L’altro e il senso del testo
3. Senso e linguaggio
Sembra che ci siano per l’uomo solo due cose altrettanto caratteristi-che ed altrettanto universali della ricerca di senso: l’essere mortale e l’essere dotato di linguaggio. Esiste forse un nesso fra queste tre cose universalmente umane (l’essere un animale rivolto al senso, che muore e che parla)? È solo il linguaggio umano che dà senso alle cose del mondo, e il testo non è altro che lo sforzo di stabilizzare il senso che esso veicola, al fine di sfidare lo spazio e il tempo della morte. Da questo punto di vista l’endiade “testo e senso” o l’espres-sione “senso del testo” sarebbero tautologie, perché il testo è ciò che conferisce senso e il senso è costitutivamente testo.
Non per caso dare nome alle cose, cioè attribuire loro un senso, è una funzione adamitica, come si legge in Genesi, 2, 19:
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognu-no degli esseri viventi, quello doveva essere il suo ognu-nome.
Si noti che il problema del nome (possiamo dire ormai: del potere del nome) è al centro di uno dei miti fondativi della nostra cultura, quel-lo della torre di Babele, che ha tanto interessato e affascinato autori come Gadamer9, Borges o Steiner:
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sen-9 h.g. gadaMer, La diversità delle lingue e la comprensione del mondo (1990), in id., Linguaggio, a cura di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 73-84 (p. 73).
naar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: […] «Venite, costruia-moci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo; facciacostruia-moci un
nome per non disperderci su tutta la terra». (Gn 11, 1-4; la
sottoline-atura è nostra NdR)
Dove la hybris del gesto, punita dal Cielo, non consiste tanto nella costruzione della torre quanto nella pretesa di unità, anzi per essere più precisi di uni-vocità, nella riduzione dei tanti nomi naturali a un solo nome, e artificiale (“facciamoci un nome”), cioè nella soppres-sione delle differenze fra gli umani. Si tratta di differenze anzitutto linguistiche che – come annota Ricoeur10 – la stessa Bibbia, poco
prima del racconto di Babele, aveva presentato come un dato di fatto
assolutamente positivo dell’umanità post-diluvio:
Questi sono i figli di Sem, secondo le loro famiglie e le loro lingue, nelle loro regioni e nelle loro nazioni. Queste sono le famiglie dei figli di Noè, secondo la loro genealogia nelle loro nazioni. Da essi poi uscirono i popoli che si sparsero sopra la terra dopo il diluvio. (Gn 10, 31-32)
Le lingue dunque sono già tante prima di Babele, ma è una diversità interna alla famiglia umana, che non impedisce ancora l’unità del genere umano; direi che questa pluralità delle “loro lingue” sembra prevedere la traducibilità, sembra essere vocata alla traduzione.
Come se, dopo la cacciata dall’Eden, non potesse più apparte-nere all’uomo il potere semidivino e troppo puro di nominare uni-vocamente le cose dando loro un senso e uno solo (“in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello
doveva essere il suo nome”), ma invece gli appartenesse ora il
com-pito umanissimo e spurio di comunicare sensatamente attraverso le differenze dei nomi, e di riuscire in tal modo a collaborare.
Con-10 p. riCoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di Domenico Jervolino, tr. it. di I. Bertoletti; M. Gasbarrone, Morcelliana, Brescia 2001, p. 61. Mi piace ricordare che sono debitore di queste riflessioni al collega Giuseppe D’Acunto e al suo saggio intitolato Estraneità e traduzione. Babele come
paradigma del problema etico della differenza (Gadamer, Ricœur, Derrida,
laborare, cioè lavorare insieme fra umani: è questo, a ben vedere, sia lo scopo che il segno della reciproca comprensione. Lavorare è infatti per l’uomo sempre un con-laborare, e il suo strumento prin-cipale (ce ne rendiamo noi conto oppure no) è dunque il linguaggio.
Nel meraviglioso mosaico del pavimento della cattedrale dell’An-nunziata di Otranto (non lontano dal paese meraviglioso che ospita questo incontro) c’è, entrando sulla sinistra, la torre di Babele. Que-sta è rappresentata soprattutto in riferimento al lavoro umano: nel riquadro immediatamente superiore, dietro a un Noè inginocchiato, cinque uomini sono impegnati nelle lavorazioni del legno (costrui-scono l’arca), e proprio nel riquadro dedicato alla torre altri quattro sono addetti ai lavori dei campi, forse alla viticoltura11; ma è proprio intorno e dentro la torre che si addensa il numero maggiore di lavo-ratori, ben quattordici se non ho contato male, in assoluto il maggior concentramento di figure di tutto il mosaico, e non c’è da sorpren-dersi di questo se consideriamo che si tratta, in un certo senso, di un autoritratto collettivo, cioè della rappresentazione del lavoro edile da parte di chi in quel momento, nel costruire quella cattedrale e quel pavimento, stava facendo quello stesso lavoro12.
Questo aspetto operativo e lavorativo, di collettiva attività pro-duttiva, è legato strettamente al reciproco comprendersi delle lingue e non può essere in alcun modo sottovalutato nel mito della torre di Babele. Questo nesso non sfugge al genio di Dante che nel De
Vulgari Eloquentia (I, vii, 6-7)13 lo sottolinea con forza straordina-ria, arrivando a descrivere una situazione in cui la confusione delle lingue non separa gli uomini secondo le nazioni bensì secondo le loro diverse funzioni nel lavoro produttivo (non voglio arrivare qui a dire: secondo le classi; anche se proprio a conclusione del passo che citeremo non manca un attacco diretto di Dante ai potenti):
11 Allude maliziosamente alla passione per il vino la presenza qui (il primo a destra) ancora di Noè, con tanto di nome scritto accanto alla testa?
12 Mi piace pensare che qualcuno degli ignoti mosaicisti della cattedrale abbia rappresentato qui se stesso o un proprio compagno di lavoro.
13 In verità Dante non riprende questo tema parlando della torre di Babele nel XXXI dell’Inferno.
…chi comandava i lavori, chi progettava le costruzioni, chi erigeva muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le spatole, chi era intento a spaccare le rocce, chi a trasportare massi per mare e chi per terra, e altri diversi gruppi attendevano a diversi altri lavo-ri; quando furono colpiti dall’alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si dedicavano all’impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di lingue dovettero riununciarvi, e non seppero più accordarsi in un’attività comune. In-fatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua (“Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit:…”): per esempio un’unica lingua per tutti gli ar-chitetti, una per tutti quelli che rotolavano massi, una per tutti quelli che li apprestavano; e così accadde per i singoli gruppi di lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro in funzione dell’impresa, altret-tanti sono i linguaggi in cui in questo momento si separa il genere umano; e quanto più eccellente era il lavoro svolto tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano. (“…et quanto excellentius excer-cebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur”).
Ecco dunque l’attacco di Dante ai potenti! Con questa specie di con-trappasso in terra (tanto più si è potenti tanto peggio si parla) si arriva a Nembrot, il colpevole di Babele, “per lo cui mal coto / pur un linguag-gio nel mondo non s’usa / (…) / ché così è a lui ciascun linguaglinguag-gio / come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”; dunque, dato che Nembrot è un gigante, nessuno pensi ai nostri potenti, e meno che mai a ministri o ministre dell’Università, magari mentre dicono con accento calabro-bresciano: “Raphèl may, amèch zabì almì”. Ma “lasciànlo stare e non parliamo a voto” (Inf., XXXI, vv.77-78, 80-81, 67, 79).
Per tornare in più spirabil aere, certo è – come afferma ancora Ricoeur – che dopo Babele “comprendere è tradurre”; naturalmen-te innaturalmen-tendendo in senso fornaturalmen-te “tradurre”, cioè dandogli il significato di con-laborare, di aprirsi a sensi diversi portandoli all’unità della comprensione condivisa, comprendere la diversità dei nomi, le di-versità del senso.