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2.1 La violenza invade la Penisola.

Durante la prima fase dell’occupazione nazista, immediatamente dopo l’8 settembre 1943, le procedure seguite dalle forze di occupazione nazionalsocialiste per mantenere l’ordine e il controllo dell’Italia centro-settentrionale si mostrarono in linea con le procedure standard previste dai codici militari. Si trattò di un atteggiamento improntato alla moderazione che l’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn e il comandante delle SS Karl Wolff avevano suggerito ai comandi militari, nel clima di collaborazione con la neonata Repubblica Sociale. Le sanzioni comminate per la violazione degli ordini promulgati dai comandi germanici e per i reati contro le forze d’occupazione venivano giudicate dai tribunali militari in base al codice penale militare tedesco e al «Decreto sulla giustizia penale speciale di guerra» emanato nel settembre 1939. In Lombardia molti processi a carico di franchi tiratori vennero celebrati presso i tribunali militari ordinari, e alcune pene capitali furono trasformate in condanne ai lavori forzati in Germania in seguito alla domanda di grazia. La fucilazione era spesso risparmiata anche a coloro che avevano trasgredito all’ordine di consegnare le armi, una volta dimostrata l’assoluta estraneità alle nascenti formazioni partigiane.

Tutt’altro comportamento fu quello adottato dagli invasori nelle aree meridionali della Penisola e nelle zone ancora occupate dal Regio Esercito in Jugoslavia e nell’Egeo, dove soprattutto i reparti delle SS e della Luftwaffe, ideologicamente più inclini ad assorbire la propaganda nazionalsocialista, rivolsero le armi sugli italiani colpevoli di aver tradito ancora una volta l’alleanza dopo il voltafaccia del 1915.

Nel clima di incertezza e sbandamento provocato dall’annuncio confuso di Badoglio, i militari italiani furono catturati con relativa facilità e deportati in Germania. A Cefalonia, Corfù e Dubrovnik essi rimasero invece travolti da un’ondata di violenza che si concluse con massacri e eccidi in parte ancora oggi inspiegabili.

60 Sul territorio italiano le formazioni tedesche, che già a partire dal 25 luglio avevano iniziato a infiltrarsi in ogni settore di una qualche importanza strategica, si impossessarono completamente dei centri di comando dando l’avvio a una politica di occupazione che subordinò allo sforzo bellico germanico ogni attività economica e amministrativa del paese. Contestualmente furono emanate numerose direttive che nelle intenzioni dell’alto comando militare avrebbero dovuto facilitare la difesa a oltranza della Penisola dagli attacchi degli Alleati.

Nel Meridione le misure messe in atto dall’esercito tedesco per rendere ardua l’avanzata angloamericana dimostrarono fin da subito la loro insostenibilità da parte degli abitanti di città e campagne. Già sottoposte giornalmente ai bombardamenti e al fuoco d’artiglieria degli Alleati, le popolazioni del Sud furono costrette a fare conti anche con la strategia nazista della «terra bruciata» consistente nella distruzione di obiettivi di interesse militare, delle vie di comunicazione, degli stabilimenti produttivi e di molte delle abitazioni, nonchè nella requisizione di bestiame e derrate agricole. A ciò si aggiunse il rastrellamento degli uomini abili al lavoro di età compresa tra i 15 e i 38 anni da impiegare nella costruzione delle linee di difesa e nella manutenzione delle vie di comunicazione, oppure da deportare in Germania. Scrive Lutz Klinkhammer che al 23 settembre 1943 dalla zona di Napoli erano già stati rastrellati 6-7.000 uomini da parte della 15^ divisione meccanizzata e della 16^ divisione corazzata, e altri 3.000 furono sequestrati dalla «Hermann Göring»93. È evidente che le devastazioni, le ruberie e la cattura della manodopera non poterono che innescare episodi di autodifesa, come la rivolta popolare delle «quattro giornate» di Napoli, e spingere alcuni a unirsi alle bande partigiane. Gli episodi di resistenza e di ostilità furono puniti mediante misure di rappresaglia collettiva come fucilazioni, impiccagioni, distruzione di abitazioni e pene detentive, con l’obiettivo di eliminare gli elementi di disturbo, dissuadere la cittadinanza a opporsi alle truppe d’invasione e «educare la popolazione a prevenire autonomamente gli attentati dei terroristi»94.

I massacri avvenuti durante l’inverno 1943-44 furono connessi invece all’intensificarsi dei combattimenti e all’inosservanza degli ordini di evacuazione della popolazione lungo la linea Gustav, una linea di difesa fortificata che si estendeva dalla foce del fiume Garigliano, vicino Formia, al confine tra Lazio e Campania, per terminare

93 Cfr.Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, cit., p. 132. 94

Sanzioni contro attacchi terroristici. Nota del Comando supremo della Wehrmacht (OKW), 18 febbraio 1944, in Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia , cit., p. 67.

61 sull’Adriatico presso Ortona passando per Cassino. Il rifiuto di abbandonare terre e case ebbe origine dal timore che l’evacuazione preludesse alla deportazione in Germania e dall’incertezza del destino dei propri beni. Inoltre, ad alimentare l’ostilità vi fu la convinzione diffusa che l’arrivo degli Alleati sarebbe stato questione di pochi giorni, una speranza motivata apparentemente dagli esplosivi disseminati dall’esercito germanico su strade, ponti e all’interno dei centri abitati. Per convincere i civili a lasciare le zone interessate dall’evacuazione, il comando della 3^ Panzer-Grenadier-Division, operativa lungo la zona del Volturno, dispose la fucilazione di ogni civile catturato a ridosso delle linee di combattimento; iniziò così uno stillicidio di eccidi e stragi tra cui quelli di Torricella Peligna, Pietrasnieri e Collelungo di Cardito dove trovarono la morte circa duecento persone. Il comportamento delle truppe tedesche, alle quali fu lasciato un ampio margine di discrezionalità, fu contraddistinto da una tale incoerenza per cui la stessa infrazione venne a volte trattata con equilibrio, altre volte con la massima spietatezza.

Nonostante i comandi nazisti ritenessero molto diffusa fin dai primi giorni d’occupazione la presenza di franchi tiratori e partigiani nelle retrovie, la resistenza armata rimase un fenomeno di proporzioni trascurabili fino alla primavera del 1944, fatte salve alcune eccezioni: vi furono alcune aree del Piemonte dove iniziarono a costituirsi le brigate Garibaldi, le bande del partito d’Azione e gruppi di ispirazione monarchica composti per lo più di ufficiali e soldati allo sbando. Verso la fine del 1943 si crearono quindi le condizioni per un’escalation di violenza da parte delle truppe germaniche, mirata a contrastare le azioni di sabotaggio e gli attacchi diretti ai soldati. Unità delle SS, della Luftwaffe e della Wehrmacht, appoggiate da manipoli di repubblichini, scatenarono tra dicembre e gennaio rastrellamenti e fucilazioni di partigiani e civili. Nel cuneese, a Bagnolo, Barge, Valcasotto e Boves (dove già nel settembre erano stati uccisi per rappresaglia 21 civili) la repressione fu spietata e complessivamente furono trucidate più di duecento persone inermi.

Nei primi mesi del 1944 la Resistenza intensificò le attività “alla macchia” e questo coincise con le carneficine compiute dalle milizie nazifasciste. Infatti, contestualmente ai progressi delle truppe alleate, la ritirata tedesca stava incontrando notevoli difficoltà, oltre che per problemi logistici e per l’indebolimento dei reparti militari, anche a causa delle azioni dei partigiani che nelle regioni dell’Italia centrale si stavano rivelando particolarmente incisive. Questo fu il contesto in cui si svolse l’attentato di via Rasella a

62 Roma (23 marzo 1944) e la ritorsione delle Fosse Ardeatine dove trovarono la morte 335 ostaggi. L’agguato dei Gap aveva causato la morte di 33 soldati appartenenti a un battaglione di polizia delle SS, e di due civili. Come rappresaglia, il comando della XIV armata ordinò alla polizia tedesca di stanza a Roma, guidata dal tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, di fucilare 10 italiani per ogni tedesco ucciso. Le vittime furono selezionate tra i prigionieri rinchiusi nelle carceri di via Tasso e di Regina Coeli; altri, principalmente ebrei, furono arrestati la mattina del 24. Nel pomeriggio dello stesso giorno i prescelti furono trasferiti nelle grotte delle Fosse Ardeatine, antiche cave di pozzolana situate nei pressi della via Ardeatina, e a gruppi di cinque trucidati con un colpo alla nuca. Nel massacro rimarranno uccise 5 persone in più di quelle previste a causa di un errore nella compilazione della lista.

Con la liberazione di Roma e dell’Italia centrale all’inizio di giugno, l’obiettivo dell’esercito tedesco era adesso quello di ripiegare a nord della linea Gotica (o Linea Verde) e da lì opporre una strenua resistenza. Come già era accaduto nel Meridione per la linea Gustav, anche qui sarebbe stato necessario evacuare i civili e ripulire dalle bande di ribelli tutto il settore a ridosso degli Appennini. Nella zona sarebbero dovuti rimanere solo gli uomini prelevati con la forza dalle loro abitazioni e assegnati al lavoro schiavile nell’Organizzazione Todt, oltre a quelli occupati presso la Wehrmacht.

L’opera di evacuazione si dimostrò fin dall’inizio complicatissima, sia per la mancanza di mezzi di trasporto e la difficoltà nell’individuare posti di alloggiamento e approvvigionamento dei civili in cammino, sia perchè anche le aree centro-settentrionali iniziavano a mostrare un’intensa attività partigiana, incoraggiata dai continui ripiegamenti dell’esercito nazista e dall’appello del comandante supremo delle forze alleate in Italia, il generale Alexander, affinchè gli italiani si impegnassero in azioni di sabotaggio. Fu così che, di fronte alla difficoltà di attuare un ripiegamento in completa sicurezza, il feldmaresciallo Kesselring emanò una serie di ordini che esasperarono i metodi di occupazione fino a reprimere con la violenza qualunque dimostrazione di ostilità nei confronti dell’esercito tedesco, senza operare alcuna distinzione tra combattenti e civili. Uniformandosi alle direttive di Kesselring, anche i comandi subalterni emisero ordini e istruzioni che prevedevano misure draconiane nei confronti della popolazione civile. L’SSPF «Mittelitalien» ordinò di punire ogni gesto ostile e ingiuria rivolta ai soldati tedeschi; il comandante del 75^ corpo d’armata generale Dostler, con il pensiero rivolto ai

63 bombardamenti alleati che si stavano riversando sulle città tedesche95, emanò disposizioni che escludevano ogni forma di riguardo verso la popolazione italiana. Gli ordini della 14^ armata invece stabilirono la fucilazione di 10 italiani abili al lavoro come misura di ritorsione per la cattura di un partigiano. Infine il 17 giugno 1944 fu data diffusione al famigerato «bando Kesselring» con cui il feldmaresciallo prometteva la protezione a «qualunque comandante che, nella scelta e nella severità dei mezzi adottati nella lotta contro i partigiani, ecceda rispetto a quella che è la nostra abituale moderazione»96 .

Per Gentile, i militari tedeschi avevano già da tempo adottato misure simili a quelle proclamate dall’alto comando senza d'altronde subire alcuna conseguenza. L’unica novità risiedeva nel fatto che adesso tali disposizioni sarebbero state operative su tutto il territorio controllato dalla Wehrmacht e non solo lungo la linea del fronte, eliminando così alla radice qualsiasi possibilità di fraintendimento. Come se non bastasse, il 1° luglio Kesselring emise un’altra ordinanza con la quale specificava a quale tipologia di sanzione dovesse corrispondere la “severità” dei mezzi di lotta: «Dovunque sia accertata la presenza di un numero considerevole di gruppi partigiani, una percentuale della popolazione maschile sarà fucilata»97. Le armate naziste non persero tempo ad attuare le direttive dell’OKW, impiccando i partigiani catturati e fucilando gli uomini rastrellati nelle aree dove i ribelli venivano scoperti.

A partire dal mese di aprile del 1944 l’esasperazione dei soldati tedeschi nei confronti dei civili italiani, che ai loro occhi continuavano a condurre una vita quasi normale, crebbe a dismisura, alimentata nel contempo dalla crescita esponenziale del numero dei partigiani e dei loro attacchi «mordi e fuggi». Man mano che la linea del fronte si spostava verso nord, l’esercito tedesco intensificò le azioni antiguerriglia e scatenò un’ondata di violenza per la quale la Toscana pagò il maggior tributo di sangue innocente. Gianluca Fulvetti stima in circa 3.700 le vittime civili che furono passate per le armi soprattutto dai reparti della «Hermann Gӧring», della 16^ Panzer-Grenadier-Division e della 305^ Infanterie-Division, le stesse che si erano distinte nel Meridione per la particolare

95 «In una fase del conflitto in cui in Germania le donne e i bambini cadono vittime ogni giorno di

bombardamenti terroristici [è necessario] agire con rapidità e durezza draconiana». Dichiarazione del generale Anton Dostler citata in Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, cit., p. 142.

96 Citato in Max Hastings, Inferno. Il mondo in guerra. 1939-1945, Neri Pozza, Vicenza 2012, pag. 577;

cfr. anche Collotti, L’occupazione tedesca in Italia. Kesselring, in Collotti, Sandri, Sessi, Dizionario della Resistenza., cit., pp. 64-65.

64 violenza98 e che dimostrarono anche in questa regione una particolare propensione a mietere vittime tra le popolazioni inermi.

I maggiori massacri della primavera del 1944 avvennero principalmente sulle colline tra le province di Arezzo e Firenze, dove si riteneva vi fosse una cospicua presenza di nuclei partigiani. Il compito di stanare i ribelli fu affidato ai reparti della divisione «Hermann Göring», appoggiati da unità italiane della Guardia Nazionale Repubblicana. Tra il 9 e il 18 aprile nelle località di Stia, Vallucciole e Pratovecchio i nazisti passarono per le armi complessivamente 107 civili, tra cui molte donne e bambini. L’azione inevitabilmente fu accompagnata da stupri, razzie di bestiame, viveri, biancheria e oggetti preziosi oltre che dall’incendio di molte abitazioni. Da parte loro i massacratori lasciarono sul campo due soldati uccisi dai partigiani. Della strage si occupò anche Mussolini che presentò le sue lamentele all’ambasciatore Rahn, ma l’indagine che ne seguì, aperta solo per tranquillizzare il Duce, finì con lo scagionare completamente la divisione.

Il mese di giugno, in concomitanza con l’arrivo del fronte di guerra nel sud della Toscana, fu contrassegnato da una serie di stragi ed eccidi caratterizzati da reazioni immediate quanto brutali da parte di piccole unità naziste e favoriti dal «l’entusiasmo per la liberazione ormai a portata di mano [che] produsse errori di valutazione da parte della popolazione e dei partigiani»99. A Roccalbegna (GR) l’11 giugno i tedeschi punirono gli abitanti del paese a causa dei festeggiamenti per la presunta quanto prematura liberazione del territorio da parte degli Alleati (Roccalbegna sarà liberata il 14): i civili fucilati furono 6. Il paesino di Forno, ai piedi delle Alpi Apuane, fu attaccato dalla 135^ Festungs-Brigade e dalla Decima Mas il 13 giugno in un’operazione finalizzata alla cattura dei partigiani che ingenuamente avevano occupato il villaggio convinti dell’imminenza di uno sbarco angloamericano sulla costa; in quell’occasione furono uccise 60 persone, tra cui una donna e un bambino e ne furono deportate altre 50. L’impreparazione militare dei partigiani fu all’origine del massacro di Pian dell’Albero (FI) dove i civili uccisi per rappresaglia furono 19. Sempre nel fiorentino, nella zona di Pratomagno, i civili massacrati in diverse azioni consecutive furono in tutto una settantina.

98 Cfr. Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009,

pp. 26-27 e 267-270.

65 La caccia alle bande partigiane servì ancora una volta da pretesto per l’esecuzione di stragi ed eccidi nel territorio aretino. A Civitella in Val di Chiana, San Pancrazio e Cornia, l’aggressione ad alcuni soldati tedeschi da parte dei partigiani provocò il 29 giugno una dura e sproporzionata reazione delle truppe naziste. Nel corso di un rastrellamento, reparti della «Hermann Göring» sterminarono circa 200 civili, alcuni nei pressi delle loro case, altri nella piazza del paese. Negli episodi di Civitella e San Pancrazio i nazisti prima di procedere alle esecuzioni allontanarono donne e bambini; a Cornia, invece, non ebbero questo riguardo.

Nel mese di giugno l’intensificarsi delle azioni partigiane aveva causato la morte di diversi soldati tedeschi anche nel territorio del comune di Cavriglia, sempre nell’aretino. Alcuni fascisti locali sollecitarono così la reazione delle truppe tedesche fornendo loro i nomi, estorti a un prigioniero, di alcune famiglie di partigiani residenti nelle frazioni di Castelnuovo dei Sabbioni e di Meleto. Il 4 luglio i due villaggi e altre località minori furono circondati da unità della «Hermann Göring» che, dopo aver allontanato donne e bambini, fucilarono tutti gli uomini rastrellati, bruciandone poi i corpi dopo averli coperti con della mobilia presa dalle case (un dettaglio questo che ritroveremo nella strage di Sant’Anna). I nazisti terminarono le esecuzioni saccheggiando e incendiando le case. L’operazione causò la morte di 173 civili, la maggior parte estranea alla guerriglia partigiana.

Durante la ritirata dal sud della Toscana, le truppe naziste si resero protagoniste di altri massacri perpetrati ai danni delle popolazioni delle aree collinose tra il territorio pisano e quello grossetano. Tra le più cruente vi furono la strage della Niccioleta a Castelnuovo Val di Cecina (13-14 giugno) e quella di Guardistallo del 29 giugno dove perirono rispettivamente 77 e 55 civili.

All’alba del 13 giugno reparti del 3° Polizei-Feiwillingen-Bataillon Italien circondarono il villaggio minerario di Niccioleta, nelle vicinanze di Massa Marittima, rastrellando tutti gli uomini. Sei di essi furono immediatamente fucilati perché trovati in possesso di armi, di un fazzoletto rosso e di un lasciapassare partigiano. Tutti gli altri furono trasferiti a Castelnuovo Val di Cecina e confinati nella sala dell’ex teatro. Il giorno successivo, dopo aver effettuato una sommaria selezione, 77 prigionieri furono trasferiti nei campi fuori dall’abitato e lì trucidati con le mitragliatrici. Da notare che il battaglione di polizia intervenuto a Niccioleta, pur comandato da ufficiali e sottufficiali tedeschi, era composto di soldati italiani che avevano evitato la deportazione in Germania arruolandosi nell’esercito nazista.

66 La scia di sangue proseguì verso Nord man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto la pressione delle forze alleate.

Nell’area del Padule di Fucecchio operavano piccole bande di ribelli dedite soprattutto ad azioni di sabotaggio con occasionali scontri armati. Tra i fossi e i canali, inoltre, avevano trovato rifugio molti uomini nella speranza di evitare la cattura e la deportazione, nonchè alcune famiglie di sfollati provenienti dai centri abitati sottoposti ai bombardamenti alleati. Poiché quella sarebbe divenuta un’area di transito delle divisioni in ritirata verso la linea Gotica, reparti della 26^ Panzer-Grenadier-Division comandati dal colonnello Peter Eduard Crasemann furono incaricati di ripulire la zona dai partigiani e di rastrellare braccia da lavoro. All’alba del 23 agosto 1944, appoggiate dal fuoco di artiglieria, le pattuglie della Ventiseiesima iniziarono il rastrellamento circondando l’area del Padule. Ben presto l’operazione si trasformò in un massacro: tutti coloro che non riuscirono a nascondersi furono uccisi, senza distinzione né di sesso né di età (indicativo del livello di brutalità fu l’episodio dell’anziana cieca e sorda Maria Faustina Arinci che venne fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del suo grembiule)100.

Una volta che l’esercito tedesco ebbe completato il ripiegamento sulla riva nord dell’Arno, le operazioni antipartigiane dilagarono in un’area comprendente la città di Pisa e il suo immediato entroterra collinare lungo il tratto finale del fiume Serchio, l’ansa dell’Arno a oriente della città, la Versilia, buona parte delle Alpi Apuane comprese le cave di marmo e la Lunigiana, e le pinete e le zone paludose che si estendono tra il litorale pisano e il porto di Viareggio. La struttura sociale del territorio era caratterizzata da zone a forte connotazione turistica e industriale (la Versilia e le città di Pisa e Pontedera), ma soprattutto da vaste aree dove l’agricoltura, più o meno intensiva, rappresentava la principale fonte di sostentamento della popolazione. Dal punto di vista politico, a una tradizionale moderatezza del contesto contadino faceva riscontro una robusta inclinazione verso i partiti comunista e socialista da parte degli operai delle fabbriche e dei cavatori (questi ultimi con una breve parentesi di adesione negli anni Venti al fascismo), senza dimenticare la presenza, tra Carrara e La Spezia, di una lunga tradizione anarchica. A partire dalla primavera del 1944, nella regione e in particolare sulle montagne dell’Appennino e delle Apuane si era sviluppato un discreto

100 Per un quadro esaustivo delle testimonianze relative alla strage del Padule di Fucecchio, vedi Luca

Baiada, Raccontami la storia del Padule. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre Corte, Verona 2016.

67 movimento resistenziale i cui obiettivi per lo più erano il sabotaggio dei cantieri della Todt e l’assalto ai convogli di rifornimenti verso il fronte. Pertanto le operazioni di ripulitura del territorio dalle bande e di rastrellamento di manodopera tennero sempre più impegnate le truppe tedesche, ma il loro risultato molto spesso si tradusse nel massacro della popolazione civile.

Nella città di Pisa e nelle zone ad essa adiacenti gli episodi in cui trovarono la morte civili innocenti furono numerose: dal 17 giugno al 9 agosto le località di Coltano, Piavola a Buti, San Piero a Grado, Asciano Pisano, San Rossore e Pettori fecero da teatro a eccidi per rappresaglia contro attacchi da parte di sparute bande partigiane (Buti, Asciano e Pettori)

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