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Cultura di Pace e intercultura

4.1 I saperi delle donne della Comunità Sutiava di León, Nicaragua: nuove coordinate teoriche e proposte

4.1.2 La “matrifocalità” della familia sutiava.

Il carattere “matrifocale”2 della famiglia indigena, cioè la cen-

tralità della madre rispetto alla marginalità o assenza del padre, ha provocato nella comunità sutiava un vero e proprio choc culturale3.

Infatti ciò che si osserva subito nella comunità indigena su-

tiava è l’assenza di un capofamiglia maschile, spesso dovuta

all’abbandono del nucleo domestico da parte dell’uomo, che lascia la donna sola ad affrontare il mantenimento e l’educazione dei figli, il più delle volte in condizioni disagiate. Anche nei casi in cui è presente nel nucleo domestico, egli ri- mane assente nelle relazioni affettive e simboliche: raramente si assume la responsabilità della famiglia, preferendo dedicarsi ad attività ludiche quali i combattimenti dei galli, il gioco delle carte, il consumo di alcolici, o cercando continuamente avven- ture sessuali.

Questa defaillance della figura paterna ha determinato la famiglia “matrifocale”, considerata da molti studiosi una sorta di variante “malata” del modello familiare occidentale, che sarebbe alla base di una serie di squilibri della società (alto tas-

2 Il termine “matrifocale” apparve per la prima volta nel 1956 in un saggio dell’antropologo Raymond T. Smith su una comunità afro-americana stabilitasi lungo le coste dell’ex-colonia britannica della Guyana. Smith rimase colpito dalla forte presenza di gruppi domestici composti esclusivamente da una madre, le sue figlie e i bambini di queste ultime, mentre erano quasi completamente assenti mariti o compagni residenti: «In choosing the terme “matrifocal” in preference to such descriptive terms as “matri- central”, “matriarchal”, “female-dominated”, “grandmother family” and so on, I specifi- cally intend to convey that it is women in their role as mothers who come to be the focus of relationship, rather than head of the household as such». R. T. SMITH, The matrifocal family: power, pluralism, and politics, New York, Routlege, 1996, p. 42.

3 La ricercatrice Margalit Cohen-Émérique definisce questo fenomeno come «una reazione di spaesamento, o, ancor più, di frustrazione o di rigetto, di rivolta e di ansietà, o, in senso positivo, una sorpresa, una fascinazione; in una parola, un’esperienza emo- zionale e intellettuale che appare presso coloro i quali, collocati per occasione o per professione al di fuori del proprio contesto socioculturale, si trovano coinvolti in un incontro con l’estraneo». M.COHEN-ÉMERIQUE, “Choc culturel et relations intercultu-

relles dans la pratique des travaileurs sociaux”, in Cahiers de sociologie économique et culturelle et culturelle, Le Havre, 2 dicembre 1984.

so di figli illegittimi, nuclei familiari senza padre e unioni insta- bili) e causa di molti mali diffusi nelle società indigene: delin- quenza, disprezzo del lavoro, mancanza di responsabilità, attac- camento morboso alla madre, infantilismo, “dongiovannismo”, anarchia sessuale, rapporti ambigui con l’autorità.

Se il modello di famiglia nucleare o coniugale, composta da un uomo, sua moglie e i loro figli, è quello più diffuso in Occi- dente, quello che si è radicato nelle colonie centroamericane a partire dalla conquista spagnola del XVI sec., è quindi di altro tipo, non per motivi endogeni, ma in quanto è stato profonda- mente influenzato dallo choc culturale provocato dal coloniali- smo e dal sistema economico della piantagione, la cui richiesta di manodopera ha dato origine alla tratta degli schiavi.

Gli studi del sociologo Frazier4 fanno risalire le motivazioni

storiche di questi squilibri della famiglia afro-americana all’esperienza della schiavitù: alla base della famiglia “matrifo- cale” ci sarebbe dunque la dissoluzione dei rapporti tribali afri- cani e l’allontanamento degli uomini, prima comprati o venduti secondo le leggi della piantagione, e poi, con l’abolizione della schiavitù (1833-1888)5, costretti ad errare in cerca di un lavoro.

Tutto ciò avrebbe portato a un indebolimento dell’autorità pa- terna e alla progressiva scomparsa dei legami coniugali, incre- mentando inoltre la promiscuità, perché dopo l’abolizione della schiavitù era venuto meno l’ordine morale garantito dal rappor- to padrone-schiavo.

All’interno della comunità di schiavi non esisteva la famiglia tradizionale ma una anti-famille, in cui l’uomo veniva impiega- to esclusivamente per il lavoro nei campi e per la riproduzione.

4 F. FRAZIER., The Negro Family in the United States, University Press, Chicago, 1939

5 La tratta degli schiavi sopravvisse anche dopo la solenne condanna del congresso di Vienna (1815). Quindi si giunse ai divieti alla schiavitù nelle colonie britanniche (1833), francesi e olandesi (1848), negli Stati uniti (1863, durante la Guerra Civile Americana), a Cuba e Portorico (1870), mentre gli stati latinoamericani adottavano negli anni cinquanta la politica del "ventre libero", per cui i figli di schiava nascevano liberi; così la schiavitù si esauriva progressivamente. L'ultimo stato ad abolirla ufficial- mente fu il Brasile, nel 1888.

In qualsiasi momento poteva essere venduto e separato dalla donna che gli era stata assegnata dal padrone, e dai figli nati nel frattempo. Infatti, sebbene il Code Noir, l’insieme di norme che regolamentavano la vita della piantagione, promulgato nel 1685, prevedesse il battesimo e l’educazione cattolica degli schiavi, il sacramento del matrimonio veniva accordato loro raramente, in quanto avrebbe ostacolato la vendita di uno dei congiunti. I figli pertanto erano educati esclusivamente dalla madre e dalle altre donne della comunità.

Con la fine della schiavitù, che in Nicaragua viene decretata con l’editto del 1824, ma poi reintrodotta nel 1856 dal presiden- te Walker, le cose non cambiano sostanzialmente: si passa dal lavoro forzato ad uno stipendiato alle dipendenze del padrone. Spesso la terra è povera e non rende per cui l’uomo è costretto ad abbandonare la famiglia e a vagare in cerca di mezzi per sopravvivere.

Anche per la psicologa e antropologa Livia Lésel6, la fami-

glia “matrifocale” sarebbe il risultato di un adattamento messo in atto dai popoli africani trapiantati brutalmente su territori sconosciuti e costretti a rinunciare all’organizzazione familiare vigente nei loro villaggi di provenienza, in nome di un sistema schiavista che mirava a cancellare ogni traccia della loro vita precedente. La famiglia costituiva la cellula di base delle tribù africane da cui provenivano gli schiavi, e la figura paterna era fondamentale nell’educazione dei figli7. Se, all’interno della

piantagione, uomini e donne hanno conosciuto lo stesso sfrut- tamento, queste ultime hanno continuato, come in Africa, ad

6 L.LÉSEL, Le père oblitéré, chronique antillaise d’une illusion, Paris, l’Harmattan, 2003

7 Nelle regioni africane da cui provenivano gli schiavi si osservano due sistema fa- miliari: uno matrilineare che comprende solo i discendenti in linea materna. Il capo famiglia è rappresentato dallo zio materno che diventa il rappresentante della legge agli occhi dei figli ed è responsabile della loro educazione, mentre il padre naturale rimane al di fuori del clan e intesse con i figli solo rapporti di amicizia. Il sistema patrilineare, al contrario, legittima unicamente l’ascendenza paterna. I figli appartengono al padre, mentre la madre continua a fare parte della sua famiglia d’origine. Cfr. L. LÉSEL, Le père oblitéré, chronique antillaise d’une illusion, Paris, l’Harmattan, 2003, p. 14.

occuparsi dei figli e a mantenere con loro relazioni continuate, da cui erano invece esclusi gli uomini. Anche il loro ruolo eco- nomico è differente: durante la schiavitù partecipano alla vendi- ta dei beni prodotti dalla piantagione, mentre con l’emancipazione, che si accompagna alla possibilità di acquisire le terre lavorate, si dedicano al commercio dei prodotti della terra lavorata dagli uomini, favorendo così la nascita di una nuova classe di imprenditrici. Gli uomini, invece, considerati alla stregua di bestie da soma e animali da riproduzione, rara- mente hanno rappresentato agli occhi dei figli un simbolo di autorità o un modello in cui identificarsi.

È dunque il trauma della colonizzazione spagnola, l’imposizione del Cattolicesimo, la “creolizzazione culturale” (amerinda, africana, spagnola, inglese e americana) e la conse- guente perdita dei propri modelli politico-sociali originari (mi riferisco al cacicazgo, cioè al sistema politico clanico e assem- bleare; al nàhuatl, cioè alla lingua perduta per l’imposizione del castellano; al modello di famiglia “matrifocale” e matrilineare, che era alla base della società africana e probabilmente anche amerinda, ecc.) ad aver dato vita alla struttura familiare “matri- focale” e a tutto quello che ne è seguito: la centralità della figu- ra femminile e la marginalità della figura maschile; la famiglia monoparentale estesa e l’altro tasso di figli illegittimi; il don- giovannismo e l’alcolismo8; ecc.

Infatti, mentre l’uomo non esercita le sue funzioni anche quando è presente fisicamente all’interno del nucleo familiare, la donna ha sempre una posizione centrale, sia all’interno della famiglia che della società nicaraguense, sia sul piano strumenta- le che su quello espressivo.

Nelle famiglie a carattere “matrifocale” la posizione precaria assunta dalle figure maschili, ha contribuito pertanto ad accre-

8 «Non è improbabile [secondo Lésel], che il dongiovannismo sia la conseguenza di una ricerca di continue conferme della propria virilità, mentre l’alcolismo diventa il rifugio contro l’angoscia di castrazione, che nasce dall’impossibilità di una corretta elaborazione edipica, dovuta alla mancanza di figure maschili di riferimento». L.LÉSEL, Ibidem.

scere el papel educativo delle figure femminili, per cui i figli normalmente vengono educati dalla madre, da una zia o dalla nonna materna. Quest’ultima in particolare spesso diviene la figura con maggior autorità, arrivando a ricoprire le funzioni materne o a sostituire la figura paterna. Ove manchi la nonna, invece, la funzione paterna è svolta dall’intera collettività fem- minile della famiglia e del barrio. Quest’idea di una paternità collettiva è un antico retaggio africano, come africano è il pro- verbio che recita: “C’è bisogno di un intero villaggio per educa- re un fanciullo”. Quindi, un aspetto importante è ricoperto dalle relazioni di vicinato e di auto-sostegno della comunità femmini- le, che fornisce protezione a tutto il gruppo. Infatti, durante le ore serali, le donne della comunità indigena si riuniscono fuori dal barrio per chiacchierare, svolgere insieme piccoli lavori artigianali o gestire i banchi per le fritangueras.

Anche sul piano strumentale, la struttura famigliare “matri- focale” pone al centro sempre una figura femminile che assume il ruolo della jefa de familia, la quale oltre a svolgere i compiti legati alla “cura” della casa e dei figli, deve assumersi il compi- to di sustentadora principale del hogar, attraverso il piccolo commercio, l’attività artigianale o la coltivazione dell’orto fa- miliare.

Anche quando è presente una figura maschile all’interno del nucleo familiare, la giornata lavorativa della mujer indigena è interminabile e supera le 15 ore al giorno, in quanto per la sua

manera de trabajar y de entender al trabajo non vi è una diffe-

renziazione netta fra il lavoro produttivo, il lavoro riproduttivo e il lavoro comunitario, così come, ad esempio, non vi è distin- zione fra il lavoro che la donna svolge affiancando il suo par- tner nel lavoro nei campi e i lavori domestici, comunemente considerati mansioni “naturali” delle donne.

In molti casi spesso mi è capitato di osservare che le stesse donne considerano il proprio lavoro meno produttivo di quello maschile, anche se l’uomo spesso assume compiti considerati comunemente “maschili, più tecnici e di maggior responsabili- tà” - come ad esempio guidare un taxi o fare l’elettricista - che lo portano ad avere lunghi periodi di inattività. Peraltro la capa-

cità di svolgere “più” mansioni lavorative, contemporaneamen- te, è solo femminile, così come tutta femminile è la capacità di dilatare il lavoro domestico/riproduttivo fino a farne una attività produttiva capace di sostenere il reddito familiare: infatti la maggior parte delle donne sutiava svolgono insieme i compiti domestici legati alla comida de la familia e provvedono econo- micamente alla famiglia con la vendita di tortillas e gallo pinto; o fanno las amas de casa ma partecipano attivamente all’attività familiare.

Dunque, la mujer sutiava pur ricoprendo un ruolo centrale sia nella famiglia che nel contesto sociale, lavorativo ed econo- mico di León, sconta quel gap storico e culturale che pone “ar- bitrariamente” le donne fuori dalla produzione di beni e saperi, perché per una sorta di falso ideologico il reddito femminile prodotto rientra nella categoria dell’ ayuda a la familia y no de

ingreso principal o secundario . Inoltre il reddito prodotto dalle

donne non è stato mai valutato congiuntamente in chiave di produzione (monetizzabile) e di riproduzione (che come sap- piamo non è monetizzabile): educazione dei figli, bienestar della famiglia, “cura” e assistenza dei congiunti, saperi materiali ed immateriali, ecc.

In questo quadro, solo l’adozione di una “nuova” prospettiva di gender mainstreaming9 che consideri el papel de la mujer

indigena y sus conocimientos e come congiunti i fattori produt-

tivi e i fattori riproduttivi, può permettere un salto di qualità a livello concettuale nella politica di genere, “rimpiazzando” le parole chiave finora adottate di “discriminazione e pari oppor- tunità”.

9 Il gender mainstreaming é un principio che si pone come obiettivo quello di porre al centro (=mainstream) dei programmi e delle strategie della politica, dell'amministra- zione e dell'economia la promozione delle pari opportunità tra i generi (=gender).

4.1.3 Nuove coordinate teoriche per lo sviluppo umano