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La fondazione di partecipazione: «simbolo» del Partenariato c.d.

istituzionalizzato.

La «fondazione di partecipazione» si colloca in questa eterogeneità di

modelli quale emblema delle «nuove forme di partenariato pubblico-privato

finalizzate, da un lato, a contenere la spesa pubblica, dall’altro, a perseguire

obiettivi di managerializzazione, anche tramite l’introduzione di innovazioni

gestionali e di offerta dei servizi…»

498

.

Attingendo per un istante dal lessico filosofico, per “fenomenologia” (dal

greco τά φαινόμενα, le cose che si mostrano), si è soliti intendere la scienza

che ha come scopo precipuo la descrizione di ciò che appare

499

.

Nell’accezione comune, la stessa espressione sta ad indicare quel complesso

di fenomeni, e quindi anche di fatti, rilevabili con la pura e semplice

osservazione della realtà.

Ebbene, per approcciare adeguatamente il «fenomeno» fondazione di

partecipazione ci si deve necessariamente affidare ad una sorta di

capovolgimento della impostazione metodologica tradizionale: dalla

specialità si risale alla generalità, secondo un procedimento induttivo che

non è usuale nella scienza giuridica e che segna, in estrema sintesi,

498Così A. WIZEMANN, F. G. ALBERTI, L’assetto organizzativo della fondazione per la gestione dei beni e delle attività culturali, in Liuc Papers, n. 175/2005 – Management ed economia della cultura,

1, p. 1ss. Sul tema cfr. A. POLICE, “Le fondazioni di partecipazione” in cit., p. 393 e ss; M. DUGATO, Il partenariato pubblico – privato: origine dell’istituto e sua evoluzione, in cit., p. 55 e ss.

499 N.ABBAGNANO, Voce Fenomenologia, in Dizionario di Filosofia, Torino, 1971-1993, pp.387-

389. E. Husserl così la definisce: «La f. della conoscenza è scienza dei fenomeni di conoscenza nel doppio senso, da una parte delle conoscenze come apparenze, rappresentazioni, atti di coscienza, in cui si presentano queste o quelle oggettualità e se ne diviene consapevoli (passivamente o attivamente); e dall’altra parte è scienza di queste oggettualità stesse in quanto in tali forme si presentano. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’ essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare», così E. HUSSERL,

L’idea della fenomenologia - Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, 1907; (tr. it. a cura di)

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l’evoluzione empirica che ha subìto questo modello nel passaggio dalla

prassi alla teoria, grazie ad alcune riflessioni ed intuizioni.

Il riconoscimento della legittimità della «fondazione di partecipazione», nel

nostro ordinamento, è dovuto principalmente alla prassi notarile.

Il merito va, tra gli altri, al notaio Enrico Bellezza, il quale «raccogliendo le

istanze civili e studiando le soluzioni adottate già in altri Paesi (…)»

500

ha

concepito le prime «fondazioni di partecipazione»

501

come luogo ideale dove

«la Fondazione tradizionale, ottocentesca, e l’Associazione si incontrano, si

uniscono per dare vita a quella terza figura, forse già intuita dal Legislatore

ma mai espressa, che, assomigliando molto al charitable trust

502

anglosassone,

può essere strumento valido per le istanze di cui ci occupiamo»

503

.

La fondazione di partecipazione è un istituto definito quale «patrimonio a

struttura aperta, a formazione progressiva, nel quale l’elemento personale e

500 E. BELLEZZA e F. FLORIAN, Le Fondazioni del terzo millennio. Pubblico e privato per il non profit,

Firenze, 1998, p. 34 ss, secondo cui «questo libro vuole raccontare la storia, le motivazioni e le basi giuridiche che hanno portato alla creazione della Fondazioni di partecipazione (…)».

501Come lo stesso E. BELLEZZA spiega nel suo Le Fondazioni del terzo millennio, cit., p. 34 ss, sin

dal 1996 si è cominciato a prendere atto della sostanziale evoluzione dell’istituto fondazionale verso forme più elastiche e duttili da poter essere utilizzate per le varie necessità, aggiungendo come sia stato egli stesso a studiare e realizzare oltre 550 fondazioni di partecipazione nello scorso decennio, la prima delle quali fu la “Pier Lombardo” di Milano, costituita il 7 dicembre 1996.

502 «Il Trust è uno dei prodotti più caratteristici dell’esperienza giuridica inglese, si ricollega e

si spiega con il dualismo tra Common Law ed Equity, dualismo del resto non meno peculiare. Benché in passato il Trust sia stato considerato dai giuristi continentali un istituto stranissimo ed inesplicabile esso in realtà è nella sua struttura assai semplice. Trust significa fiducia. Come nel negozio fiduciario ben noto nell’area romanistica anche in Inghilterra alcuni soggetti furono indotti a trasferire ad altri i propri beni fiduciae causa. Il trasferimento avveniva quindi non per causa di prezzo o per l’adempimento di un obbligo, ma per la fiducia che il tradens nutriva verso l’accipiens il quale avrebbe dovuto bene amministrare i beni per un certo tempo e poi ritrasferirli gratuitamente al suo dante causa. (…) la chiave di volta dell’istituto del Trust sia stata identificata nella doppia proprietà che esso consente e che pertanto esso sia stato considerato inassimilabile dalle esperienze giuridiche romanistiche che invece hanno elevato a dogma l’idea della unicità del dominio», così C. A. CANNATA – A. GAMBARO, Lineamenti di storia della Giurisprudenza europea, IV ed., II, Torino, 1989, p. 76 ss.

170

quello più propriamente patrimoniale confluiscono dando vita ad un unicum

operativo che si caratterizza (o può caratterizzarsi) anche per la larga base

associativa su cui può poggiare ed a cui si lega»

504

.

Essa si pone come modello «innovativo»

505

rispetto alla fondazione

tradizionalmente intesa, diventando uno strumento (a)tipico

506

di gestione

dei beni culturali, il cui successo è principalmente dovuto alla duttilità del

modello caratterizzato, tra l’altro, dalla compartecipazione di aspetti

privatistici e di aspetti pubblicistici.

Il tutto in un’ottica di ottimizzazione delle risorse orientate al

soddisfacimento del pubblico interesse: non dimentichiamo, infatti, che il

panorama entro il quale opera tale modello fondazionale resta pur sempre

quello dell’apparato pubblico, in cui il rispetto del «vincolo del fine»

507

504 Così, E. BELLEZZA e F. FLORIAN, Op. cit., p. 40.

505 Cfr. F. SUCCI, Profili operativi e gestionali della fondazione di partecipazione quale istituto idoneo alla gestione dei servizi culturali alla luce della vigente situazione socio-economica, in Notariato,

2014, 6, p. 627, il quale sottolinea come «la fondazione di partecipazione (…) nasce dall’intento di ovviare ad alcuni limiti propri delle fondazioni di stampo “tradizionale”, quali la sottopatrimonializzazione determinata dalla vigente situazione economica e l’eccessivo distacco tra ente e fondatore, foriero di una spiccata autoreferenzialità da parte degli amministratori».

506 Sul presunto carattere dell’ «atipicità», cfr. M. MALTONI, La fondazione di partecipazione: natura giuridica e legittimità, in Fondazione italiana del notariato. Rivista on line, reperibile al sito

http://elibrary.fondazionenotariato.it/approfondimento.asp?app=06/bibliografia/bibliografia &mn=3&tipo=4&qn=1. Secondo l’A., la fondazione di partecipazione non sarebbe qualificabile come “atipica”, essendo piuttosto «una delle possibili tipologie di fondazione». Conformemente, R. DE ROSA, Tipicità delle persone giuridiche e fondazioni di partecipazione, in

Studi in memoria di Bruno Carboni, Napoli, 2010, pp. 323-365. Secondo l’A., infatti (p. 353 ss),

«pare sia possibile escludere che la fondazione di partecipazione costituisca un nuovo ente personificato, cioè una di quelle “altre istituzioni di carattere privato” che l’art. 12 c.c (ora art. 1, d.P.R. n. 361/2000) sembra consentire», laddove «il carattere partecipativo, introducendo nel tipo- fondazione un aspetto personalistico accanto a quello patrimoniale, renderebbe la fondazione di partecipazione simile a un’associazione, ma non ne farebbe un ente innominato». L’A. sostiene, infatti, che «sussiste, nel nostro sistema giuridico privatistico, un principio di tipicità delle persone giuridiche».

507 Per una sintetica ricostruzione, v. V. CERULLI – IRELLI, Lineamenti di diritto amministrativo,

Torino, 2014, p. 252 ss: «Il principio del vincolo del fine comporta necessariamente che ogni scelta che l’amministrazione adotti nell’ambito della sua discrezionalità debba essere sempre

171

permane indiscusso anche nell’approccio ai nuovi paradigmi organizzativi,

quale interna articolazione del più ampio principio di legalità, assieme al

principio della predeterminazione normativa del potere e delle modalità del

suo esercizio, rientrando questo in uno di quei casi.

D’altro canto, poiché i moduli giuridici dell’azione amministrativa possono

essere sia di diritto pubblico sia di diritto privato, e ciò secondo le scelte

dell’ordinamento positivo, non sorprende sicuramente la circostanza,

peraltro già accennata

508

, che della correlazione tra diritto pubblico e diritto

privato si siano occupati studiosi ed interpreti di ogni tempo, interessati non

solo alla modalità di compenetrazione di questi due rami del diritto, ma

anche agli stessi limiti in essa connaturati.

Ed è questa una circostanza che torna di grande attualità anche

relativamente alla fondazione di partecipazione.

Ricordando brevemente, e per un mero scopo iconografico, che il

Partenariato pubblico-privato di tipo «istituzionalizzato» configura l’ipotesi

della possibile «cooperazione tra il settore pubblico ed il settore privato in

seno ad un’entità distinta»

509

, cioè «detenuta congiuntamente dal partner

pubblico e dal partner privato (…) con la missione di assicurare la fornitura

di un’opera o di un servizio a favore del pubblico»

510

, di fatto, la fondazione

di partecipazione è modello ad esso riconducibile; e, stante lo scopo che qui

correlata al fine che ad essa è imposto; e che perciò di ogni scelta debbano essere evidenziate le ragioni circa la necessità e opportunità di essa in relazione a quel fine».

508 v. Cap. II, paragrafo 2, del presente elaborato. 509v. Libro Verde 2004, al punto 1.3.20.

510 Cfr. al riguardo il Libro Verde 2004, par. 20, nonché i paragrafi 53 ss; si veda anche

l’ampia definizione di PPP di cui alla Relazione del Parlamento europeo sui Partenariati

pubblico-privati e diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni del 16 ottobre 2006

(A6-0363/2006), secondo la quale: «i PPP possono essere descritti come una forma di cooperazione a lungo termine disciplinata contrattualmente tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le risorse richieste sono poste in gestione congiunta e i rischi legati ai progetti sono suddivisi in modo proporzionato sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto».

172

si persegue, l’attenzione si sposta conseguentemente sul tipo della

fondazione c.d. “culturale”

511

, costituita e finalizzata per la gestione e la

tutela di beni culturali, riconducibile, secondo la dottrina, alla figura della

fondazione di partecipazione proprio per la «particolare configurazione

strutturale e funzionale dell’istituto giuridico in esame»

512

.

Pare, infatti, che, tra tutti i settori quello dei beni culturali sia quello in cui «le

difficoltà nell'impiego del partenariato si atteggiano in modo parzialmente

diverso, ma, forse, sono ancora maggiori»

513

, in quanto «in concreto la

gestione dei beni culturali è un'attività che allo Stato risulta produttiva di

reddito solo con notevoli difficoltà»

514

.

E’ anche per queste ragioni, dunque, che si rinviene la necessità di esaminare,

viepiù a livello locale, quale sia, o possa essere, il valore operativo e

gestionale che la fondazione di partecipazione riveste attualmente, anche alla

luce del momento contingente di “Spending review”.

Ma prima di procedere in tal senso, nasce qui forte l’esigenza di recuperare

una efficace metafora, frutto della riflessione di attenta dottrina, che definisce

il partenariato pubblico privato quale «cavallo di Troia attraverso il quale

l’atipicità negoziale entra nella cittadella dell’azione amministrativa, fino a

questo momento regolata da rigidi principi, quali quello della legalità, della

tipicità e della nominatività, scompaginandone le tradizionali formulazioni.

511 Sul punto, v. T. PONTELLO, Partenariato pubblico-privato istituzionalizzato: le fondazioni per la gestione di beni e servizi culturali e le società di capitali ad oggetto culturale, in cit.,p. 317 ss, il quale sostiene che: «la comparsa e lo sviluppo della particolare figura giuridica della fondazione c.d. “culturale” è infatti riconducibile al recente affermarsi dell’istituto fondazionale quale soggetto giuridico finalizzato alla cura e al perseguimento di interessi pubblici».

512 Così, T. PONTIELLO, Op. cit., p. 336. Cfr. A. ANGIULI, Le fondazioni culturali: prospettive e problemi, in G. RESTA (a cura di) Le fondazioni: prospettive italiane ed europee, Napoli, 2014, p. 175 ss.

513 G. MANFREDI, La “Fondazione La Grande Brera”, il partenariato e la panacea di tutti i mali, in

Aedon, n. 2/2014, s.p., (Rivista di arti e diritto on line).

173

Ciò comporta che anche il contratto atipico si pone come normale alternativa

al provvedimento per realizzare i fini istituzionali delle pubbliche

amministrazioni»

515

.

Questa immagine cede, a sua volta, il passo ad un’ulteriore riflessione

dottrinale, quella per la quale «ricostruire la fondazione quale “strumento

privatistico di perseguimento dell’utilità sociale, ovvero dell’interesse

pubblico” costituisce (…) un invito a “prendere sul serio” il legislatore e il

processo che ha condotto alla moltiplicazione delle fondazioni di “origine

pubblica”»

516

.