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“…ognuno di noi sceglie, letteralmente, attraverso le sue modalità di partecipazione alle cose, quale tipo di universo gli apparirà davanti e, quindi, quale tipo di universo abitare”

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Tesi di dottorato in Scienze Ambientali - Università Ca’ Foscari Venezia - “I territori e gli ambienti di montagna: dalla marginalità alla sostenibilità integrata. Strumenti di valutazione e di valorizzazione dei paesaggi montani”

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NOTA INTRODUTTIVA

L’analisi svolta rispetto allo spazio alpino ha portato a riflettere sulla centralità posseduta dal tipo di rapporto che la specie umana istaura con la Natura nell’indirizzarne le trasformazioni, evidenziando così come la gestione antropica di un territorio rispecchi la scelta di una “certa visione”.

Se obiettivo del lavoro di ricerca è di orientarsi verso possibili strumenti di valutazione e valorizzazione per i territori montani e se essi sono inevitabilmente strumenti “antropici”, la ricerca non poteva che indirizzarsi verso un approfondimento su quali siano gli elementi che determinano la valutazione e la scelta degli elementi da valorizzare. Si ritiene infatti che tale analisi sia il presupposto necessario per poter re-inquadrare i “problemi” che sono emersi nello studio del processo di snaturazione dei paesaggi ecoculturali alpini e, a partire da tale re-inquadramento, poter elaborare delle strategie propositive.

Spunto iniziale per questa riflessione è la Convenzione Europea del Paesaggio (Consiglio d’Europa, 2000), che può essere letta proprio in questi termini. Essa, infatti, pone al centro dell’attenzione la percezione che le popolazioni e - si potrebbe affermare “la specie umana” - hanno del proprio territorio di vita, identificato come “paesaggio”. È la percezione, infatti, che orienta e definisce la visione che la popolazione ha di ciò che la circonda. Poiché i connotati del soggetto percipiente entrano in modo preponderante all’interno dello stesso processo di percezione e diventano parte integrante dell’oggetto percepito (Ittelson, 1976), si può affermare che « la percezione non è coincidenza con le cose, bensì interpretazione » (Le Breton, 2006 [2007], p. XII). Secondo Morin (1990 [1993], p. 96), infatti, « non c’è oggetto se non in relazione ad un soggetto che osserva, isola, definisce, pensa e non c’è soggetto se non in relazione a un ambiente circostante oggettivo, che gli consente di riconoscersi, definirsi, pensarsi ed esistere ». Questo legame è insito nello stesso concetto di paesaggio, che da Turri (1974 [2008], p. 137) viene inteso come « un insieme organico di forme-immagini interpretabili […] è un insieme di segni […] che richiamano a funzioni, funzioni che definiamo in rapporto alla nostra esperienza naturale e culturale del mondo ».

Valutazione e valorizzazione di un paesaggio, atti che rientrano nei processi di pianificazione e gestione, derivano quindi da un’interpretazione del “reale” e dalla costruzione di una “realtà” e per definirle è dunque indispensabile comprendere prima di tutto quale sia la natura della percezione e quali siano i dispositivi cognitivi che la alimentano.

La gestione di un territorio dipende dunque dalla percezione che si ha di quel territorio; la gestione poi retroattivamente avrà delle conseguenze sulla stessa percezione, così come avviene per l’individuo nella definizione dei propri comportamenti. Questo rapporto è ben ravvisabile se si

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152 analizza il percorso seguito dai concetti di preservation e di heritage, che ha interessato sia gli elementi naturali, a partire dallo Yosemite Act del 1864, che gli elementi antropici, a partire dalla Carta di Atene del 19311. È lungo questo percorso che è possibile ritrovare le tracce del mutamento

della “percezione culturale” degli elementi naturali e antropici e della loro conseguente gestione. Anche la recente tendenza da parte di diverse Amministrazioni cittadine italiane ed europee di elaborare delle strategie di costruzione della propria immagine (con spesso investimenti cospicui) può essere letta proprio come una presa di coscienza di questo legame. Le operazioni di “marketing

territoriale”, non rivolte solo a creare una mera operazione commerciale - che non dovrebbe essere lo scopo principale di un’istituzione di governo pubblico - richiedono infatti il coinvolgimento diretto della popolazione e un lungo lavoro di ri-costruzione della percezione che essa ha del proprio paesaggio di vita. Solo questo processo può essere poi il punto di partenza per la valorizzazione del territorio, anche in un’ottica turistica. Se questo non avviene saranno le immagini turistiche, che si alimentano di miti, stereotipi e simulacri, ad orientare e definire il modello di gestione dello spazio cittadino e non, comportando l’insorgere di tensioni al suo interno (Trademark

Italia, 2001). Esempi del forte legame tra immagini turistiche e gestione territoriale e paesaggistica sono rappresentati dai casi analizzati del Yosemite Valley National Park e del Trentino.

Come dimostrano i meccanismi di invenzione della wilderness e delle Alpi analizzati nella prima e seconda parte del presente lavoro, la gestione territoriale e paesaggistica ha un legame particolarmente profondo all’interno dei territori alpini e dei territori “marginali” rispetto al modello megapolitano in generale. Nel processo di re-inquadramento deve rientrare quindi necessariamente non solo la percezione della popolazione residente come chiede la Convenzione Europea del Paesaggio, ma si devono considerare anche gli inputs derivanti dalla percezione delle popolazioni

extra-alpine. Esse, infatti, solitamente giungono sul territorio alpino in qualità di turisti e svolgono storicamente un ruolo decisivo nell’orientare le sue politiche. Il considerare tale percezione non significa “assecondarla” e renderla sovra-ordinata rispetto a quella dei residenti, ma significa operare in primis per conoscere tale percezione e istaurare un dialogo proattivo ed “educativo” tra questa e quella della popolazione residente. Questo richiede il superamento della dicotomia tra residente e turista, che passa attraverso il riconoscimento del turista come “residente temporaneo” e del residente come “turista quotidiano”. Si ritiene che tale passaggio sia realizzabile mediante la costruzione di una nuova percezione comune ad entrambi i soggetti, considerata come un vero e proprio processo culturale.

1 La Carta di Atene, sottoscritta nel 1931, è la prima carta internazionale dedicata alla conservazione del patrimonio artistico e archeologico. A partire da essa si sono sviluppate discussioni e riflessioni relative al restauro e in generale alla conservazione degli elementi antropici. Si ricordi il seguito la Carta di Venezia nel 1964, che costituì la base per l’istituzione nel 1965 dell’ICOMOS - International Council on Monuments and Sites.

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153 Il modello gestionale di un territorio dipende dunque anche da tale processo culturale: si basa su una specifica visione della “realtà” e rappresenta sempre una scelta. La dimostrazione di questa affermazione si ritrova all’interno del dispositivo di invenzione della wilderness e delle Alpi e delle filosofie che hanno guidato le politiche delle Aree protette a partire dalla loro nascita negli Stati Uniti d’America: dal conservazionismo al preservazionismo. Semplificando nel conservazionismo, la Natura viene “messa da parte” per poter essere utilizzata e viene previsto l’intervento antropico per poterne governare le dinamiche, secondo una visione deterministica dei processi naturali. Nel preservazionismo, invece, alla Natura viene assegnato un valore in sé e l’intervento antropico su essa è esclusa per la sua incapacità di comprenderne le dinamiche, che vengono concepite come dominate dal caso. In entrambi i casi la specie umana viene vista come un elemento esterno alla dimensione naturale che porta ad affermare la dicotomia “artificiale vs naturale”.

Rispetto alla visione sottesa a questi due modelli gestionali, per i territori e ambienti alpini si propone, invece, il concetto di “paesaggio ecoculturale” che può essere inteso come una “visione”: la visione appunto proposta per valorizzare i territori montani. L’ultimo capitolo di questa parte si concentra su come si sia evoluto a livello internazionale il concetto di paesaggio culturale sancito dall’UNESCO - dal quale sono cominciate le riflessioni per la definizione del paesaggio bioculturale (De Bernardi et al., 2007) ed ecoculturale poi.

Il modello gestionale a cui fa riferimento tale “visione” è mutuato dalla pianificazione ecosistemica (McHarg, 1969 [1989]; Steiner, 1991 [1994]), che cerca di affermare un approccio sistemico (Bateson, 1972 [2000]) assumendo come riferimento la complessità e le leggi del caos deterministico (Gleick, 1987 [2000]). Tale modello è, dunque, orientato alla preservazione della “possibilità evolutiva”, cioè alla preservazione dei processi ecologici, che presuppone la chiusura dei cicli biogeochimici e il rispetto della resilienza e resistenza degli ecosistemi.

La visione del paesaggio ecoculturale può essere, quindi, inteso come base per una visione “co-evolutiva”, volta a considerare la preservation come « pre-servation » (Lowenthal, 1989, p. 77)

all’interno di quell’ “olismo ecologico” anelato da Giacomini2 (1982 [1986]; 1983). Il caso de “Le

Parc national des Cévennes e le Parc naturel régional des Grands Causses” viene presentato proprio in quest’ottica, in quanto indirizzato verso l’affermazione di un nuovo modello gestionale che potremmo chiamare “ecoculturale”.

2 « È tempo dunque che gli urbanisti, i pianificatori, i socio-economisti ricongiungano i problemi umani ai problemi della natura; ed è anche tempo che i naturalisti e i protezionisti cessino di dare esclusiva o prevalente importanza ai problemi naturalistici » (Giacomini, 1983, p. 192).

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CAPITOLO 8