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La prima persona singolare e plurale

Capitolo 3. La lingua e lo stile

3.3 Discorso del racconto

3.3.1 La narrazione

3.3.1.2 La prima persona singolare e plurale

Se l’utilizzo della terza persona è sintomo di un’impostazione più tradizionale, la narrazione in prima persona – narrazione dove, quindi, emerge la singolarità e l’individualità – è un tratto decisamente più moderno.

In Gli alianti (1941), è presente il caso più semplice, ovvero la narratrice è la protagonista del racconto: è lei che vive determinate situazioni e le riporta tali. Lo stile adottato è molto colloquiale e confidenziale; Alice, nel riferire la sua storia, è come se intrattenesse una conversazione con il lettore o con sé stessa a cui pone domande, chiede spiegazione e cerca di interpretare ciò che ha vissuto. Leggiamo di seguito l’incipit:

Alla stazione non trovai nessuno che mi aspettasse, nemmeno il vecchio Leonida, eppure avevo telegrafato l’ora del mio arrivo. Non era strano? Forse il telegramma non era ancora pervenuto, o forse non avevano potuto mandare qualcuno ad attendermi, perché in casa c’è sempre tanto da fare, ci sono sempre tante faccende da sbrigare, e anche il vecchio cocchiere Leonida spesso si trova occupato. Ecco, doveva essere questo soltanto il motivo per cui non trovai nessuno sul marciapiede, e cercavo di persuadermi della inutilità di cominciare a turbarmi così subito al mio arrivo e scorgere in una circostanza del tutto irrilevante Dio sa quali retroscena o presentimenti. La stazione era quasi deserta: oltre me discesero un commesso viaggiatore (non si era voltato a guardarmi?), alcune donne, due cacciatori con i carnieri vuoti a tracolla che sbattevano nei passi decisi come cartelle. Ma anche questo ricordo di scuola che i due

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uomini ignari avevano risvegliato in me per un attimo mi rese perplessa, quasi angosciata, e involontariamente ripensai ancora una volta che nessuno era lì ad aspettarmi, nemmeno il vecchio Leonida con la carrozza che altre volte avrei trovato fuori, sul piazzale alberato, ed era già come un primo saluto da casa.373

La sua lingua, colma di ripetizioni e riprese, riflette il suo stato agitato e tormentato; in maniera quasi ossessionata, lei torna su alcuni elementi della storia cercando di fornirne una spiegazione: tra cui, la mancata venuta alla stazione del vecchio Leonida, il frenetico affaccendarsi in casa sua, o il mancato interesse dei suoi familiari circa i suoi studi. L’acme lo si raggiunge alla fine, quando ormai seduta in treno sulla strada del ritorno in città, si abbandona ad un monologo interiore, ad un concitato flusso di coscienza col quale si scaglia contro la famiglia e svela la verità che l’ha attanagliata fino a quel momento. È una confessione interna, silenziosa ma liberatoria e soddisfacente; i pensieri della protagonista vengono conosciuti dal lettore in maniera diretta: non si tratta di riportare, da parte della narratrice, i propri pensieri, ma si tratta della mera trascrizione del flusso dei suoi pensieri, con una lingua colloquiale, ed uno stile agitato e convulso.

Un tipo diverso di narratore in prima persona è quello che troviamo in L’arcolaio (1946). Qui, lo scrittore Alberto, a distanza di anni, racconta la vicenda che ha vissuto lui stesso da ragazzo. È come se ci fosse lo sdoppiamento di uno stesso narratore: da un lato, si legge la voce di Alberto adulto e maturo che esprime i propri dubbi e le difficoltà a cui deve far fronte nel tentativo di far vivere sulla pagina un delicato episodio della sua lontana giovinezza; per lui si tratta di un lavoro di recupero del passato, filtrato da una consapevolezza inedita che lo porta a commentare e a spiegare ciò che in passato appariva privo di senso. Dall’altro, si legge la voce del giovane Alberto, di cui si cercano di recuperare intenzioni e pensieri inerenti alla precisa epoca narrata; si cerca di ripristinare un carattere vivo solo nel passato e nella memoria.

Soffermiamoci, ora, su Ludovico (1978): qui il narratore in prima persona è colui che ha assistito all’episodio che riporta. La sua è la voce di chi non vuole tralasciare nessun dettaglio e nessun aspetto pur trattandosi di una storia destinata a rimanere misteriosa e priva di una spiegazione. La sua indole inquisitoria, il suo tentativo di essere più esaustivo, chiaro e

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completo possibile è sancito dal massiccio uso delle parentetiche le quali vengono utilizzate come luoghi franchi in cui spiegare ed esplicitare alcuni particolari, in cui fornire le giuste informazioni al lettore al fine di non lasciare niente taciuto, nonché in cui condividere i propri dubbi o riportare le domande che all’epoca lui stesso si era posto e a cui ancora adesso non riesce a dare risposta. Le parentetiche – alternate, talvolta, dagli incisi – oscillano nella lunghezza, da frasi minime a periodi molto lunghi. Leggiamo anche esempi di parentetiche brevi:

[…] e soprattutto quest’immagine o sensazione d’arsura più che il presentimento della pioggia (ma guizzavano lontano già lampi silenziosi) dava il senso della stagione estiva che declina […]374

[…] e appena vide entrare il nostro gruppo riprese a singhiozzare (perché adesso non avevo più dubbi che singhiozzasse proprio): «Ludovico! Ludovico! Ludovico!»375

La biblioteca era andata distrutta in un incendio: un lume a petrolio acceso a sera, in una sera (anche quella!) di maltempo […]376

A cui fanno da controcanto parentetiche ben più distese:

I proprietari infatti volevano disfarsi della collezione per ragioni moralistiche (pare che solo dopo la morte del figlio, entrati un giorno a curiosare fra i volumi con meticolosità ordinati in varie sale al primo piano della villa, ne avessero scoperto il contenuto restandone scandalizzati, a non dire traumatizzati): ma non era lontano dal vero[…]377

N’ebbi la conferma all’arrivo, allorché dopo le presentazioni e i soliti convenevoli iniziali sedemmo a bere qualcosa (prima di fermarsi davanti all’edificio, varcato il cancello d’ingresso l’automobile aveva attraversato un breve viale a mala pena illuminato ma avevo potuto scorgere ugualmente, o piuttosto immaginare, un intrico di cespugli e alberi folti di rami e foglie che stormivano frusciando con una sonorità quasi sinistra e

374 Ivi, 201. 375 Ivi, 205. 376 Ivi, 207. 377 Ivi, 202.

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per un attimo s’era risvegliata in me la delusione di non essere venuto con la luce del giorno).378

È presente un unicum di racconto in prima persona plurale, ovvero La signorina (1977) Anche qui, come ormai è chiaro esser solito nella narrativa prischiana, viene riportato un evento accaduto nel passato, ovvero la triste vicenda di Virginia Rienzi, condannata a vedere morire ogni suo neonato. In particolare, il racconto è incentrato sulla macabra pratica di far sembrare vive queste piccole creature per poi scattar loro una fotografia per serbarne un ricordo. Il narratore, che ovviamente può essere solo uno, rievoca questa orrenda abitudine a cui lui ha assistito da piccolo insieme ad altri bambini. L’utilizzo del plurale, qui, conferisce un tono popolare e quasi folcloristico alla storia, come se non facesse più parte dell’esperienza individuale di un singolo, ma fosse diventata una storia di tutti, un racconto di paese ormai diventato tradizione per il suo carattere misterioso ed insolito.

Il discorso, quindi, oscilla dall’impersonalità e dalla prima persona plurale, alla prima persona singolare, specie quando si toccano ricordi e percezioni più soggettive. Ad una voce plurale o impersonale come quella che leggiamo nei seguenti estratti:

Dev’esserci stato ben un motivo perché Virginia Rienzi fosse chiamata sempre, da noi altri, la signorina, pur essendo sposata ormai da molti anni.379

Al contrario, si seppe di lì a poco che le nozze finalmente concludevano un fidanzamento lungo e contrastato proprio da parte della famiglia della signorina […]380

Fummo invitati anche noi ragazzi alla cerimonia.381

Noi guardavamo affascinati, stupiti che lo spillo non avesse lasciato zampillare il sangue […]382 378 Ibidem. 379 Ivi, 209. 380 Ibidem. 381 Ivi, 210. 382 Ivi, 211.

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Con un brivido quasi di paura ci domandammo se quella strana creatura fosse davvero un uomo, il fotografo, o non, addirittura, il diavolo in persona se, come si crede e si dice, a volte il diavolo erutta a intermittenza fiamme che sentono di zolfo.383

La signorina poi ci regalò una copia della fotografia del suo bambino[…]384

Fummo invitati a queste nozze.385

segue una singolare e soggettiva, come se fosse una voce del coro che si stacca:

Nella stanza ristagnava un forte odore di tuberose, mi ricordo.386

O voleva forse che, almeno il quel momento, la casa fosse piena di bambini per soffrine di più? Me lo sono domandato spesso, e non ho saputo mai rispondermi e risolvere l’interrogativo, o il dubbio.387

Ma non ricordo se col secondo o con il quarto bambino l’operazione rischiò di non riuscire perfettamente: […]388

Si conclude con una forma mista in chiusura:

E non si capiva, non ho mai capito, se quella singolare acconciatura fosse, a suo modo, un segno di civetteria oppure la testimonianza d’una sorda remota sofferenza che s’era apposta rifugiata in una voluta sciatteria per sottrarsi al compatimento.389

Concludiamo questa sezione con il caso di narrazione mista che si riscontra in Evangelina (1943). Qui il narratore principale è un uomo – si tratta, quindi, di un racconto in terza persona singolare – che vuole condividere la storia che, a sua volta, gli è stata riferita dall’oste di una locanda che era solito frequentare. La narrazione, poi, oscilla tra diversi narratori: ora

383 Ibidem. 384 Ibidem. 385 Ivi, 213. 386 Ivi, 210. 387 Ivi, 212. 388 Ibidem. 389 Ivi, 213.

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è l’uomo che riporta la conversazione avuta con l’oste; ora è una narrazione impersonale, in terza persona anonima che semplicemente riporta la storia che i due hanno fatto riemergere; ora è lo stesso oste, Parsifal, che ha assistito direttamente all’episodio, e la cui voce viene riportata senza la mediazione del narratore in terza persona; ora la narratrice è la stessa Evangelina, protagonista della vicenda. In conclusione, è un racconto che mostra delle complicazioni a livello narratologico, ognuna delle voci narranti è funzionale a sottolineare un punto di vista diverso o a percorrere una particolare finalità: che sia l’evidenziare l’innesto dell’ingranaggio della riemersione del ricordo passato, che sia il mettere in luce la prospettiva di Parsifal che ha assistito a quell’episodio, o la prospettiva dell’uomo che partecipa commosso alla storia che sente, o, infine quella di scoprire i segreti e i pensieri che si celano dietro la fragile protagonista. È interessante osservare che questi piani narrativi non si sovrappongono mai, ma vengono giustapposti e fatti combaciare perfettamente al fine di restituire un quadro completo, vario e lineare.