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La violenza della guerra e i suoi eccessi.

Elementi di comparazione

4.1 La violenza della guerra e i suoi eccessi.

Tutta la storia dell’umanità è stata contrassegnata dalla violenza. Fin dall’epoca preistorica essa ha rappresentato lo strumento principale di cui l’uomo si è servito a garanzia della sua sopravvivenza, per acquisire potere e ricchezze, per eliminare avversari e concorrenti, per conquistare una posizione socialmente più elevata rispetto ai suoi simili.

La violenza si è dispiegata da individuo a individuo, da comunità a comunità - tribù, regni, imperi, città, nazioni - ed è stata esercitata per opprimere/sopprimere singoli o moltitudini anche interni ad uno stesso gruppo sociale, spesso con maggior ferocia.

La filosofia si è interessata alla violenza fin dai suoi albori: da Socrate, Platone e Aristotele nell’antica Grecia a Hanna Arendt e Karl Popper nel XX secolo. In tempi più recenti, ma con non minore entusiasmo, se ne è occupata la sociologia, nel tentativo di individuarne origini, cause e diffusione.

Un mirabile esempio di studio sull’aggressività umana lo si deve al sociologo tedesco Wolfgang Sofsky. Egli, alla stregua dei giusnaturalisti, individua le origini della violenza nello stato di natura nel quale l’uomo viveva in completa libertà, soprattutto la libertà di agire. In questo contesto la libera azione dell’uno si scontrava con la libera azione di un altro essere umano, in un vortice di brutalità senza limiti e senza fine. Per Sofsky

Senza dubbio l’agire è un atto di libertà. Nell’agire l’essere umano pone nuove condizioni per sé e per gli altri. Tuttavia la libertà di un individuo minaccia quella degli altri. Se tutti gli uomini fossero liberi di fare ciò che vogliono, la loro vita sarebbe breve. Nulla impedirebbe l’arbitrio e la violenza: di fronte all’imprevedibile regna soprattutto la paura dell’abuso, dell’aggressione. […] Facendo qualcosa si fa qualcosa ad un altro. Lo si incalza, lo si assale, lo si ferisce: ogni atto è un atto di violenza.149

149

102 L’uomo decise quindi di proteggere la propria incolumità mediante l’associazione con altri esseri umani, così che la forza del numero sostituisse la debolezza del singolo. A sua volta il gruppo delegò il governo e la salvaguardia della comunità a un suo rappresentante, un «guardiano della sicurezza» - che il filosofo inglese Thomas Hobbes nel suo Leviathan intese identificare nel sovrano - come unico soggetto autorizzato all’uso della violenza in difesa della popolazione che l’aveva prescelto.

Un simile sistema sociale, tuttavia, necessita di un ordine imperturbabile, libero da insubordinazioni e ribellioni, che i deputati alla sicurezza garantiscono utilizzando un altro tipo di violenza, rivolta adesso verso l’interno della comunità e mirata al mantenimento del potere e alla repressione del caos. A questo proposito citerei ancora un passo di Sofsky.

L’oppressione è nell’essenza di ogni ordinamento. Per il singolo non costituisce una differenza rilevante il fatto di sapere da dove provenga la violenza che lo opprime. Dalla stipula del contratto statale, il racconto passa direttamente al dispotismo della legge, senza deviazioni, senza diramazioni in percorsi secondari, senza via di ritorno.150

Così il singolo che cercava protezione da una violenza indiscriminata, casuale ma incerta nei tempi, nei modi e nella misura, ora vive assoggettato a un potere che, invece di garantire pace e prosperità, paventa una violenza indubitabile, onnipresente ed energica. Infatti

Ogni potere si basa in fondo sull’arbitrio e sulla paura della morte. Regimi assoluti e totalitari non sono forme degenerate: mettono in pratica, in forma estrema, solo ciò che è comunque alla radice del principio del potere. Anche la legge, che i rappresentanti promulgano per il benessere di tutti, si basa in fondo su un atto di arbitrio, un atto del porre. E la legge ottiene validità solo se viene fatta rispettare, se necessario con la violenza.151

Sulla tensione alla violenza è intervenuto anche Sigmund Freud, concludendo che

quando gli uomini vengono incitati alla guerra è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari. […] Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte.152

150 Sofsky, Saggio sulla violenza, cit., pp. 8-9. 151

Ivi.

103 Per Freud gli stimoli ideologici utilizzati per spingere gli uomini a combattersi non sono nient’altro che una copertura alla frenesia di distruzione, una «pulsione di morte» che il padre della psicanalisi ritiene appartenga a ogni essere vivente.

Entrando nel vivo del dibattito intorno alla violenza scatenata dalle truppe dell’Asse nel corso della Seconda guerra mondiale, inizierei dalla ricerca di Gentile trattata già nel primo capitolo. Egli suddivide in due tipologie la violenza praticata dall’esercito nazista e dalle milizie fasciste sulle popolazioni civili e sulle formazioni partigiane: una

microviolenza, esercitata da singoli individui o piccoli gruppi di tedeschi e fascisti, e

caratterizzata da rapine, stupri, saccheggi e ferimenti in conseguenza di un allentamento della disciplina, e una macroviolenza messa in pratica da tutte le forze di occupazione, Wehrmacht, Waffen-SS, forze di polizia - senza dimenticare il supporto delle milizie repubblichine - seguendo regole considerate legittime, una liceità compresa non solo dagli autori ma spesso anche dalle stesse vittime, soprattutto durante le operazioni di rappresaglia.

A motivare i soldati nell’attuazione dei massacri contribuirono molteplici elementi: la psicosi dei francs-tireurs che fu già alla base delle violenze arrecate ai civili in Belgio durante l’aggressione tedesca del 1914153

; il desiderio di vendetta e di rivalsa, stimoli di ordine politico, razziale e sociale, le comuni convinzioni ideologiche, le attese del proprio ambiente di riferimento, nonchè

la dipendenza dal gruppo, la pressione sociale esercitata dai commilitoni, il conformismo di gruppo e un senso dell’ingiustizia e della sopraffazione scarsamente pronunciato fra i soldati. In molti casi il concorso di tutti questi fattori contribuì a indebolire, relativizzare o addirittura estinguere il carattere di tabù della violenza perpetrata ai danni della popolazione civile coinvolta nella repressione antipartigiana.154

Enzo Traverso aggiunge alle motivazioni anche la propaganda militare, già sperimentata durante la Grande guerra, finalizzata a creare nei soldati dei processi di disumanizzazione del nemico il quale «prendeva immancabilmente i tratti di una “razza” ostile, sempre qualificata come “barbara”»155

.

Tuttavia, salvo qualche caso sporadico, l’esercizio della violenza provenne da ordini ben precisi degli ufficiali che, a loro volta, rispondevano alle disposizioni dei comandi. Da

153 Cfr.John Horne e Alan Kramer, Deutsche Kriegsgreuel 1914. Die umstrittene Wahreit, Hamburg 2004,

citato in Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, Einaudi, Torino 2015.

154

Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, cit., p. 26.

104 parte degli ufficiali vi furono interpretazioni tendenti all’eccesso così come alla moderazione, ma l’immagine del soldato o dell’ufficiale che autonomamente decide di massacrare gli abitanti di interi villaggi non può essere che errata, tanto più nell’esercito germanico dove un’azione in contrasto con gli ordini ricevuti e dettata solo dall’impulsività non sarebbe stata di certo tollerata.

Come sostiene Browning,

coloro che eseguono le direttive impartite dall’alto sono in uno stato mentale diverso: non sono spinti né dall’esaltazione, né dall’esasperazione e neppure dalla frustrazione, ma solo dal calcolo. […] Il contesto bellico va tenuto in conto anche in senso più generale, oltre che come causa di abbrutimento e di esaltazione. La guerra, cioè la lotta fra i «nostri» e «il nemico», crea un mondo polarizzato in cui la parte avversa è facilmente oggettivata e avulsa dalla comunità degli obblighi umani. Il conflitto bellico è l’ambiente più fecondo in cui i governi possono adottare una «strategia di atrocità» e metterla facilmente in atto.156

Fatte le dovute eccezioni, e i componenti della «Hermann Göring» sicuramente lo furono, i reparti che eseguirono le stragi erano composti da uomini comuni che prima della guerra conducevano una vita «normale», svolgendo i lavori più disparati ma non certamente quello del boia. Quindi la domanda è: «come è possibile che una volta indossata una divisa essi si siano trasformati in carnefici di uomini inermi, donne e bambini?».

Il sociologo John Steiner, al termine di uno studio su un gruppo di volontari delle SS, conclude che in determinate condizioni, e la guerra è una di queste, vengono allo scoperto caratteristiche della personalità inclini alla violenza che normalmente restano celate. Come sostiene Franco Fornari, la guerra è «un processo paranoideo per eccellenza, poiché si crede che solo uccidendo il nemico si potrà sopravvivere»157. Lo psicologo Ervin Staub concorda con Steiner ma puntualizza che lo stato latente della violenza in assenza delle condizioni scatenanti è un elemento comune della psiche umana e non una caratteristica solo di alcuni.

Per Zygmunt Bauman, il famoso sociologo di origine polacca, è la società in cui è inserito l’individuo invece a determinarne il grado di crudeltà, e il vero dormiente è colui che è capace di resistere alle pressioni sociali e a respingere le pulsioni violente che, in un

156 Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Europa, Einaudi, Torino

1995, pp. 167-168.

157

Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra atomica, Edizioni di Comunità, Milano 1964, pp. 16 e 30, citato in Sémelin, Purificare e distruggere, cit., p. 16.

105 determinato contesto, rappresentano la «normalità». Al momento giusto sarà la facoltà di mantenere una propria autonomia comportamentale a risvegliarsi158.

Jacques Sémelin condivide le tesi degli studiosi sopra citati. Per lui «è nell’azione e per l’azione che si formano gli esecutori dei massacri»159

. Il fatto che uomini comuni riescano a trasformarsi in assassini trova la sua giustificazione nel contesto della «guerra totale» dove l’ideologia ha riscontro nella presenza reale del nemico che, anche se disarmato, è pericoloso e deve essere annientato.

La più comune delle giustificazioni con cui gli imputati dei processi per crimini di guerra hanno da sempre impostato la propria linea difensiva è l’impossibilità di contravvenire all’ordine di uccidere. Secondo l’opinione dei militari tedeschi questo era ancor più vero a causa della natura dispotica della dittatura nazionalsocialista, la cui politica autoritaria non avrebbe tollerato alcuna manifestazione di dissenso. In un tale contesto l’individuo non aveva altra scelta che dimostrare obbedienza perchè un rifiuto avrebbe comportato punizioni terribili. Inoltre il fatto che l’ordine provenisse dall’autorità dello Stato, attribuiva al comando anche più disumano i requisiti di giustezza e necessità. La conseguenza naturale di simili argomentazioni non può che essere la deresponsabilizzazione dell’individuo e l’attribuzione delle colpe alle linee di comando.

Queste interpretazioni, tuttavia, contrastano con una serie di verifiche «sul campo». Christopher R. Browning nella sua disamina dei comportamenti del Battaglione 101 coinvolto nello sterminio degli ebrei in Polonia ha rilevato che non pochi soldati in alcune occasioni chiesero di essere esonerati dall’eseguire i massacri e, malgrado ciò, non subirono alcuna punizione, e neppure il biasimo dei compagni.

Chi non voleva uccidere non era costretto a farlo, neppure nelle azioni più importanti e neppure di fronte alle insistenze degli ufficiali. […] Nessuno però poteva sottrarsi al cordone o ai rastrellamenti nei ghetti; ma anche in tali circostanze gli uomini avevano una certa libertà di scelta riguardo alle esecuzioni.160

158 Cfr. John M. Steiner, The SS Yesterday and Today: A Sociopsychological View, in Joel E. Dimsdale,

Survivors, Victims, and Perpetrators: Essays on the Nazi Holocaust. Washington 1980, pp. 431-434, 443; Ervin Straub, The Roots of Evil: The Origins of Genocide and Other Group Violence, Cambridge 1989, pp. 18, 128-41, Zygmunt Bauman, Modernity of the Holocaust, Ithaca 1989, pp. 166-168; citati in Browning, Uomini comuni, cit., pp. 173-174.

159

Sémelin, Purificare e distruggere, cit., p. 301.

106 Inoltre l’autore statunitense puntualizza che dalle testimonianze e dai documenti presentati nei dibattimenti processuali non è mai emerso che le sanzioni comminate ai disubbidienti siano state severe o quantomeno commisurate alla gravità dell’atto che il trasgressore si era rifiutato di eseguire. Di conseguenza chi ha voluto ha ucciso, e chi ebbe qualche riserva fu pressoché libero di esprimerla. Tuttavia Browning, malgrado sostenga che la responsabilità è una questione individuale, riconosce che «all’interno di ogni collettività sociale, il gruppo di riferimento esercita pressioni spaventose sul comportamento e stabilisce le norme morali»161.

A supporto della tesi di Browning, Sémelin introduce il principio dello «slittamento verso il massacro» da parte degli esecutori, i quali spesso non sono che uomini comuni. Secondo il processo descritto dallo studioso francese

All’interno del gruppo, l’individuo è infatti sottoposto a una doppia pressione che lo precipita verso l’atto di uccidere. La prima è esercitata da coloro che sono investiti dell’autorità, la seconda proviene dagli stessi «pari», vale a dire da coloro che si trovano, come lui, nella condizione di esecutori della strage. […] In tal modo, l’individuo si trova inserito in permanenza in un dispositivo che lo squilibra, dato che il suo comportamento è definito non tanto da se stesso quanto dai suoi capi, mentre parallelamente si ricalca in maniera speculare su quello dei suoi compagni di strage.162

Una tesi questa contraddetta da Daniel Jonah Goldhagen che ritiene insufficiente la spiegazione della «pressione dei pari» per giustificare l’esecuzione dei massacri da parte delle truppe naziste. Al contrario, egli mette in risalto le molte prove che dimostrano l’entusiasmo e la spontaneità con cui i soldati tedeschi spesso eseguirono le uccisioni e sottoposero le vittime a torture e sevizie163. Goldhagen giunge perfino a confutare le tesi proposte da Hannah Arendt circa la «banalità del male». La filosofa di origine tedesca, nella sua analisi del processo contro Adolf Eichmann giunse alla conclusione che in un mondo dominato dalla burocrazia, a prescindere dai compiti assegnati - che siano lo svolgimento di una funzione amministrativa oppure l’organizzazione dei trasporti degli ebrei ad Auschwitz - la tendenza è quella di eseguire il proprio incarico nel miglior modo possibile senza riflettere in merito alla sua eticità. Secondo la Arendt, al processo di Gerusalemme Eichmann si dimostrò un ingranaggio senza idee della macchina sterminatrice hitleriana, e

161 Browning, Uomini comuni, cit., p. 198. 162

Sémelin, Purificare e distruggere,cit., p. 314-315.

107 «tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»164. Goldhagen non concorda con questa interpretazione. Per lui Eichmann non era un uomo senza coscienza e senza convinzioni; in realtà il funzionario nazista fu un profondo antisemita che rivendicò in più occasioni la bravura con cui attendeva ai propri compiti e i milioni di ebrei che aveva contribuito ad uccidere, dimostrando una natura opposta a quella del semplice burocrate.

Goldhagen riassume così la natura dei massacratori:

Coloro che perpetrano stragi di massa, specie negli attacchi, non sono burocrati. Non lavorano in burocrazie. Il compito che si assumono non è parcellizzato, suddiviso fra tante persone. Il reale carattere delle azioni che compiono non è affatto oscuro ai loro occhi. Coloro che perpetrano stragi di massa sanno esattamente quello che fanno. Massacrano persone, massacrano bambini, spesso faccia a faccia, sparando loro a bruciapelo, facendole a pezzi o picchiandole fino alla morte, vedendosi schizzare addosso sangue, ossa e materiale cerebrale delle vittime.165

La tesi della Arendt è confutata anche da Sémelin, tuttavia seguendo strade diverse dalle convinzioni ideologiche. Per l’autore francese la generalizzazione della «banalità del male» è pericolosa oltre che infondata. Per la Arendt tutti gli individui sono soggetti ad quell’assenza di pensiero che potrebbe farci commettere atti indicibili una volta inseriti nella routine di una burocrazia. Tuttavia, risponde Sémelin, questa affermazione non tiene conto dell’importanza del gruppo in cui l’individuo è inserito, argomento centrale del pensiero sémeliano, né dei processi attraverso i quali l’individuo riesce a passare all’azione violenta.

Un altro aspetto della violenza di massa operata dagli eserciti, e in particolare da quello tedesco che interessa la nostra disamina, è lo zelo e l’energia che i massacratori impiegano nell’eseguire i massacri. Essi prima di uccidere scherniscono le loro vittime, professano loro la giustezza delle azioni che stanno per compiere, e dopo la strage fanno festa. A questo proposito sono significative le testimonianze dei sopravvissuti, come quella resa ai carabinieri da Giulia Poggi Banchieri il 23 ottobre 1944 in relazione alla strage del Padule di Fucecchio:

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Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013, p. 290.

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Il giorno dopo l’eccidio cioè il 24 agosto 1944 quando ancora il castello era gremito dei superstiti delle povere famiglie, e i cadaveri non erano ancora sepolti, questo comando organizzò una gran festa e la musica militare suonò girando intorno alla casa fino oltre le due di notte.166

Ma anche prima e durante l’esecuzione del massacro i nazisti fecero musica con la fisarmonica, come dichiararono altre testimoni fucecchiesi, tanto che Luca Baiada arriva a definire la strage del Padule una «festa della morte».

Per Goldhagen la guerra non crea l’impulso eliminazionista; semmai essa crea il contesto all’interno del quale lo sterminio diviene possibile. Infatti, se fosse la guerra in se stessa a determinare la decisione di procedere a stragi ed eccidi allora assisteremmo ad un numero molto maggiore di massacri eseguiti da entrambe le parti in causa. Se fosse invece il semplice desiderio di vendetta contro chi ha inflitto sofferenza, allora i tedeschi avrebbero dovuto subire massacri sia dopo la Prima che dopo la Seconda guerra mondiale. Questo non è successo, anzi, nella gran parte dei casi a perpetrare la violenza di massa non sono stati i popoli soggetti all’aggressione ma gli aggressori stessi. Approfittando del clima di violenza dettato dai conflitti, sono proprio gli eserciti invasori ad utilizzare il massacro indiscriminato come strategia militare e, molto spesso, le popolazioni sterminate sono diverse da quelle contro cui la guerra era stata scatenata. È il caso degli Armeni annientati dai Turchi durante la Prima guerra mondiale: il loro sterminio fu attuato approfittando della guerra che impedì gli interventi delle diplomazie straniere. Da parte sua Hitler colse l’occasione offerta dal conflitto per cancellare dal continente europeo la presenza degli ebrei e per procurare l’eutanasia a tutti i malati di mente senza doversi preoccupare delle proteste degli altri paesi e delle Chiese. D’altro canto molte uccisioni di massa si sono svolte al di fuori dei contesti bellici, basti pensare alle migliaia di morti per le carestie indotte dalla dittatura stalinista, ai massacri maoisti o al genocidio provocato dai Khmer Rossi avvenuti “dopo” che i regimi comunisti si erano imposti.

Come dichiara Goldhagen, in realtà

È stata spesso la volontà dei leader e dei loro seguaci di eliminare o annientare altri popoli a produrre l’idea di scatenare un conflitto armato, sfruttato poi come occasione per mettere in atto piani omicidi già elaborati da tempo. […] Accade spesso che chi coltiva aspirazioni omicide ed eliminazioniste a livello di

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massa scateni o estenda un conflitto armato per realizzarle, o veda l’eliminazione violenta come parte integrante della conquista o colonizzazione del territorio straniero.167

Anche il diverso atteggiamento dimostrato sui diversi fronti dall’esercito nazista dimostra che nemmeno l’euforia per la vittoria abbia determinato le stragi di massa. Infatti la condotta eliminazionista delle truppe naziste è deflagrata sul fronte orientale, nei Balcani e nell’Italia occupata, ma non, tranne alcuni sporadici episodi, in Francia, Paesi Bassi e Scandinavia.

La guerra ha dalla sua il potere di rendere più facile l’attuazione di piani eliminazionisti. Infatti, oltre a rimuovere la minaccia della rottura dei rapporti internazionali, un conflitto incoraggia l’uso della violenza per risolvere problemi che altrimenti sarebbero trattati diversamente, magari con la diplomazia e il compromesso. Inoltre rende inclini ad accentuare la gravità delle minacce, a vedere il nemico ovunque, e fornisce giustificazioni all’omicidio di massa come le esigenze della sicurezza o l’attività insurrezionale.

Jacques Sémelin afferma che i popoli normalmente si attribuiscono un comune criterio identitario, che può essere quello della razza, della etnia, delle origini, della «nazione» quale sistema protettivo in tempi socialmente difficili.

Quando infatti gli individui tendono a perdere i propri punti di riferimenti, una delle risposte più

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