a un grafico che mostra i cambiamenti climatici, sia che stiamo analizzando la pubblicità di un prodotto commerciale, è grazie a questa nuova consapevolezza che la rappresentazione in questione non può più essere ridotta alla sola dimensione dell'informare o del persuadere. Un'analisi critica di un artefatto visuale dovrà innanzitutto

riconoscere, oltre a una prima funzione esplicita, un'ulteriore dimensione “che non si limita affatto ad accompagnare il proprio oggetto, ma addirittura lo istituisce; una dimensione che non si riduce a 'informare', ma sa 'esprimere' senso, generare sapere” (Pinotti e Somaini 2009, p. 15).

1.1.3. Il ruolo della critica

Sicuramente uno dei punti di maggiore interesse rispetto alla performatività, all'agency, alla volontà delle immagini rimane il collegamento che emerge tra l'ambito della cultura visuale e quello della politica – o meglio, delle politiche della rappresentazione. La triade “visione–conoscenza–potere” rimane uno punti cardine intorno a cui ruotano, per tutto il XX secolo e non solo, molte letture critiche nel campo dei cultural studies, dei media studies, della filosofia, della sociologia e della psicologia. Gli autori protagonisti dell'iconic turn hanno saputo riconfigurare il dibattito sulla capacità che le rappresentazioni visive hanno nel mediare le relazione tra l'uomo e l'ambiente in cui vive, attraverso l'idea della performatività delle immagini – e cioè il ruolo attivo nel costruire quella stessa realtà sociale che rappresentano. Questa nuova configurazione, lungi dal portare maggiore chiarezza o dal fissare la questione in un'istantanea ben definita, apre il campo d'indagine a nuove questioni e problemi che rendono il lavoro critico ancora più complesso. In particolare, ciò che desta maggior preoccupazione – o meglio, che rende il carattere mediativo delle immagini molto più complesso di quanto possa apparire a prima vista – è il fatto che gli artefatti visivi tendono a nascondere o a camuffare l'artificiosità, la costruttività e la contestualità della conoscenza che da essi si genera. Ancora una volta è in Boehm che troviamo una delle formulazioni più lucide del problema. Riprendendo la teoria del critico statunitense Arthur Danto sull'opacità e la trasparenza delle opere d'arte25, Boehm descrive una doppia e opposta tendenza – chiamata “tensione iconica” – che

25 “Opaco è tutto ciò che vi è di materiale nel dipinto, il suo lato cosale, la fattura della stesura del colore e simili. L'artista stabilisce tuttavia i rapporti materiali in modo tale da far affiorare in questa impenetrabilità qualcosa di visibile, in modo da dischiudere una visione o un guardare attraverso, da far trasparire dalla superficie opaca del dipinto qualcosa di inteso o di mostrato: il senso” (Boehm 2009, p. 61).

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caratterizzerebbe il comportamento delle immagini durante la loro attività cognitiva e di produzione di significato: “Nella relazione satura di tensione che si mostra nel contrasto visivo fondamentale, esiste, come si è visto, la possibilità che le immagini si dissolvano, del tutto dimentiche di sé, nella resa illusionistica di qualcosa di raffigurato, oppure – all'opposto – che sottolineino il loro essere fatte in quanto immagini” (Boehm 2009, p. 61-62). In altre parole, la fruizione di un'immagine oscilla sempre tra due polarità: da una parte siamo portati a confondere la rappresentazione per ciò che rappresenta, mentre in alcuni casi è l'immagine stessa che, presentando l'oggetto della raffigurazione, ci si pone dinnanzi mostrandosi come un artefatto progettato e costruito. Secondo Boehm, la storia delle immagini – o meglio la storia della loro mediazione tra uomo e mondo – può essere ricostruita a partire dalle oscillazioni che di volta in volta hanno fatto prevalere una fruizione mimetica o una fruizione riflessiva26. Tuttavia questa stessa storia pare sbilanciata sulla prima polarità, quella che vede compiersi una catacresi27 tra rappresentazione e oggetto rappresentato, e che più o meno

consapevolmente tende a promuovere un'idea (e un'ideologia) della trasparenza – là dove la

rappresentazione tende a scomparire, a dissolversi nell'oggetto che rappresenta. Ciò è ancora più vero nella società contemporanea dove la proliferazione e la sovrapproduzione di artefatti visivi,

implementate dalle nuove “tecniche elettroniche della simulazione”, non fa altro che favorire l'idea dell'immagine come copia, come doppio della realtà. In questo senso Boehm descrive la nostra società come una società iconoclasta: “L'avversione dell'industria mediatica per l'immagine è indomita, non perché essa vieti o ostacoli le immagini, al contrario: poiché essa mette in moto una marea di immagini, la cui tendenza fondamentale mira alla suggestione, al surrogato immaginale della realtà, nei cui criteri rientra da sempre quello di occultare i confini della propria immaginalità” (Boehm 2009, p. 62)28.

È interessante notare come questa stessa tendenza iconoclasta che Boehm – ma in modo analogo anche Didi-Huberman29 – scorge nella sovrapproduzione degli artefatti visivi sia all'opera in gran parte quel pensiero critico e filosofico che nel corso del XX secolo si è confrontato con le problematiche

26 “Platone vide in questa capacità delle immagini di sostituirsi alla vita una grande seduzione che lo indusse a relegare gli artisti figurativi ai gradi più bassi dell'ordinamento della polis” (Boehm 2009, p. 62). Ovviamente queste due polarità, qui chiamate mimetica e riflessiva, non individuano dei comportamenti o delle pratiche precise, ma raccolgono intorno a sé diversi approcci epistemologici e progettuali.

27 Il concetto di catacresi tra rappresentazione e oggetto rappresentato verrà approfondita nel capitolo 3.1.1 in relazione all'idea di “politiche della rappresentazione”.

28 Come vedremo nel corso della ricerca, questa dialettica tra trasparenza e opacità si configura come un'utile chiave di lettura anche nell'ambito del design. Ad esempio è possibile ripercorrere la storia della disciplina discutendo delle varie posizioni teoriche e degli approcci progettuali proprio a partire da queste due polarità. Ma quello della trasparenza e dell'opacità si presenta anche come uno dei framework teorici entro cui è possibile interpretare le posizioni contemporanee che animano il dibattito sul design – e in particolare sul ruolo o sul significato sociale del design. Per una discussione più approfondita della dialettica

trasparenza/opacità nell'ambito del visual design rimando al lavoro di Metahaven (capitolo 2.5.1) e alla discussione sulle politiche della rappresentazione (capitolo 3.1).

29 La stessa diffidenza per la società dell'informazione (un'informazione che in misura sempre crescente viene costruita e diffusa attraverso forme e linguaggi visivi) è presente anche in Didi-Huberman: “L'informazione televisiva manipola a meraviglia le due tecniche del niente e del troppo – censura o distruzione da un lato, soffocamento da moltiplicazione da un altro – per ottenere i migliori risultati d'accecamento” (Didi-Huberman 2009, p. 257).

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sollevate dalle immagini e dalla loro mediazione. Come è già stato fatto notare, quelle che negli stessi visual culture studies vengono considerate delle figure di spicco, hanno assunto delle posizioni dissacranti nei confronti dei linguaggi visivi. “Dalla denuncia della società dello spettacolo da parte di Debord a quella del potere neutralizzante e anestetizzante della fotografia da parte di Susan Sontag, dalle tesi di Baudrillard sulla 'sparizione della realtà' nell'era dell''iperrealtà' e della 'simulazione' a quelle di Flusser sul sapere 'magico' reintrodotto da quelle immagini tecniche che si frappongono come uno schermo tra l'uomo e il mondo, provocando una nuova forma di 'idolatria', le molteplici variazioni sul tema del pericolo derivante dalle immagini ci consentono di individuare una vera e propria corrente iconofoba che affonda le radici in una storia secolare ma che non cessa di manifestarsi in forme sempre nuove nella cultura contemporanea” (Pinotti e Somaini 2009, p. 23). Al di là della complessità e della profondità che caratterizza queste analisi e teorie, difficilmente si può negare la “tendenza iconofoba” o iconoclasta che questi autori portano con sé. Pur con le dovute differenze, le posizioni che emergono dalla tesi della “società dello spettacolo” o della “sparizione della realtà nell'era dell'iperrealtà”, finiscono per ridurre qualunque forma di conoscenza che si produce

nell'interazione uomo-immagine-realtà a un simulacro o a una rappresentazione falsata. Non importa se questo gioco illusionistico si traduce nella “cattiva ideologia” a uso e consumo delle masse soggiogate dall'industria culturale del tardo capitalismo, o se sia causa di una crescente apatia collettiva e della distruzione dei rapporti sociali umani. In ogni caso, il pensiero critico che nel corso del XX secolo si è confrontato con la statuto dell'immagine e sulle sue ricadute sociali, raramente è riuscito a indicare delle vie di fuga dal vicolo cieco dell'iconofobia. Per una parziale riabilitazione delle immagini si dovrà quindi aspettare la fine del Novecento e i teorici dell'iconic turn. L'aggettivo “parziale” è d'obbligo: non si tratta infatti di restaurare un regime magico, totemico, delle immagini – intese come accesso diretto a Dio, alla Verità, alla conoscenza universale e oggettiva. Si tratta

piuttosto di rivalutare la conoscenza prodotta dai linguaggi visivi, ovvero la loro capacità di mediare il rapporto uomo-realtà.

Secondo Boehm è la stessa “tensione iconica” delle immagini a mostrarci una possibile via di fuga. È infatti “necessario presupporre di costruire (in modo controllato) la tensione iconica e di renderla visibile all'osservatore. Un'immagine forte vive infatti di questa doppia verità: mostrare qualcosa, anche simulare qualcosa, e al tempo stesso mostrare i criteri e le premesse di questa esperienza. Solo tramite l’immagine ciò che è raffigurato ottiene visibilità, distinzione, presenza. Essa però si lega così a condizioni artificiali, a un contrasto iconico, del quale si è detto che esso sarebbe al contempo piatto e profondo, opaco e trasparente, materiale e completamente inafferrabile” (Boehm 2009, p. 63). Ciò non significa, come è stato invece presupposto ingenuamente da buona parte della critica

contemporanea, che la determinazione del senso proprio di un'immagine passa esclusivamente attraverso la sua decostruzione – sia essa storico-culturale, semiotica o retorica. Su questo punto Boehm, Mitchell e Latour sembrano pensarla allo stesso modo. Se infatti per lo storico dell'arte tedesco “il procedimento corrente di ridurre l'arte alle sue condizioni storiche originarie non rende

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realmente giustizia alla realtà dell'immagine”, la teoria della volontà delle immagini introdotta da Mitchell fa affidamento su un concetto di critica più raffinato e complesso del semplice

“smascheramento ideologico”30.

L'attacco di Bruno Latour verso quel tipo di critica dissacratoria e distruttiva è ancora più diretto. Nell'introduzione del catalogo di Iconoclash, il sociologo francese dichiara esplicitamente come uno degli obiettivi della mostra sia quello di operare una “revisione dello spirito critico, una pausa del giudizio critico, una riflessione sull'urgenza di smascherare il falso […]. Non si sta sostenendo che non ci sia più bisogno di questo tipo di critica, quanto piuttosto che è diventata troppo grossolana” (Latour 2009, pp. 304-305). La tesi secondo cui le rappresentazioni visive non ci restituiscono un'immagine vera, fedele e neutrale del mondo che ritraggono contiene sicuramente un nucleo di verità, al pari dell'osservazione che vede nel mondo contemporaneo un certo protagonismo delle forme visuali nei processi cognitivi e di mediazione tra uomo e realtà. Tuttavia queste affermazioni non possono più essere considerate delle intuizioni o delle rivelazioni; al contrario, la loro qualità e originalità è talmente inflazionata da farne dei cliché del pensiero moderno.

È con questa situazione che oggi la critica dei linguaggi visivi deve sapersi confrontare. Di fronte alla falsa opposizione tra un mondo privato della presenza delle immagini e un mondo soffocato dalla loro sovrapproduzione, il pensiero critico si domanda, con Didi-Huberman “Che fare contro questa doppia oppressione che vorrebbe alienarci con l'alternativa del non vedere assolutamente nulla o vedere solo dei cliché?” (Didi-Huberman 2009, p. 257). Una prima risposta che emerge dai visual culture studies – e che attraversa le riflessioni di Gottfried Boehm, Hans Belting, William J.T. Mitchell, Alfred Gell, Georges Didi-Huberman e Bruno Latour – è rappresentata dall'idea della dimensione culturale delle immagini e dei linguaggi visivi. Nelle parole di Antonio Somaini, “Si tratta di una prospettiva di studio che è implicita nel concetto stesso di “cultura visuale”, e che intende evidenziare la tesi secondo cui la produzione e la visione di immagini sono da considerarsi come parte integrante di quell'insieme di oggetti e di atti sociali che compongono una cultura […]. Per quanto riguarda le immagini, considerarle come oggetti culturali significa studiare la varietà degli usi sociali di cui sono oggetto, l'efficacia e i valori che vengono loro attribuiti, le condizioni tecniche e mediali che ne consentono la produzione e la circolazione. Per quanto riguarda la visione, significa invece

considerarla come un atto sociale, tecnicamente manipolabile e storicamente variabile, attraverso il quale vengono elaborati e negoziati significati, credenze, identità e valori” (Pinotti e Somaini 2009, p. 28).

30 In questo senso Mitchell si domanda ironicamente: “Il nostro compito, come critici della cultura, è quello di smascherare queste immagini, distruggere gli idoli moderni e svelare i feticci che rendono schiave le persone? Si devono separare le immagini vere da quelle false, quelle sane da quelle malate, le pure dalle impure, le buone dalle cattive?” (Mitchell 2009, p. 104). Ovviamente l'idea di critica che Mitchell ha in mente va al di là del bene e del male delle immagini, o di una loro intrinseca falsità o verità. Il compito della critica non è quello di dividere l'immagine buona da quella cattiva, ma di interrogare la posizione di una specifica immagine per giungere a una comprensione più raffinata e complessa del modo in cui mediano la nostra relazione con la realtà: “Forse il problema più ovvio è che lo smascheramento critico e la demolizione del potere nefasto delle immagini sono al tempo stesso facili e poco efficaci” (Mitchell 2009, p. 104).

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