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La “chiave tematica salvifica” e il tessuto delle citazioni biblico-liturgiche nelle miniature gertrudiane

4.1 L’immagine frontespizio del Codex Gertrudianus

4.1.1.1 La loi de cadre adattata all’immagine petrina

Un arco inflesso, o a schiena d’asino (Fig. 17), si eleva tra le due colonne di orazioni gertrudiane accogliendo come in una nicchia la solenne figura di Pietro, mentre, a seguire, un’ampia arcata sovrasta le figure dei due astanti sulla destra259.

L’apertura con arco inflesso costituisce un elemento eccezionale nel panorama della decorazione pittorica russo bizantina dell’XI secolo, a vantaggio di una profilatura a tutto sesto riscontrata ampiamente, invece, nelle forme architettoniche, scultoree e pittoriche sia in ambito occidentale che orientale260. A Venezia, ad esempio, distintasi nei secoli per essere stata un crocevia con l’Oriente cristiano, riscontriamo la tipologia dell’arco inflesso, principalmente di matrice islamica, in almeno due scene del Battistero marciano: la Decollazione del Battista (Fig. 18), nel caseggiato dal quale si sporge il Precursore a decollazione avvenuta, e nella copertura di una delle costruzioni che fungono da quinta alla scena con il Silenzio di Zaccaria (Fig. 19). La decorazione musiva del battistero veneziano, nonostante i massicci rifacimenti che parzialmente la interessarono in particolar modo verso la fine del XIX sec., costituisce una testimonianza di capitale importanza per comprendere la complessità culturale di cui era depositaria l’educazione artistica di una bottega musiva attiva in laguna nella I metà del XIV sec.

Enzo de Franceschi, nella sua tesi di dottorato dedicata proprio all’analisi dei mosaici del Battistero marciano, ritiene ragionevolmente che la tipologia dell’arco inflesso, altresì insolita e sostanzialmente assente nella più ampia decorazione musiva della basilica lagunare, potrebbe essere stata ripresa dagli archi a schiena d’asino che coronano alcune delle più

259 Sull’arco inflesso o a schiena d’asino, si veda N. PEVSNER, J. FLEMING, H. HONOUR, A Dictionary of

Architecture, London 1966 (ed. it. Dizionario di architettura, Torino 1992, pp. 25-26).

260 La tipologia dell’arco inflesso costituirà una peculiarità dell’arte russa soprattutto a partire dal secolo XIII, dove apparirà sovente nelle forme architettoniche, scultoree e pittoriche. In miniatura, ad esempio, negli Atti

degli apostoli del 1220, i seguaci Pietro e Paolo sono posti al di sotto di un’arcata trilobata, la cui volta centrale –

che contiene il Cristo nell’atto di donare le corone del martirio – è costituita proprio da un arco inflesso. Anche nel Salterio di Ivan il Terribile, che prese il nome dallo zar che lo fece trasferire da Novgorod, dove venne miniato sul finire del XIV secolo, a Mosca, (Biblioteca Statale della Russia, fondo 304) riscontriamo la medesima tipologia di profilatura architettonica; al foglio 169v, ad esempio, una grande cornice a forma di tempio accoglie al suo interno la figura del profeta Asaf, posto a sua volta al di sotto di un arco inflesso ad evidenziarne la figura. Per i codici di Rostov e Novgorod si veda: O. POPOVA, Russian Illuminated Manuscripts,

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rinomate aperture della basilica di San Marco261: in primis, quello della duecentesca Porta di Sant’Alipio, posta in corrispondenza del lato nord occidentale della facciata marciana. Anche la Porta dei Fiori, sul lato settentrionale della basilica, è sovrastata da un profilo che, sebbene più articolato, ha come schema di base la medesima tipologia di profilatura architettonica262. I mosaicisti lagunari avevano dunque modelli prossimi ai quali attingere per costruire i propri fondali architettonici.

Nel nostro caso i pochi studiosi interessatisi a questo insolito particolare decorativo, non avendo avuto a disposizione riscontri prossimi, ne hanno dato un’interpretazione personale. Engelina Smirnova ritiene che la miniatura nel suo complesso riproduca la legatura delle due lettere latine “I” e “n”, sottolineando come san Pietro sia raffigurato per tutta l’altezza della lettera “I” (Fig. 20). La studiosa ritiene, inoltre, che la miniatura nella forma (per quanto asimmetrica e con un contorno ondulato) dell’iniziale “In” evidenzi la parte del testo con cui ha inizio il foglio 6r (che fronteggia quello con la miniatura in esame), «[…] in me indignam famulam Christi, clementer respice […]»263, in cui per la prima volta viene indirettamente nominata la stessa Gertrude. La studiosa ritiene che la forma della miniatura con l’iniziale latina legata sia una delle prove dell’appartenenza del miniatore all’ambiente artistico dell’Europa occidentale, per quanto le iniziali dei codici ottoniani e romanici abbiano una struttura geometrica netta e un disegno “cesellato”. Smirnova ipotizza, dunque, che l’artista di questa miniatura avesse voluto imitare semplicemente un’iniziale occidentale, secondo il desiderio espresso dal committente (Gertrude stessa o chi stese il programma di questo fascicolo del codice), per sottolineare l’importanza del posto riservato alla preghiera264.

261 E. DE FRANCESCHI,I mosaici del battistero marciano a Venezia, Doctoral Thesis, Università degli Studi di

Udine, 2014, p. 123, fig. 5 e 350 – 351, fig. 78.

262 Otto Demus rilevò la radice islamica di certi archi inflessi sottolineando, tuttavia, il contatto di Venezia con la Sicilia: cfr. O. DEMUS, The Church of San Marco in Venice. History, Architecture, Sculpture, Washington 1960, pp. 104-105. In merito a tali problematiche si veda anche E. J. GRUBE, Elementi islamici nell’architettura

veneta del Medioevo, in «Boll. CISA”, 7, 1966, pp. 231-256; M. MURARO, Componenti islamiche nell’arte veneziana, in Componenti storicoartistiche e culturali a Venezia nei secc. XIII e XIV, Venezia 1981, pp. 44-49.

Parte della critica considera i portali veneziani con l’arco saraceno non solo come echi di elementi ripresi dall’architettura islamica fine a sé stessi, ma anche come elementi in grado di evocare l’ibrida cultura figurativa del Medio Oriente cristiano sotto la dominazione islamica: cfr. T. E. A. DALE, Cultural Hybridity in Medieval

Venice. Reinventing the East at San Marco after the Fourth Crusade, in San Marco, Byzantium, and the Mythes of Venice, edited by H. Maguire, R. Nelson, Washington DC 2010, pp. 151-191.

263 Questo passo appartiene all’orazione n. 2, del secondo fascicolo (ff. 5 – 6), che ha inizio nel foglio 5vB e prosegue nel foglio 6r per cinque righe. Cfr. Orazione n. 2.

264 A tale proposito si veda E. S. SMIRNOVA, Le miniature del libro di preghiere di Gertrude, in Facsimile… cit.,

pp. 93 – 95; Eadem, Miniatures in the Prayer Book of Princess Gertrude… cit., p. 6; La Pittura in Europa. La

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La tesi di Smirnova verrà ripresa successivamente da due studiosi russi, Vladimir Sarabianov e Marija Alekseevna Orlova; quest’ultima porterà a confronto l’iniziale “P” della Biblia Sacra (Düsseldorf, Universitäts- und Landesbibliothek, Ms. A 2) del XII secolo, della chiesa di San Martino a Colonia265 (Fig. 21), nella quale all’interno della lettera, per tutta la sua lunghezza, emerge la figura stante di Salomone con in mano un cartiglio srotolato266.

Ritengo improbabile che la composizione della scena sia stata elaborata con l’intento di raffigurare un’“iniziale abitata”, come viene definita azzardatamente da Claudio Barberi, anch’egli sostenitore dell’ipotesi di Smirnova267. A prescindere dalla forma, che a mio parere non sembra rivelare distintamente una “In”, la lettura della Smirnova mi sembra decisamente forzata in quanto la miniatura avrebbe dovuto riferirsi alla prima parola vergata nel foglio a fronte, scritta in un momento successivo alla miniatura stessa. Olga Popova parla, invece, di “strannuju nerovnuju formu”, facendo risalire la sua origine a semplici esigenze compositive per la presenza delle piccole figure di fedeli poste sullo sfondo e lateralmente all’immagine di Pietro268. A mio avviso ci troviamo di fronte ad un finissimo esempio di quello che Henri Focillon definisce “home en cadre”269. Lo studioso asserisce che le “figure in cornice”, un’eredità della scultura ellenistica, sono probabilmente la riduzione e la ripetizione della tipologia monumentale della statua posta all’interno di una nicchia. Ogni figura, posta tra due pilastri o due colonne, al di sotto di un’arcata o di un frontone, si isola nonostante la sua posizione e i suoi gesti presuppongano una partecipazione ad un’azione d’insieme. Gli scultori dell’XI secolo trassero i loro modelli proprio da questa tipologia, ampiamente utilizzata nei sarcofagi di epoca cristiana, adattandola poi ad altre superfici, come i paliotti d’altare e gli splendidi capitelli di epoca romanica. Imprigionando la figura in uno spazio limitato la si sacrificava ad una sterile solitudine, le si impediva quella potenza drammatica che solo con la continuità della composizione essa poteva raggiungere.

Questa teoria a mio parere può adattarsi alla nostra singolare composizione. Focillon afferma, infatti, come uno dei criteri fondanti della scultura romanica sia la costante localizzazione delle parti scolpite entro precise cornici architettoniche, come le lunette dei

265 Cfr.Die theologischen Handschriften des Stadtarchivs Köln. Teil 1: Die folio-Handschriften… cit., tav. XIX. 266 M. A. ORLOVA, O Nekotorych priemach ubranstva Molitvennika Gertrudy, in Ot Tsar’grada do Belogo Moria… cit., pp. 313 – 316, fig. 2.

267 Tra gli altri, solo C. BARBERI, I due mondi del cividalese… cit., p. 61, parla a proposito di un’iniziale abitata

con la scena della supplica a Pietro.

268O. POPOVA, Miniatjury kodeksa Gertrudy… cit., p. 178.

269 Per la tipologia delle “figure in cornice”, ampiamente trattata da Focillon si veda: H. FOCILLON, L’arte dell’Occidente, Torino, 1987, pp. 42 – 53.

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portali, gli architravi, i capitelli. Tale principio venne teorizzato dallo studioso francese con il termine di «loi de cadre» (legge della cornice).

Forse nel nostro caso la scelta di non realizzare una miniatura a piena pagina (a differenza delle altre) per poter includere nel medesimo foglio, in un momento di poco successivo, le due preghiere dedicate a san Pietro, su volontà della stessa Gertrude, ha imposto al miniatore un certo ordine visivo e spaziale.

La scena, il cui peso gravita centralmente sulla slanciata e possente figura dell’apostolo, viene disturbata visivamente dalle due piccole figure poste lateralmente. La simmetria della scena viene dunque a mancare; il vuoto attorno alle figure rompe l’ordine compositivo, favorisce la dispersione dei volumi e la mancanza di comunicazione tra questi; la chiave di interpretazione dell’intera composizione rischia dunque di venir compromessa. L’artista, a mio avviso, vi pone rimedio “imbrigliando” le forme entro uno “spazio-limite” (come lo definisce Focillon), spazio che ne limita rigorosamente l’espansione, mentre «[…] la forma aderisce ad esso come farebbe una mano aperta sopra una tavola o contro una lastra di vetro […]»270. Così facendo viene conferito al vuoto una nuova esistenza, un’esistenza che prende forma, che segue meticolosamente la flessione di una curva, una retta decisa o un racemo tortuoso. Lo spazio modera la propagazione dei rilievi, l’eccesso delle sporgenze, il disordine dei volumi, che esso tende a bloccare in un’unica massa; l’arco inflesso unito all’arcata, che sovrasta i due astanti, da quell’unica linea rossa che tutto circonda, consente così a coloro che vivono al suo interno di dialogare tra loro, creando uno spazio che mantenga integre le forme e sia garante della loro stabilità.

Lo spazio-limite agisce anche sul modellato del quale reprime le ondulazioni e il tumulto, tendendo a suggerirlo tramite lievi movimenti che non spezzano la continuità dei piani. La cornice che racchiude Pietro come in una sorta di nicchia votiva (anticipando l’idea stessa di ex-voto che esso doveva suggerire), contiene e controlla il vigore del suo panneggio seguendo quasi maniacalmente la curvatura del braccio sinistro e rientrando in prossimità della caviglia per poi allinearsi al piede; l’immagine dell’apostolo sembra quasi estrapolata da un’icona proprio per la carica semantica che viene affidata all’arcata che lo accoglie, in grado di far confluire sulla sua figura lo sguardo e le preghiere dei fedeli271 (Fig. 22).

270 Si veda Idem, Vita delle forme, Torino, 1987, p. 39.

271 Una tale costruzione d’immagine sembra anticipare di due secoli quella di san Nicola dalla chiesa di San Nicola tis Stegis di Kakopetrià, un caso insolito di icona cipriota dipinta su pergamena applicata su tavola lignea, in cui la figura stante del santo compare al centro sotto un arco trilobato decorato a rilievo con motivi fitomorfi. A tale riguardo si veda il catalogo della mostra romana che le è stata dedicata in occasione del restauro concluso

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Le piccole figure a lato e quella prostrata in ginocchio appaiono già immobili, nei loro gesti prestabiliti, una fissità quasi eterea che necessitava di dare loro una collocazione. Ecco che allora avviene la bipartizione dello sfondo, apparentemente senza alcuna distinzione tra coloro che dimorano in cielo e quelli in terra: tutti e quattro poggiano saldamente i piedi su un manto erboso cosparso di fiori e fronde; il verde era il colore più vicino al mondo materiale, quello che designa la terra, ma anche la sapienza del Verbo divino che tutto unisce; Cristo stesso, infatti, si definisce “viridi ligno”272.

Alle loro spalle vi è un fondale dorato, metafora della luce, manifestazione dell’energia e della gloria divina273. Con l’oro lo sfondo non è una semplice stesura di colore, una superficie passiva su cui si svolge l’azione narrativa, ma diviene un campo brillante e risplendente, quasi incandescente; una presenza prepotentemente visibile che ha un profondo effetto sull’equilibrio visivo ed espressivo della scena274. Al cospetto dell’oro lo sguardo è sedotto da uno spazio che è un’irresistibile entità di pura pienezza ottica, non mero colore, in quanto luce stessa.

dall'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma (ISCR), cfr. Cipro e l'Italia al tempo di

Bisanzio. L'Icona Grande di San Nicola tis Stégis del XIII secolo restaurata a Roma, Catalogo della Mostra, a

cura di I. Eliades, Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, 23 giugno-26 luglio 2009, Atene 2009. La produzione di icone nella Cipro dei Lusignano presenta vari punti di contatto con quella del monastero sinaitico di Santa Caterina, soprattutto con varie icone agiografiche. Un gran numero di icone del complesso monastico databili ai primi decenni del Duecento testimoniano, infatti, la continuità delle relazioni dirette con la cultura di Costantinopoli. Intorno alla fine del primo quarto del secolo XIII, la produzione di immagini sacre a Santa Caterina sembra ristagnare, per riprendere all’incirca due o tre decenni più tardi. Tuttavia, allora, entro una temperie culturale nuova, dai tratti marcatamente ibridi, sulla più antica trama di tradizione bizantina si intessono elementi di varia provenienza – italiani e francesi, palestinesi ed egiziani – tanto da risultare difficoltoso stabilire l’origine dei manufatti artistici. Dunque dalla metà del Duecento, nel contesto di quella che è stata definita l’arte crociata del Levante mediterraneo, comprendente Creta veneziana e la Cipro dei Lusignano, v’è un’accelerazione nella trasmissione dei modelli, dei modi e delle forme di quella eccezionale multiculturalità. Per avere un quadro storico e culturale della Cipro medievale si veda: V. PACE, Armenian Cilicia, Cyprus, Italy and Sinai Icons: Problems of Models, in Medieval Armenian Culture, edited by T. Samuelian, M. Stone, Chico

1984, pp. 291 – 306; A.PAPAGEORGIOU, Icons of Cyprus, Nicosia 1992; Cyprus, the Holy Island. Icons through

the Centuries 10th-20th Century. A Millenium Celebration of the Orthodox Archdiocese of Thyateira and Great Britain, Catalogo della Mostra a cura di A. G. Leventis Foundation, The Hellenic Centre and the Centre of

Cultural Heritage, Nicosia, 1 november – 17 december, Nicosia 2000; A. W. CARR, Cyprus. Society and Culture

1191 – 1374, edited by A. Nicolaou-Konnari, C. Schabel, Leiden 2005. 272 Lc. 23, 31.

273 Sulla simbologia dell’oro nell’arte e nella cultura bizantina si veda: S. S. AVERINCEV, Zoloto v sisteme simvolov rannechristianskoj kul’tury (= L’oro nel sistema simbolico della cultura paleocristiana), in Vizantija, Južnye Slavjane, Drevnjaja Rus', Zapadnaja Evropa: Iskusstvo i Kul'tura. Sbornik statej v cest' V. N. Lazarev,

Moskva 1973, pp. 43 – 52.

274 L’essenza di tale esperienza è fondata sulla fondamentale dicotomia tra una parte dell’immagine che riflette la luce e un’altra che la assorbe. Come vedremo nel nostro caso, anche se in modo più lieve, la costruzione visiva è attestata dal rigore con cui ogni strato è circoscritto dal suo opposto. Al proposito si veda: R. FRANSES,When all that is gold does not glitter: on the strange history of looking at Byzantine Art, in Icon and Word: the Power of Images in Byzantium. Studies presented to Robin Cormack, edited by A. Eastmond and L. James, Aldershot

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Scrive Pavel Florenskij: «[…] L’icona si dipinge sulla luce, la luce si dipinge con l’oro, cioè si manifesta appunto come luce, pura luce, non come colore. Più precisamente, ogni rappresentazione emerge in un mare di dorata beatitudine, lavata dai flutti della luce divina […]»275.

Come nell’icona, anche qui il fondale non prevede alcun tipo di organizzazione spaziale e l’oro ne sottolinea l’appartenenza ad un’altra dimensione di ciò che vi è raffigurato, la convenzionalità stessa dello spazio, il misticismo della visione; lo sfondo diviene così simbolo dell’eternità, dell’immutabilità e della gloria del mondo divino.

Ma che significato e quale importanza ha tale fondale aureo per i personaggi che vi emergono?

La nostra attenzione è attratta da due fuochi visivi: il fondale e la figura di Pietro, che appare risplendere di luce propria. Sotto forma di raggi l’oro penetra ovunque, si posa sulle vesti e sui drappeggi dell’apostolo formando una sottilissima ragnatela di fili dorati che avvolge le sue pesanti forme plastiche, ma anche fendendo in modo perentorio e potente la superficie pittorica. Una grafica netta e rigorosa che trapassa le forme, senza timore di turbarle, illuminandole con lampi di luce e conferendo alla pittura il significato di una materia “temprata nel fuoco”. L’immagine petrina appare così sigillata dalla luce (da colui che si manifesta con la sua gloria) e nel contempo ne è trapassata ed intrisa; può essere, dunque, considerata la materializzazione visiva delle parole di Cristo: «Quamdiu in mundo sum, lux sum mundi»276, «[…] Ego lux in mundum veni, ut omnis, qui credit in me, in tenebris non maneat»277. Il principe degli apostoli riceverà proprio da Cristo il privilegio della trasmissione del potere spirituale accogliendone la Verità: «Tu es Christus, Filius Dei vivi […]»278.

Nelle vesti delle due piccole figure a lato, invece, non v’è l’impiego dell’assist dorato, appaiono dunque quali esseri mortali; ma il fondo oro che in parte circonda i loro corpi, riparandoli sotto un’arcata di luce (nuovamente la forma che emerge dalla cornice trova un suo preciso significato), sembra quasi preservarli dai peccati e pericoli terreni. La figura di Gertrude è l’unica, invece, a non avere il fondo oro alle spalle, la sola ad apparire circondata dalla terra, quasi ad essere sigillata dall’oscurità. È sprovvista della caratteristica crisografia, propria di Pietro, dunque priva di uno splendore soprannaturale in quanto mortale. Il fine

275 Cfr. P. FLORENSKIJ,Le porte regali, Milano 1977, p. 155. 276 Gv. 9, 5.

277 Gv. 12, 46.

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manto dorato che la avvolge sembra però volerla riscattare dall’ombra che la circonda, conferendole grande dignità. Gertrude, infatti, pur non possedendo luce propria, ne sembra ugualmente avvolta, emanata dalla “cassa di risonanza” della figura petrina che ella ha il privilegio di toccare, quasi uno scrigno di luce divina.

Tutte le figure che popolano la scena, situate tra cielo e terra, trapassate dalla luce o semplicemente inondate di riflesso, diventano così il simbolo dell’eterna trasfigurazione che si attua su tutte le forme della vita.

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