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Senso e narratività

L’altro e il senso del testo

4. Senso e narratività

Se dunque il linguaggio e il suo farsi testo è il luogo privilegiato dello sforzo umano di dare senso delle cose del mondo, siamo final-mente arrivati a casa nostra, cioè alla letteratura.

Cosa è infatti la letteratura se non una ipersemantizzazione del linguaggio nei testi, un linguaggio più forte e più denso che vuole dire, e sa dire, più cose? Che cosa è la letteratura se non uno dei massimi sforzi messi in atto dall’uomo di dare senso alle cose per comunicarle? Sottolineo “dare senso alle cose per comunicarle”: sono due cose diverse, non una soltanto, ma reciprocamente impli-cate e co-essenziali. Non sarebbe nulla dare senso alle cose se non si comunicasse tale senso a qualcuno, se non lo si con-dividesse. Si potrebbe forse anche dire che la follia altro non è se non la condan-na di Nembrot, cioè l’incapacità di produrre un discorso condiviso, o condivisibile.

All’interno del vasto campo del letterario c’è un settore in cui il ruolo di elaborazione e di comunicazione del senso da parte della letteratura si evidenzia particolarmente, e questo luogo è il

racto. Il testo narrativo, trasformando l’esperienza in un discorso,

con-ferisce un qualche senso alle vicende del mondo; in mancanza di una narrazione queste ultime sarebbero solo un caos non padroneg-giabile, fatto di esperienze diverse e sconnesse, di immagini slegate e affollate derivanti di continuo dalla pratica degli uomini e dall’at-tività mnestica della loro mente.

Si noti che la medesima narratività garantisce, al tempo stes-so, anche una forte trasmissibilità sociale dei testi che produce (ma dunque anche del loro senso), e riesce a far questo attraverso il misterioso piacere indotto nel pubblico dalla fruizione di un testo narrato.

Facciamo un esempio banale: la situazione che noi tutti viviamo qui in questo istante del nostro Convegno è fatta in realtà di migliaia e migliaia di cose, che vanno dal calore dell’aria al colore della luce, dal vicino che abbiamo accanto al peso del cellulare nella nostra ta-sca, fino al prurito che può cogliere il piede sinistro di qualcuno di noi oppure alle idee geniali o ai sogni che ci sono venuti in mente;

e non solo queste cose sono tante e tantissime, tendenti all’infinito, ma esse sono anche in continuo movimento, come la lancetta del nostro orologio e come la luce del tramonto o il crescere progressi-vo del prurito del piede sinistro di qualcuno di noi, oppure la progressi-voglia di andare a fare pipì per gli anziani con problemi di prostata; e, cosa ancora più grave, tutto ciò si svolge in contemporanea, cioè mentre il sole tramonta il prurito al piede cresce (o diminuisce), e senza che fra queste cose esista (almeno apparentemente) alcun nesso. Così se noi volessimo dire (cioè riflettere nel linguaggio) tutte le cose che effettivamente accadono qui anche in un solo nostro istante, ebbene questo dire non avrebbe fine, e se anche riuscissimo a farlo finire esso non avrebbe alcun senso (notiamolo en passant: basterebbe questo a capire quanto siano ingenue le pretese del realismo inte-so come fotografia della realtà, Lukàcs direbbe del realismo come

réportage e non come rappresentazione).

Se della nostra situazione attuale in questo momento io volessi dare conto (o narrare, che è lo stesso) dovrei invece prescindere da molte delle cose che accadono, anzi da quasi tutte, sceglierne solo alcune, e dovrei di necessità dirne alcune prima di altre, stabilire

una sequenza14, dovrei insomma selezionare le cose e metterle in una sequenza unilineare, cioè organizzare un testo narrativo che ab-bia un inizio, un mezzo e una fine. Naturalmente l’unilinearità della sequenza comporta di per sé la necessità della selezione, e forse è proprio questo duplice e simultaneo gesto (selezionare e organizza-re in sequenza) ciò che aiuta a conferiorganizza-re senso alle cose.

Notiamo una coincidenza assolutamente significativa: Aristotele nella Poetica (cap.VII, 1451/a) per definire che cosa è il mythos (una parola che si può tradurre anche con “racconto”) usa un con-cetto che – come spesso gli accade – è apparentemente banale ma in realtà è profondissimo: un mythos è appunto qualcosa “che ha principio e mezzo e fine”:

Principio è tutto ciò che non ha in sé veruna necessità di trovarsi dopo un’altra cosa, ma è naturale che un’altra cosa si trovi o sia per 14 Definisco con Peirce (Coll. Pap. 3 562b) “sequenza” come “un insieme di termini fra i quali intercorre una relazione di prima e dopo”.

trovarsi dopo di lui. Fine, al contrario, è ciò che per sua propria na-tura viene a trovarsi dopo un’altra cosa, o che ne sia la conseguenza necessaria o che semplicemente le sussegua nell’ordine. Mezzo è ciò che si trova dopo un’altra cosa, e un’altra è dopo di lui.

Questo svolgersi sequenziale del narrare vige – si noti – quale che sia il medium tecnologico che il racconto adotta15. Ma ciò significa che il narrare si rafforza ulteriormente, e rafforza la sua efficacia sociale, per il fatto di svolgersi in modo isomorfo rispetto a una delle dimen-sioni essenziali del vivere umano: il tempo.

Il tempo (almeno quello da noi percepito) si svolge infatti ferrea-mente secondo una sequenza sola, la linea del prima/poi: quello che era prima diventa poi (e mai accade l’inverso) e ad ogni prima segue sempre un poi, e uno solo. Non si confondano con questa costitutiva linearità le possibilità narrative della prolessi e dell’analessi (su cui torneremo fra poco): anche il più vertiginoso flash-back viene letto in sequenza, cioè prima della pagina che segue e dopo la pagina che lo precede; e se si invertisse l’ordine di lettura delle pagine si otterrebbe solo di determinare un’altra e diversa linea sequenziale, ma sempre di una sequenza si tratterebbe.

Si noti che questa cogente e ineliminabile unlinearità sequenziale appartiene alla lettura, a ogni lettura e anzi alla lettura in quanto tale, alla lettura in sé, alla lettura in quanto azione umana16.

15 Anzi la costrizione della unilinearità sequenziale sembra ancora più co-gente per la narratività orale, che si svolge secondo un solo canale, mentre la scrittura sembra consentire, ma solo in apparenza, qualche pallida e limitata forma di coesistenza e contemporaneità di sequenze discorsive diverse.

16 Mi sia consentita una digressione: vorrei cogliere quest’occasione per cer-care di smentire quello che a me sembra un pregiudizio originato da alcune caratteristiche spettacolari del testo informatico, e in particolare dell’iperte-sto; si dice spesso che il testo informatico, e l’ipertesto in particolare, segne-rebbe la fine della lettura sequenziale e dasegne-rebbe luogo a una nuova lettura ipertestuale o simultanea; è un pregiudizio diffuso e alla moda, ma a mio pa-rere del tutto infondato. Per quanto il testo possa essere proposto in una forma materiale non sequenziale e non unilineare (testo barthesianamente articolato in “lessìe”, testo circolare, testo “esploso” sulla pagina, e chi più ne ha più ne