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La letteratura come luogo residuo del soggetto metafisico

L’altro e il senso del testo

6. La letteratura come luogo residuo del soggetto metafisico

e logocentrico

Resta da affrontare – per fedeltà al nostro titolo – in problema dell’al-tro, cioè del rapporto fra l’io e l’aldell’al-tro, nella costellazione provvisoria che ci siamo costruiti finora.

Chiarisco subito che non mi riferirò qui all’“altro” come tema o argomento del letterario, in un arco che va dall’esotismo orientalista e imperialista descritto da Said fino al suo rovesciamento nella ri-vendicazione orgogliosa della pluralità dei punti di vista subalterni dei cultural studies. Non ci può più bastare infatti il “politicamente corretto” dei western che proclamano “buoni” i pellerossa, perché è in gioco molto di più, a cominciare – ad esempio – dal fatto che lo stesso termine “pellerossa” è considerato oltraggioso e razzista dai nativi americani. Ciò che va sottoposto a critica non è più solo, banalmente, l’attribuzione dei ruoli “buono” Vs “cattivo” ma, ben più radicalmente, è il potere di nominazione, o – più in generale – il potere di narrazione, insomma il potere di senso, che organizza per intero le nostre letterature. Dunque occorre andare più a fondo – se ci riusciamo – e cercare di capire che ruolo gioca la letteratura in rapporto al problema dell’“altro”, più precisamente al problema dell’“io” Vs “l’altro”.

E qui il discorso si fa particolarmente impervio e delicato, giac-ché non c’è dubbio che la letteratura (o almeno la nostra letteratura occidentale) abbia molto a che fare con l’“io”, e forse troppo. Ciò è vero anche per il senso comune17, ed è tanto più vero per gli addetti professionali alla letteratura (siano essi scrittori o critici): per tutti costoro la letteratura, la poesia, è definita e vissuta come luogo emi-nente della soggettività umana. Il poeta è visto infatti come colui che liberamente crea, è un creatore increato che ex nihilo produce idee e parole, insomma un demiurgo, luogo della più pura sogget-tività umana e, in questo senso, egli è una specie di semidio; non a caso il suo prodotto – la poesia – viene offerto a una forma di frui-zione che ha molto a che fare con la contemplafrui-zione. In termini più ristretti, critico-letterari, si potrebbe anche dire che il romanticismo e l’idealismo sono duri a morire, oppure che essi continuano a do-minarci ben oltre la loro stessa morte.

La domanda (ancora una volta inevitabilmente radicale) che si impone a questo punto del nostro ragionamento è allora la seguente:

17 Il poeta, nell’immaginario comune, è un uomo, solo e pensoso, e del tutto concentrato su di sé.

è davvero un gesto innocente pensare il mondo alla luce di questa idea di poesia, cioè a partire da un Io tanto forte, in termini di “io”

Vs “l’altro”? Oppure questa stessa dicotomia contiene già in sé una

insopportabile gerarchia, come un uovo di serpente destinato a pro-durre, prima o poi, gli orrori del razzismo e della guerra?

Esiste una corrente di pensiero che ritiene niente affatto

inno-cente il pensiero occidentale, o almeno (se questa categoria appare

troppo confusa e onnicomprensiva) la cosiddetta ontologia, la me-tafisica ontologica che, da Platone in poi, identifica l’essere con il pensiero e che, in effetti, rappresenta tanta parte della tradizione filosofica occidentale.

Anche l’io-penso cartesiano, nonostante la sua apparente neu-tralità, contrabbanderebbe l’istinto di dominio. Poiché tutto ciò che “sta fuori” dalla res cogitans è ridotto a res extensa, oggetto mera-mente quantitativo, compresa la Natura e gli altri uomini, ecco che inevitabilmente l’“Io penso” si può relazionare solo ad un non-Io, ad un Esso, e non mai ad un Tu. L’Altro è dunque una cosa, e (ciò che più conta per la ragione borghese) è un possedibile. L’Io-penso fonda così se stesso, la soggettività forte della ragione borghese, come soggettività di dominio e di rapina. Fuori da un tale Io può esistere solo ciò che Ernesto Balducci definiva una “feroce ogget-tivazione”.

In questo modo il pensiero si identifica senza residui con la ra-gione, la ragione con l’uomo-individuo, e tale uomo-ragione è l’Es-sere stesso, o meglio l’unico esl’Es-sere che conti; così, e solo grazie a questa triplice riduzione, l’uomo diviene il Soggetto (con l’articolo determinativo dell’unicità e la maiuscola che si deve alla divinità). Dopo un tale gesto fondativo “chi parla” (in effetti l’unico soggetto che parla, che può parlare, che il discorso della ragione autorizza a parlare ed a parlarsi) parlerà sempre e soltanto tautologicamente, per dire se stesso, parlerà insomma solo a partire da un Io fortis-simo ed esclusivo, l’Io occidentale, un centro che non richiede né permette (ma semmai solo tollera) altri punti di vista.

Così l’Illuminismo, nato per illuminare con la luce della ragione il mondo intero, avrebbe come esito un paradossale sciovinismo filosofico; intenzionato a rendere liberi e uguali tutti gli uomini del

mondo, fonderebbe una gerarchia rigidissima fra chi appartiene, e chi no, all’ambito della ragione occidentale, che (per giunta) viene ora identificata senz’altro con l’Umanità qua talis. La “vera cul-tura” e la “vera civiltà” (l’una e l’altra occidentali, capitalistiche, cristiane, maschili, bianche, possidenti, adulte, etc.) possono così svolgere nella modernità lo stesso ruolo che nel paradigma delle crociate e della conquista aveva svolto la “vera religione”, fungere cioè da pretesto dell’invasione e da legittimazione dello sterminio.

Sorge qui anche il più ambiguo dei concetti, quello di “tolleran-za”: si tollera ciò che, di per sé, non meriterebbe altro se non mo-rire, ciò che viene tollerato è di per sé puro non-senso e disvalore, è oggetto non soggetto, è un Esso non un Tu. La stessa sopravvi-venza dell’Altro tollerato va dunque messa sul conto positivo del-la generosità del Soggetto che benevolmente tollera, non certo del diritto perfetto ad esistere che appartiene intrinsecamente all’essere dell’Altro.

Domandiamoci ancora: la Poesia (ora con la ‘P’ maiuscola), che abbiamo visto coincidere con l’Io forte della soggettività e forse fondarlo, fa anch’essa parte del punto di vista esclusivo della cul-tura occidentale? È anch’essa una componente di ciò che Walter Benjamin chiama “il bottino dei vincitori” che non si può contem-plare “senza orrore”?

Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfa-le dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come patrimonio culturale. Esso dovrà tenere conto di avere nel materialista storico un osservatore di-staccato. Infatti tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale gli rivela una provenienza che non si può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie18.

18 W. beniaMin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 31.

Si tratta, è vero, di cultura, ma di una cultura divenuta ora la cultura tout-court, l’unico legittimo punto di vista perché l’unico filosofica-mente razionale, politicafilosofica-mente civile, storicafilosofica-mente contemporaneo, economicamente produttivo: l’unico propriamente umano.

È questo il “monologo occidentale”, e ora sappiamo di che lacri-me grondi e di che sangue.

D’altra parte se guardiamo alla storia dell’Occidente occorre am-mettere che qualcosa, qualcosa di grosso, confermerebbe tale

distor-sione originaria; mi riferisco al fatto che il nostro mondo moderno

(questa figura storica globale a cui è possibile ricondurre altre cate-gorie come il capitalismo, l’Occidente, l’Europa, il Nord del pianeta, etc.) ha avuto come atto fondativo la cosiddetta “scoperta dell’Ame-rica”, cioè lo sterminio di 60-70 milioni di indios, annientati in vario modo. L’Occidente moderno nasce in effetti contro l’Altro e grazie alla sua uccisione, la quale è dunque fondativa, appunto come un sacrificio.

Le cose non stanno forse così per Hegel? Se la storia non è che il manifestarsi della logica più profonda dello spirito del mondo, per cui le vicende della storia umana sono ricondotte alla identità dell’idea con se stessa, allora l’Altro, il diverso, l’irriducibile a que-sta razionalità, non ha alcun significato, esso è da relegare – come brutalmente ma coerentemente Hegel ha ripetuto più volte – fra i “fe-nomeni di natura” (dove natura è contrapposta alla storia: questa sì, e solamente, umana): “I popoli non occidentali sono popoli di natura”, in qualche modo rassomigliano alla specie delle farfalle o dei felini, non sono nella storia. La negazione dell’Altro è veramente una ca-ratteristica forte dell’Essere occidentale, fino dalle sue più profonde radici metafisiche.

D’altronde occorre ammettere che se, e quando, l’Altro entra a far parte della storia (in tutte le sue forme e articolazioni: storia dei fatti ma anche storia delle idee e delle forme), tale irruzione si rivela come assolutamente perturbante; ed “essere perturbante” è, lo sappiamo, la più profonda natura dell’Altro e forse la sua stessa definizione. Accade oggi con la forzata “fine del monologo occidentale”. Non è forse questo che ci dice il fiorire, ormai inarrestabile, degli “studi culturali” (studi di genere, studi postcoloniali, etc.) in tutte le

no-stre discipline, nessuna esclusa? E non reagiscono forse anche a tale perturbamento rovinoso mettendo mano alla pistola (come per un riflesso condizionato) i difensori dei diversi canoni dell’Occidente? Canoni diversi per ogni ambito disciplinare, ma sempre – neanche a dirlo – canoni esclusivi ed escludenti, autocentrati, occidentali, capi-talistico-borghesi, maschili, bianchi.

“Il mondo copernicano è un mondo che dà i brividi” – disse Pa-scal – ma il mondo della narrazione storica storicistica e occidentale era un mondo in cui l’uomo dell’Occidente poteva abitare senza bri-vidi, appunto perché esso era costruito di racconto, di una narrazione che dava senso al suo stare al mondo (anzi al centro del mondo). Ebbene, noi dobbiamo constatare la caduta in rovina anche di que-sta comoda casa della storia borghese, come di qualsiasi casa, e per questo le nostre società conoscono di nuovo il brivido dell’angoscia assoluta, a cui ora non è più concessa neppure la consolazione della religione.

Come sorprendersi che questa angoscia si trasformi in paura e la paura in attribuzione di colpa e in odio, e che tutto ciò generi guerra? La guerra, non per caso definita da George Bush jr, con un lapsus pie-no di sincerità, come “infinita”: tale guerra pie-non è altro che la guerra del “noi” contro gli “altri”. La più disonesta e colpevole delle rimo-zioni è oggi quella che riguarda il nostro essere in guerra, e il buoni-smo è più colpevole a questo proposito di quanto non sia l’esplicita ferocia dei razzisti: “io non sono razzista, però…” è l’untuosa divisa caratteristica di questo razzismo italiano diffuso quanto nascosto, che occorre estirpare, dopo averlo rintracciato e portato alla luce.

In questo senso, la guerra è veramente la rivelazione a se stes-so dell’essere ontologico occidentale (hegelianamente: l’Essere è la Guerra), essa è la manifestazione nella storia dell’idea di Totalità (quella “cattiva totalità” che, come sappiamo, Lévinas contrappone a Infinito).