Dal vestema al word design: modelli di lettura e d’analisi linguistica a
1. La nuova questione linguistico-vestimentaria
Per riuscire a “leggere il linguaggio vestimentario” e ad interpretar-ne struttura e funziointerpretar-ne all’interno dei testi, possiamo avvalerci oggi di una ricca serie di protocolli di ricerca e di numerosi strumenti e repertori di supporto. È noto, infatti, che dal punto di vista metodo-logico i solidi paradigmi messi a punto tra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento – da quello storico-sociologico di Georg Simmel (1895) a quello psicologico di John Carl Flügel (1930), da quello antropologico di George Darwin1 a quello linguistico-semi-otico di Roland Barthes (1967) – hanno trovato una nuova sistema-zione interdisciplinare e interculturale negli attuali Fashion Studies. Ugualmente strumenti e repertori sono stati arricchiti in ogni singola disciplina e se nell’ambito delle tecniche di conservazione ed espo-sizione degli oggetti vestimentari abbiamo assistito alla nascita di un gran numero di strutture museali e a un lavoro di catalogazione sen-za precedenti, nello specifico campo linguistico sono notevolmen-te aumentati i dizionari (francese: Remaury 1994; Moriconi-Hoyau 1998; greco e latino: Cleland, Davies, Llewellyn 2012; inglese: O’Hara 1986; Brooks Picken 1999; Mankey Calasibetta – Tortora 2003; italiano: Meano 1936; Canonica Sawina 1994; Vergani 2004; spagnolo: Zeldis Mendel 1988), gli studi specifici (es. Rüfer 1981; Geeraerts – Grondelaers–Bakema, 1994; Puglisi 1994; Sonina 2007; Balteiro 2011; Estornell Pons 2012; Catricalà-Guidi 2009; 2014) quanto le possibilità di monitoraggio degli usi tramite le banche dati elettroniche e i motori di ricerca come Sketch Engine.
1 Il giovane George Darwin, prima di diventare un noto astronomo e ma-tematico, pubblicò un articolo intitolato Development in dress, apparso nel 1872 sul “MacMillan’s Magazine”. L’articolo sosteneva la totale similarità fra la specializzazione di alcuni organi e parti del corpo degli animali e quel-la di alcuni capi di abbigliamento umani. Una prova evidente in tal senso sarebbe stata la riduzione di code e colletti che, molto vistosi negli abiti di una volta anche a fini protettivi o di identificazione del rango, avrebbero col tempo perso la loro funzione al punto da apparire come le ali atrofizzate degli apteryx, un po’ ridicoli e del tutto inutili (Darwin 1872, 410-1).
Ciò nonostante, mettere ordine attraverso le parole nella florida
végétation des objets (Baudrillard 1968) che prolifica nei
guardaro-ba e sulle pagine delle riviste patinate, risulta oggi una operazione più complessa che mai. Infatti, oltre che del policentrismo e della componente neologica, che sono caratteristiche strutturali del lessico della moda, bisogna ormai tener conto anche dell’insorgenza di due fenomeni del tutto nuovi. Il primo è la deterritorializzazione del vo-cabolario dell’abbigliamento. Il secondo è il ritmo accelerato che il cambiamento del discorso di moda e sulla moda ha assunto nei media e in particolare per effetto delle nuove tecnologie. A causa di entram-bi i processi, quello che Baudrillard chiamava le sisteme parlé o di significazione sta diventando in tale ambito, come in altri, sempre meno coerente e, dunque, di difficile accessibilità.
Il concetto di deterritorializzazione è ampio e ha assunto differen-ti valenze da quando negli anni ’70 Gilles Deleuze e Félix Guattari lo hanno adoperato per indicare la perdita di rilevanza della localizza-zione di un territorio dato, rispetto alle attività e alle relazioni umane. In senso più generale si può parlare di deterritorializzazione quando si ha un indebolimento dei legami tra cultura e parametri spaziali e temporali. A questo fenomeno più generale si ricollega il neologi-smo non-luogo coniato dall’antropologo Marc Augè nel 1992 per dar conto di due nuove realtà della surmodernité, e cioè, dei nuovi spazi destinati a una funzione specifica, ma stranianti e privi di identità.
La moda è riconducibile al senso traslato del termine, perché nell’ambito vestimentario sia il sistema simbolico, sia quello lingui-stico stanno perdendo gran parte della loro tipicità proprio a cau-sa dello scollamento con il territorio e con l’humus immaginario e storico-sociale. Ora, se si guarda alla storia del vocabolario della moda, risalendo finanche al passaggio dalle epoche preindustriali a quelle sempre più recenti, ci si accorge proprio che molte delle vicende linguistiche dell’abbigliamento raccontano un progressivo e inarrestabile sradicamento di parole e cose, per l’appunto, dalla “semiosfera” di riferimento (Rak-Catricalà 2013). Le dislocazioni e le relative ibridazioni verbali sono diventate sempre più frequenti, per cui l’erba si può “calzare” sulla spiaggia (infilando dei sandali di plastica con fondo simil-erba) e così degli stivali, un tempo
tipi-co accessorio invernale, esistono ormai anche le versioni estive; le borse svelano “nano paesaggi” e gli abiti diventano una specie di “sottoveste da indossare sopra”; i pantaloni sono anche gonna e la pelliccia è sintetica; le ali e gli occhiali diventano decorazioni e i tatuaggi vestono intere parti del corpo. L’effetto che questo genere di commistioni provoca è simile al disorientamento dovuto alla aconte-stualità e incoerenza fra abiti tradizionali e paesaggi urbani alle quali siamo abituati nelle metropoli di tutto il mondo. È vero, infatti, che chi indossa il chador tra i grattacieli di New York o tra le nostre piaz-ze barocche, un foro romano o una cattedrale rinascimentale riven-dica la propria identità, ma la domanda è: con chi e come comunica? Quanti, insomma, fra i più che ne osservano le pieghe possiedono il know how necessario a decodificare la valenza storico-culturale e simbolica del suo messaggio?
A tal riguardo, non è un caso che nella comunicazione vestimen-taria siano aumentati i livelli di ambiguità e i relativi casi di frain-tendimento. Le gaffes interculturali relative all’uso degli abiti sono ormai frequenti come quelle che accadono fra gruppi e classi socia-li diversi. Può capitare, quindi, sempre più spesso non soltanto di essere overdressed o underdressed a seconda dei differenti eventi più o meno formali a cui si partecipa, ma anche di trovare qualche straniero vestito di viola a un matrimonio italiano e, viceversa, di regalare una cravatta a un collega di una comunità araba, all’interno della quale tale capo di abbigliamento, essendo indossato solo per i funerali, non è considerato di certo un dono beneaugurante.
Per quanto concerne il secondo fenomeno insorgente, cioè quel-lo della eccessiva accelerazione del cambiamento che il discorso di moda e sulla moda ha assunto nei media, invece, basti considerare per esempio, che mentre in passato per degradare il tabarro da man-tello di lusso indossato dai nobili a indumento popolare o per veder scomparire i verdugali, i panier e altre forma di costrizione del corpo femminile, si impiegarono diversi secoli, già oggi le nuove gene-razioni ignorano il senso simbolico che per i giovani sessantottini hanno avuto la minigonna e il montgomery.
Il rischio della concomitanza di entrambe le tendenze cui abbia-mo potuto solo accennare qui, per ovvi abbia-motivi di spazio, è che il
co-dice risulti inaccessibile in termini di comprensione e che gli spazi di leggibilità autentica da parte della maggior parte dei parlanti e degli stessi modaioli si riducano ulteriormente. Solo una visione olistica, che punti alla comprensione del linguaggio come processo di concet-tualizzazione dell’abito, da una parte, e al recupero del rapporto con i saperi sartoriali e dei differenti territori, dall’altra, potranno con-sentire in un futuro prossimo-venturo di continuare a leggere i “testi intessuti” e le loro imbastiture verbali. Vediamo perché.