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La violenza nazifascista sui civili. Ricerche, soluzioni interpretative e comparazioni.

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in

Storia Contemporanea

Tesi di Laurea

La violenza nazifascista sui civili

Ricerche, soluzioni interpretative e comparazioni

Relatore: Candidato:

Prof. Luca Baldissara Livio Marchi

Anno Accademico 2016- 2017

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1

Ad Antonella «factorem temporis»

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2 «L’unica cosa più dolorosa dell’essere obliatori attivi è essere rammentatori inerti» Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, 2002

«Ai giorni nostri […] il passato non ha una forma narrativa propria. Assume un significato solo in riferimento alle numerose e spesso contrastanti inquietudini del presente» Tony Judt, L’età dell’oblio, 2008

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INDICE

Introduzione pag. 4

Capitolo I. Violenza sui civili in Italia. Una rassegna storiografica.

1. I massacri pag. 8

2. La memoria dei sopravvissuti pag. 48

Capitolo II. La politica del massacro in Italia.

1. La violenza invade la Penisola pag. 59

2. Gli attori della violenza pag. 71

Capitolo III. Elementi di comparazione.

1. Politiche di sterminio naziste sul fronte orientale pag. 75

2. Violenza italiana nelle colonie africane pag. 86

3. L’occupazione brutale dei Balcani pag. 88

4. Comparazioni pag. 94

Capitolo IV. La violenza.

1. La violenza della guerra e i suoi eccessi pag. 101

2. Violare le regole della guerra pag. 110

Conclusioni pag. 119

Bibliografia pag. 124

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4

Introduzione

Nel 1996 Samuel P. Huntington scrisse: «L’Occidente conquistò il mondo non grazie alla forza delle proprie idee, dei propri valori o della propria religione, ma in virtù della superiore capacità di scatenare violenza organizzata»1.

La frase del politologo statunitense fa parte di una riflessione più ampia circa il futuro delle relazioni internazionali che, secondo Huntington, a partire dal XXI secolo saranno sconvolte dallo scontro non più tra nazioni ma tra civiltà, opposte l’una all’altra soprattutto in base al credo religioso.

Tuttavia, già nella prima metà di quello che Eric J. Hobsbawm definiva «il secolo breve» abbiamo potuto assistere allo scontro tra civiltà in varie occasioni, e non solo nelle terre d’oltremare dove a sfidarsi sono stati popoli diversi per etnia, cultura e religione e dove l’Occidente ha trionfato e dominato; è accaduto anche nell’intimità del continente europeo, tra nazioni formalmente simili ma profondamente e oggettivamente differenti dal punto di vista ideologico e politico, e tra popoli apparentemente e pretestuosamente diversi sul piano “razziale”. Nel corso della Seconda guerra mondiale nelle regioni della civile Europa si sono contrapposti da una parte l’aggressività nazifascista di Germania e Italia, dall’altra il comunismo totalitarista dell’Unione Sovietica e il liberalismo occidentale. Nel momento stesso in cui gli eserciti scendevano in campo con tutto il loro potenziale bellico in una «guerra totale» dalle dimensioni inedite, le truppe dell’Asse attuavano una campagna stragista e eliminazionista – vedremo poi se e quanto preordinata - nei confronti della popolazione civile, individuata di volta in volta negli ebrei razzialmente impuri e corrotti, negli slavi sottospecie di uomini e negli italiani voltagabbana.

Dopo un ingannevole quanto criminale patto di non aggressione tra i due regimi dispotici più violenti della storia, i nazisti invasero l’Unione Sovietica per completare da dominatori quel drang nach osten iniziato nel XII secolo e ritenuto indispensabile alla realizzazione del Reich millenario. Il bagaglio che i soldati e gli ufficiali tedeschi portarono con sé era costituito da un terrificante arsenale di armi tecnologicamente avanzate e da

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5 ordini draconiani riguardo al trattamento dei prigionieri di guerra, dei commissari politici e delle popolazioni locali, pur nella consapevolezza che la fedele attuazione di simili disposizioni avrebbe provocato milioni di morti.

La violenza fu impiegata anche ai danni dei civili italiani all’indomani dell’armistizio con l’esercito angloamericano; durante la loro lenta ritirata, i reparti delle SS e della Wehrmacht supportati dai fascisti della repubblica di Salò si lasciarono dietro una lunga scia di sangue innocente, peraltro sporadicamente riscattata dalla giustizia penale.

In Italia, gli anni del dopoguerra hanno visto l’edificazione di una memoria pubblica relativa all’occupazione nazista incentrata prevalentemente sulla celebrazione dell’antifascismo e della Resistenza, relegando a mera conseguenza del conflitto gli innumerevoli massacri e soprusi che travolsero la popolazione civile.

Fino alla seconda metà degli anni Settanta la ricerca storica ha attraversato una prima fase che Luca Baldissara definisce di tipo «politico-identitaria», appiattita su rappresentazioni dettate dalle esigenze politiche di una giovane democrazia stretta tra l’alleanza Atlantica e il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, il PCI. Ne è nata, di conseguenza, una narrazione mitizzata e ingannevole del movimento resistenziale, colpevole di aver (volutamente?) trascurato l’approfondimento del fenomeno stragista. A questa prima fase ha fatto seguito un’altra di tipo «istituzionale-pedagogica» durante la quale le istituzioni si sono sostituite ai partiti nell’elaborazione di una memoria collettiva2. Entrambi i momenti, oltre ad aver limitato la ricerca delle verità oggettive del contesto stragista, hanno permesso a mio avviso il ravvivarsi della fiamma revisionista che, facilitata dall’assenza di una obiettiva e profonda ricerca storica concernente l’occupazione germanica e la violenza con cui essa si svolse, ha trovato sufficiente spazio per interpretare arbitrariamente la brutalità delle azioni nazifasciste rovesciandone la responsabilità sulla sconsideratezza e il cinismo delle formazioni partigiane e giungendo, infine, a considerare «patriottismo» l’appartenenza ai gruppi militari e paramilitari della Repubblica Sociale Italiana. Il preteso assioma della verginità della lotta partigiana connesso al negligente oscurantismo nei confronti della memoria dei sopravvissuti e al rapporto, spesso controverso, tra le stragi e la lotta partigiana, ha esposto la cultura storica resistenziale a incalzanti accuse di parzialità, grazie anche alla diffusa ostilità intellettuale nei confronti

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6 delle occasionali deviazioni dal dogma della unitarietà della guerra di Liberazione, che ha spinto alcuni a sostenere che «chi non accetta la versione sacrale della Resistenza è considerato un nemico da abbattere»3.

Con l’inizio degli anni ’90 si è finalmente aperto un nuovo capitolo della ricerca storiografica relativa ai mesi dell’occupazione tedesca, il cui merito sta nell’aver messo al centro non più gli eserciti che con o senza divisa si scontrarono sul suolo italiano, ma i massacri di cui restarono vittime tanti civili e il rapporto che il fenomeno stragista ebbe sia con i perpetratori della violenza che con le bande partigiane.

Anche in Germania con molta fatica si è giunti, pressappoco nello stesso periodo, ad aprire una discussione retrospettiva e introspettiva circa i caratteri della violenza inflitta alle popolazioni civili dei paesi occupati. La reticenza ad approfondire un così importante quanto drammatico capitolo della storia tedesca aveva avuto origine nell’immediato dopoguerra a causa delle esigenze politiche e strategiche della Guerra Fredda, che vide la Germania, anzi le due repubbliche tedesche, al centro dello scontro USA-URSS, e in virtù del timore più che concreto che l’intero popolo germanico venisse ritenuto corresponsabile delle nefandezze dei nazisti4.

A partire da queste aperture ormai ultra ventennali, si è accumulata una considerevole mole di ricerche storiografiche delle quali mi occuperò in questa tesi di laurea, con uno sguardo particolare ai lavori dedicati all’approfondimento della brutalità con cui le truppe naziste si accanirono sui civili.

Nella prima parte proverò a sviluppare una breve rassegna delle opere più significative, dando conto delle diverse linee interpretative che gli autori hanno seguito studiando i meccanismi del terrore messi in atto lungo la penisola italiana (modalità di attuazione dei massacri, obiettivi, risultati). La rassegna comprenderà anche alcuni lavori nei quali, come vedremo, si percepisce la tendenza a conferire un alto valore storico alla memoria delle stragi che le popolazioni colpite dai gravi lutti hanno nel tempo elaborato.

3 Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p. VIII. 4

Sul coinvolgimento del popolo tedesco nei crimini nazisti, in particolare nella Shoah, cfr. Daniel Jonah Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1997.

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7 Il secondo capitolo invece sarà dedicato al racconto dei più gravi episodi stragisti avvenuti in Italia, oltre alla descrizione delle unità nazifasciste che più di altre si macchiarono dei crimini contro i civili.

Poiché è opinione di molti studiosi che la violenza scatenata in Italia dai soldati tedeschi abbia avuto origine dalle precedenti esperienze sul fronte orientale, nella terza sezione effettuerò una comparazione dei diversi teatri di guerra al fine di individuare differenze e analogie tra l’uccisione nelle steppe russe di più di dodici milioni di civili e le stragi avvenute in Italia. Di molte azioni efferate, tuttavia, si resero responsabili anche i soldati del Regio Esercito, sia nei confronti dei popoli delle colonie africane, sia di quelli delle regioni balcaniche soggette all’occupazione militare. Nello stesso capitolo quindi vedremo se è possibile ravvisare delle similitudini nei comportamenti delittuosi dei due eserciti dell’Asse, consapevoli che una risposta affermativa potrebbe configurarsi subdolamente come una sorta di dantesca “legge del contrappasso” subita dai cittadini italiani.

L’ultimo capitolo infine tratterà della natura della violenza, della regolamentazione della guerra attraverso la firma delle convenzioni internazionali, degli eccessi della «guerra totale», nonchè dei processi che portarono all’erosione del principio di intangibilità dei civili disarmati.

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8

Capitolo I

Violenza sui civili. Una rassegna storiografica

Questo capitolo è dedicato alla ricerca storiografica che si è andata via via articolando a partire dalla caduta dei regimi comunisti europei e dal conseguente abbattimento dei confini ideologico-culturali fissati dalle esigenze geopolitiche della Guerra Fredda. I lavori che andrò a esaminare sono stati pubblicati in un arco cronologico che va dal 1991 fino al 2016, un periodo contrassegnato da un nuovo contesto politico internazionale che ha permesso di «rimettere in movimento i processi di rielaborazione delle narrative pubbliche nazionali»5, consentendo letture diverse, spesso antitetiche, delle vicende della guerra e dell’occupazione nazifascista.

Cercherò quindi di focalizzare l’attenzione su alcune delle opere che hanno conferito una nuova veste interpretativa al paradigma stragista sviluppatosi dal 1943 al 1945 sul territorio italiano per mano delle truppe naziste (Wehrmacht, SS, Gestapo e Luftwaffe), sia dal punto di vista delle cause e delle modalità con le quali i massacri furono compiuti, sia da quello della memoria che più o meno consapevolmente si è sedimentata tra i sopravvissuti e che, come vedremo, ha acquisito sovente caratteristiche diverse e contrastanti rispetto alla narrazione ufficiale.

1.1 I massacri.

Contributi importanti al dibattito storico-politico al quale ho appena accennato provengono dalla notevole quanto prorompente produzione storiografica accumulatasi nell’ultimo ventennio, dalle celebrazioni del cinquantennale di alcuni drammatici episodi (1994), dal processo all’Hauptsturmführer Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, e dalla discussione che si è aperta in Germania circa la condotta della guerra da parte della Wehrmacht e il suo coinvolgimento negli episodi di efferata violenza ai danni di civili sui

5

Luca Baldissara, Paolo Pezzino (a cura di), Giudicare e punire, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2005, p. 14.

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9 fronti orientale e occidentale, un confronto originato soprattutto dall’inaugurazione nel 1995 della mostra «Guerra di distruzione. I crimini della Wehrmacht 1941-1944» organizzata dall’Institut für Sozialfoschung di Amburgo. Si è trattato di una raccolta di documenti, diari, lettere e fotografie esposta per diversi anni in trentatré città tedesche e austriache. Dalla mostra è emerso chiaramente che il comportamento dell’esercito tedesco, che il feldmaresciallo Albert Kesselring, capo delle forze armate tedesche in Italia, aveva definito a suo tempo rispettoso dei «principi di umanità e delle esigenze della cultura e dell’economia»6

, in realtà travalicò ampiamente qualsiasi regola dettata dallo jus in bello, sia nei confronti degli eserciti nemici che delle popolazioni civili.

In Italia, nel 1991 esce il volume di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio

storico sulla moralità nella Resistenza, in cui per la prima volta viene espresso chiaramente

un concetto che negli anni precedenti era stato solo sfiorato dalla saggistica tradizionale, cioè che il periodo che va dall’8 settembre 1943 al maggio 1945 (e per certi versi anche oltre), contrassegnato dalla violenta contrapposizione non solo tra gli eserciti nazista e angloamericano ma anche tra le bande partigiane e le milizie fasciste della Repubblica Sociale Italiana, si debba considerare una vera e propria «guerra civile» nella quale si fronteggiarono ferocemente italiani contro italiani, oltre che le ideologie nazifascista, marxista, monarchica, liberal-democratica e cristiano-democratica, in una lotta per il potere contraddistinta da sentimenti di odio e di rivalsa tali da provocare un’elevatissima quantità di violenza. In particolare, uno dei punti di frizione fu rappresentato dal convincimento nazifascista dell’illegittimità dell’azione para-militare partigiana e dalla rivendicazione da parte invece del movimento resistenziale riguardo al diritto dei popoli a difendersi dall’oppressione. A questo proposito Pavone sottolinea che

La grande differenza di valore simbolico che ha la violenza esercitata dagli uomini della Resistenza rispetto a quella praticata dagli eserciti e dai corpi di polizia regolarmente costituiti discende dalla rottura del monopolio statale della violenza.7

6 Citato in Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria, in Luca Baldissara, Paolo

Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, p. 6.

7

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 415.

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10 Il dibattito intorno all’uso legittimo delle armi da parte di soggetti diversi dai tradizionali eserciti di stato, inquadrati sotto una bandiera e contrassegnati in maniera riconoscibile, verrà affrontato più a fondo nell’ultima parte di questo saggio. Tuttavia il preteso monopolio della violenza da parte delle armate nazionali per Pavone rappresentò una delle cause generatrici dei massacri di civili, considerati complici e sostenitori dei «banditi» partigiani.

Pavone inoltre esprime la sua opinione circa l’influenza che le azioni partigiane avrebbero avuto, secondo alcuni, nel provocare le rappresaglie naziste di cui furono vittime i cittadini inermi. Egli rileva che gli atteggiamenti assunti dalla Resistenza riguardo al timore di rappresaglie sui civili non furono univoci. In molte occasioni la minaccia di far ricadere sulla popolazione le conseguenze delle azioni dei ribelli non servì a evitare la pratica della guerriglia; in altre i partigiani risposero a loro volta con azioni di rappresaglia nei confronti dei nazifascisti; infine vi furono bande che rinunciarono all’azione quando le avvisaglie di una ritorsione si rivelavano concrete. Ovviamente all’interno del movimento resistenziale lo scontro tra le diverse posizioni fu aspro, come lo è ancora oggi nel rinato dibattito storico-politico; tuttavia la linea maggioritaria seguita allora fu quella di non cedere al ricatto della rappresaglia perché questo avrebbe rappresentato «un implicito riconoscimento del diritto del nemico di esercitarla»8. Pavone a questo proposito cita il documento che il Comando militare per l’Alta Italia emanò nel febbraio 1944, nel quale si suggeriva alle bande di evitare o limitare le azioni quando vi fosse la possibilità della rappresaglia tedesca ma, al contempo, si raccomandava che la minaccia della rappresaglia comunque non rappresentasse un impedimento ad agire. In alcuni gruppi, per lo più Gap e Brigate Garibaldi, c’era la convinzione, spesso riscontrabile con la realtà, che fosse la rinuncia all’azione ad alimentare la violenza nazifascista, in quanto la rappresaglia in ultima analisi si sarebbe ritorta contro chi l’avesse esercitata. All’opposto altri gruppi, di matrice soprattutto democristiana, emanarono ordini e raccomandazioni volti a ridurre al minimo gli attacchi che avrebbero potuto rappresentare un pretesto per ritorsioni sulla popolazione civile. Fu così che l’azione partigiana si dispiegò tra la consapevolezza dei costi umani che la lotta resistenziale avrebbe comportato e l’onere di ridurne l’entità9

.

8

Pavone, Una guerra civile, cit., p. 479.

(12)

11 Un altro importante contributo storiografico proviene dal libro di Lutz Klinkhammer del 1993 L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945. Dalla lettura dell’opera ci accorgiamo che per l’autore una delle motivazioni all’origine dei drastici provvedimenti tedeschi nei riguardi dei civili fu rappresentata dalle difficoltà incontrate dall’esercito d’occupazione nel procedere all’evacuazione degli abitanti di città e villaggi della zona a ridosso la Linea Gotica (o Linea Verde), i quali si opponevano all’ordine di abbandonare case e masserizie per il timore di lasciare tutto quanto alla mercè delle razzie nazifasciste. Inoltre i nazisti, non disponendo di mezzi di trasporto sufficientemente numerosi, furono costretti a formare lunghe (e lente) colonne composte dagli sfollati, dal loro bestiame e dai carri carichi dei pochi oggetti non confiscati. Si rese pertanto necessario distogliere dalla linea del fronte preziose unità militari da impiegare nello spopolamento forzoso delle zone strategicamente sensibili e nella sorveglianza delle file di civili in cammino.

Klinkhammer sottolinea che l’impossibilità di completare rapidamente l’evacuazione divenne presto evidente, specialmente riguardo ai centri abitati più popolosi. Di conseguenza al generale Simon furono impartite disposizioni in merito alla condotta delle truppe nei confronti dei civili decisi a non lasciare le proprie abitazioni; da esse traspare la rabbiosa rassegnazione del Comando germanico a rinunciare all’idea di desertificare la linea del fronte.

Chi intende andarsene di sua spontanea volontà lo faccia pure; tutti gli altri dovranno ritirarsi in casa e, non appena escono, saranno senz’altro presi di mira dalle nostre fucilate. In prima linea non possiamo permetterci in nessun caso di usare particolari riguardi, ma dobbiamo intervenire inesorabilmente.10

Per Klinkhammer fu proprio il rifiuto di abbandonare paesi e villaggi che espose la popolazione agli eccidi e alle stragi che le divisioni tedesche attuarono nella zona dei monti Pisani e a San Miniato11 (relativamente ai monti Pisani si ritiene che lo storico tedesco si riferisca principalmente ai massacri de «La Romagna» e del Padule di Fucecchio). D’altro canto, continua l’autore, le misure di evacuazione non furono adottate solo per preservare la popolazione civile dai combattimenti del fronte in avanzamento oppure per creare delle barriere difensive tra le macerie delle case abbattute; spesso la cacciata dei civili dalle

10 Dichiarazione del generale Ekkehard Anton Dostler, BAMA, RH 24-75, vol. 15: Gen. Kdo. LXXV

A.K., rapporto di viaggio del K.G. del 31-7-sulla sede del comando tattico della 16^ divisione SS-Pz.Gren., citato in Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 383.

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12 abitazioni ebbe finalità punitive, dato il forte convincimento che essi dessero man forte alle formazioni ribelli. Infatti, le sanzioni che i centri di comando tedeschi ordinarono di imporre alla cittadinanza non erano diverse da quelle previste per i partigiani catturati; anzi, per Klinkhammer la notevole severità delle misure di contrasto alla lotta partigiana rappresentarono una «cambiale in bianco»12 per i massacri, spingendo i reparti nazifascisti a scatenare un’inaudita violenza contro la popolazione sospettata di sostenere la guerriglia.

Ritengo tuttavia che la produzione di riflessioni sul senso della condotta stragista tedesca abbia avuto un vero inizio con la pubblicazione del volume Guerra ai civili.

Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, scritto nel 1997 da Michele

Battini e Paolo Pezzino, docenti di storia contemporanea presso l’Università di Pisa. Il libro rappresenta un po’ il caposaldo del nuovo filone interpretativo riguardo alla violenza sui civili italiani durante l’occupazione nazista. Già dal titolo si percepisce la ventata di novità rispetto alla narrazione ormai consolidata che vedeva la guerra solo come lo scontro tra l’esercito nazista e repubblichino e le formazioni partigiane. Grazie al saggio di Battini e Pezzino siamo in grado di scoprire l’esistenza di un’altra «guerra», quella ingaggiata contro la popolazione, un vero e proprio conflitto combattuto mediante strategie, obiettivi e reparti militari avvezzi alla violenza.

Per Battini le brutalità commesse nei confronti dei civili durante la guerra d’invasione nascono dall’ideologia nazionalsocialista in virtù della quale, una volta sottomessi o sterminati slavi, ebrei e zingari, etnie considerate razzialmente inferiori, il popolo germanico avrebbe dominato l’Europa con la subalterna collaborazione dei regimi fascisti già affermatisi autonomamente, come quello italiano, oppure insediati dallo stesso dominatore come i governi collaborazionisti di Vichy e del norvegese Quisling. La crociata nazionalsocialista contro il bolscevismo e la contaminazione razziale rese necessaria la pratica della «guerra totale» - politica oltre che tecnica - già sperimentata durante la Prima guerra mondiale e portata al parossismo dagli eserciti dell’Asse a partire dal 1939. L’autore ricorda come nel 1914 si inaugurò una stagione nella quale, oltre alla partecipazione allo sforzo bellico di ogni settore produttivo, anche l’opinione pubblica e il pensiero individuale furono forzatamente uniformati in funzione della vittoria finale, e il coinvolgimento dei civili fu tale da oltrepassare quei limiti entro i quali è possibile considerare «effetti

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13 collaterali della guerra» le sofferenze della popolazione. Lo sterminio degli Armeni da parte dei Turchi e i massacri in Belgio ad opera delle truppe di Guglielmo II annunciarono la pulizia etnica e le rappresaglie che venticinque anni più tardi caratterizzeranno tragicamente la guerra d’invasione nazifascista.

In quest’opera, come in quelle di altri autori che vedremo successivamente, una delle linee interpretative privilegiate è l’assimilazione della condotta stragista nella Penisola alle operazioni di guerra totale e di sterminio attuate dalla Wehrmacht sul fronte orientale. Molti storici mettono in evidenza l’attenzione rivolta dall’esercito tedesco alla protezione dell’operatività delle proprie divisioni a scapito della tutela delle popolazioni. Per Battini e Pezzino anche in Italia ai reparti tedeschi furono impartite disposizioni operative di tipo militare finalizzate a imprimere maggior forza all’azione terroristica, tra cui una certa discrezionalità concessa agli ufficiali nell’adozione delle misure repressive, nonchè la garanzia dell’impunità per i comportamenti eccedenti quanto stabilito dalle convenzioni internazionali riguardo al trattamento dei civili nei teatri di guerra.

Battini è convinto che la politica del massacro concepita dagli alti comandi nazisti nascesse unicamente da esigenze strategiche. Infatti, una volta deciso il ripiegamento dalla linea Gustav (Formia-Cassino-Ortona) alla linea Gotica (Carrara-Rimini), ancora peraltro da completare, per l’esercito tedesco divenne indispensabile rendere sicuro tutto quanto il territorio adiacente il baluardo appenninico per evitare qualsivoglia ostacolo alla ritirata fintanto che le opere difensive non fossero state ultimate. Kesselring nella primavera del 1944 dispose che l’esercito si sarebbe dovuto attestare temporaneamente sulla linea Pisa-Arezzo-Ancona, mantenendo al contempo il controllo della zona montuosa delle Alpi Apuane e della Lunigiana in previsione di uno sbarco alleato lungo la costa tra Livorno e La Spezia. Ma il ritardo nell’ultimazione dei lavori di fortificazione della linea Gotica rese necessario procedere sia al rastrellamento di tutta la manodopera disponibile da destinare ai cantieri dell’organizzazione Todt, sia alla difesa a oltranza del fronte giunto ormai a ridosso delle rive dell’Arno. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza disporre dell’assoluto controllo del territorio; tuttavia la regione stava diventando sempre più instabile a causa dell’azione pressante dei gruppi partigiani e della crescente ostilità da parte delle popolazioni civili, vessate dalle requisizioni, dai rastrellamenti di manovalanza maschile e dalla distruzione a fini difensivi di molte abitazioni; un sentimento di avversità che spesso si traduceva nel supporto ai ribelli se non addirittura nella decisione di unirsi alle bande.

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14 Nonostante l’opinione contraria di alcuni dei comandanti tedeschi, che vedevano controproducente differire il ripiegamento sull’Appennino oltre che l’adozione di misure così vessatorie, le disposizioni dell’Alto comando furono messe in pratica a partire dall’aprile 1944: si intensificarono così le azioni di rastrellamento con il duplice obiettivo della cattura dei partigiani e della deportazione di manodopera, nonché le operazioni di evacuazione della popolazione dalle zone strategicamente rilevanti. È in questo clima che ebbero luogo i primi massacri (Monte Falterona, Vallucciole, Mommio, ecc.).

L’adozione di misure repressive nei riguardi dei civili, anche laddove le bande partigiane peccavano di numeri e di efficacia, per Battini e Pezzino mirava a prevenire o punire qualsiasi moto di ribellione, oltre che a rivoltare contro la Resistenza l’ostilità verso l’occupante. Analizzando le stragi del padule di Fucecchio e del Duomo di San Miniato e la relativa documentazione archivistica angloamericana, Battini è giunto alla conclusione che si sia trattato di massacri motivati non tanto della presenza partigiana nella zona, attiva ma non eccezionale, ma dalla volontà di punire la popolazione per la freddezza e l’evidente ostilità dimostrata durante l’occupazione dei centri abitati, la requisizione di beni di prima necessità e bestiame, e la distruzione delle case.

Conclude poi l’autore che

il comportamento delle truppe tedesche nella strage del Duomo segnala un atteggiamento nei confronti delle popolazioni civili profondamente distorto: esse vengono considerate in quanto tali, e non per una loro presunta collaborazione con i partigiani, nemici da controllare, deportare, distruggere. È la stessa spietata logica di guerra ai civili che provocherà, di lì a poco, il rastrellamento ed il massacro nel padule di Fucecchio.13

È proprio in occasione del tragico episodio del Padule che assistiamo all’uccisione di persone inermi senza alcun tentativo da parte dei comandi tedeschi di accertare l’effettiva presenza di formazioni partigiane particolarmente attive e la reale complicità della popolazione. Un’omissione che determinò nei tedeschi l’erronea percezione di operare in un’area caratterizzata dalla presenza di «banditi» e di civili collusi con le bande e particolarmente ostili.

Per Battini, negli ufficiali e nelle truppe germaniche

13 Michele Battini, Un crimine inventato? I morti del Duomo di San Miniato, in Michele Battini, Paolo

Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997, p. 140.

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15

La guerra «moderna» sembra dunque fare riaffiorare, soprattutto in determinate condizioni operative come la situazione di stallo del fronte che si verifica nell’estate del 1944, una psicologia arcaica, che a sua volta favorisce la circolazione degli stereotipi sugli italiani traditori e delle fantasie sui partigiani mutilatori, che si mascherano da «pacifici individui» e vengono «protetti dalla popolazione civile».14

Tutta la zona compresa tra il Valdarno inferiore e i monti Pisani fu oggetto di devastazioni, requisizioni, rastrellamenti e massacri, nella pressoché totale assenza di attività partigiane degne di nota, tranne alcune sporadiche operazioni della banda «Nevilio Casarosa» sui monti di Asciano. Uno stillicidio di eccidi che investì il territorio pisano da Buti alle pendici del Monte Serra fino a Vecchiano e San Giuliano Terme, per concludersi nel villaggio lucchese di Nozzano con la strage de «La Romagna», e che Battini esclude possano essere ricondotti a rappresaglia antipartigiana o a operazioni di rastrellamento, né tantomeno a eccessi di violenza da parte di reparti psicologicamente esasperati. Certamente, dichiara ancora Battini, motivi occasionali e individuali quali la renitenza alla leva della RSI o l’essere ebrei (e quindi possibili titolari di denaro e beni preziosi, probabile movente dell’eccidio di via Sant’Andrea a Pisa15

), in alcuni episodi furono determinanti. Tuttavia per l’autore ridurre il complesso delle efferatezze naziste alla casualità non può che rappresentare una forzata semplificazione, smentita dalle ricostruzioni mnemoniche e dalla ricerca documentale. In realtà le cause e le tecniche seguite nella maggior parte dei massacri avvenuti nel Valdarno inferiore, compresi quelli con un numero esiguo di uccisioni, seguirono fedelmente un unico filo conduttore, quello dell’eliminazione «programmata» di intere comunità.

Battini e Pezzino inoltre rilevano l’assenza di differenze comportamentali tra i reparti della Wehrmacht, delle SS e delle unità di polizia, contestando le prime interpretazioni di studiosi come Klinkhammer e Schieder16 per i quali i reparti dell’esercito regolare tedesco si mostrarono sostanzialmente estranei agli episodi di violenza sui civili nel biennio dell’occupazione nazista.

Al contrario gli autori fanno leva proprio sul coinvolgimento nelle rappresaglie e nei massacri di tutte le unità di occupazione, per dimostrare ancora una volta l’esistenza di una strategia ben precisa contro la guerriglia partigiana e di un disegno criminale rivolto contro la popolazione civile. In particolare Battini, elaborando un concetto che confermerà nel

14 Michele Battini, Morte in monte, morte in padule; i massacri «senza cause», in Battini, Pezzino, Guerra

ai civili. cit., p. 152.

15

Cfr. Carla Forti, Il caso Pardo Roques. Un eccidio del 1944 tra memoria e oblio, Einaudi, Torino 1998.

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16 volume del 2003 Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, pone l’accento sul fatto che la Wehrmacht, a partire proprio dalla primavera del 1944, assunse pienamente la responsabilità delle operazioni di repressione antipartigiana facendosi carico anche delle competenze delle SS-SDD; si tratta di un quadro ben preciso delle gerarchie di comando emerso anche dalle testimonianze di ufficiali nazisti durante il processo a Kesselring. In quell’occasione il colonnello Beelitz, primo ufficiale dello staff del feldmaresciallo, dichiarò che fino all’aprile 1944 le SD e le SS collaborarono con l’esercito regolare limitatamente alle azioni di ricognizione, resistenza agli Alleati e alle operazioni antipartigiane. A partire dal 1° maggio la collaborazione divenne invece subordinazione17.

Il ricongiungimento delle responsabilità e competenze in un unico organismo, la Wehrmacht, fu diretto ad attribuire maggiore efficacia all’azione di repressione del movimento resistenziale e al raggiungimento del totale controllo sulla popolazione. Lo stesso Kesselring, nella testimonianza al processo a suo carico ammise che

Nelle aree infestate o occupate dai partigiani la popolazione combatteva al loro fianco o collaborava con essi, volontariamente o no. L’esercito fu allora costretto a considerare la popolazione alla stregua dei partigiani. 18

Battini infine cita a supporto delle sue tesi il lavoro investigativo della British War

Crime Section, le cui conclusioni indicano che le operazioni di repressione quali la cattura e

l’esecuzione di ostaggi, le rappresaglie indiscriminate e la distruzione di interi villaggi facevano parte di un piano predeterminato e organizzato attraverso un sistema di «responsabilità per l’emanazione degli ordini»19

. Tutto ciò è comprovato dai documenti, come quello appena citato, e dalle molteplici testimonianze rese di fronte ai tribunali alleati da parte di diversi ufficiali nazisti che chiamarono in causa di volta in volta uffici e comandi a tutti i livelli di responsabilità e appartenenti a tutte le divisioni presenti sul territorio italiano.

17

Cfr. Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 79-80.

18 Dal processo ad Albert Kesselring, Venezia, 3 marzo 1947, citato in Ibid., p. 81.

19 PRO WO 310/123, Distribution for Action: Major War Criminals and Nazi State Organisation. 9 July

1945 (sgd. V.A.R. Isham), citato in Michele Battini, I meccanismi della punizione. Sistema di occupazione e «pianificazione» dei massacri civili, in Battini, Pezzino, Guerra ai civili, cit., p. 198.

(18)

17 L’ipotesi di Battini sul totale coinvolgimento, anzi sul ruolo di primo piano della Wehrmacht nelle stragi di civili, è sostenuta anche da Friedrich Andrae nel suo libro La

Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, pubblicato in Italia nel 1997. Per lo studioso tedesco, le unità dell’esercito

regolare alle dipendenze di Kesselring attuarono una politica di «pacificazione» del territorio occupato mediante operazioni di rappresaglia e azioni punitive, in risposta sia al “tradimento” dell’alleato, sia alla gioia effimera degli italiani dopo il 25 luglio e l’8 settembre e alla successiva delusione per il proseguimento del conflitto20.

Nell’autunno del 1943, scrive Andrae, i reparti tedeschi reagirono con violenza ai moti di ribellione della popolazione dell’Italia meridionale alla quale veniva imposta l’evacuazione dalle zone del fronte. Poiché la Convenzione dell’Aja del 1907, su cui tornerò in un altro capitolo, conteneva norme a protezione dei civili sottoscritte tra l’altro anche dalla Germania, le relazioni della Wehrmacht inerenti gli episodi di violenza sulla popolazione faranno sempre più spesso riferimento ad azioni contro partigiani o «banditi». Ne avremo esempi sempre più frequenti lungo tutta la Penisola e soprattutto a ridosso della linea Gotica, dove anche Andrae rileva un’escalation della violenza ai danni delle comunità della Toscana e dell’Emilia, dovuta tra l’altro al ritardo nel completamento dei baluardi difensivi.

La mancanza di norme internazionali che regolassero chiaramente il diritto da parte dei civili di opporsi all’esercito regolare di una nazione occupante determinò il profondo contrasto tra l’esercito nazista e le bande partigiane (e non poteva essere diversamente), ma anche la conduzione dello scontro mediante l’adozione di radicali e vicendevoli forme di brutalità. I tedeschi non riconoscevano ai partigiani il diritto alla belligeranza in quanto non costituivano l’esercito di uno stato riconosciuto; pertanto si rifiutavano di applicare ai ribelli il trattamento previsto dalle convenzioni internazionali. Da qui le impiccagioni e le fucilazioni dei partigiani catturati e dei civili sospettati di collusione. All’opposto stavano le organizzazioni resistenziali che si autodefinivano organizzazioni belligeranti e non irregolari in quanto

20

Cfr. Friedrich Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1997, p. XII.

(19)

18

costituivano un gruppo sociale la cui azione era finalizzata a realizzare nella massima misura possibile ordini vincolanti e il loro assetto interno si fondava sul rispetto di una rigida disciplina e sulla responsabilità nei confronti dei compagni di lotta e del gruppo, come pure nei confronti del popolo e della nazione.21

Da parte loro, i partigiani tendevano, come i nazisti, a non fare prigionieri e a usare la violenza estrema anche nei confronti dei tedeschi non direttamente responsabili di azioni particolarmente efferate.

Ricorda poi Andrae che l’ideologia nazista, a partire dall’invasione dell’Unione Sovietica, iniziò a equiparare il partigiano al comunista. Un simile accostamento non fece che radicalizzare la lotta alla Resistenza, considerata uno dei soggetti coinvolti nel complotto ordito dal bolscevismo e dall’ebraismo internazionale. Kesselring, dal canto suo, reputava i partigiani semplice marmaglia senza onore.

Malgrado la precedente politica delle rappresaglie ai danni delle popolazioni balcaniche si fosse dimostrata controproducente, essa fu attuata anche in Italia. Lo storico tedesco attribuisce questa scelta a una sovrastimata valutazione del fenomeno resistenziale; tale errore tuttavia non provocò solamente il progressivo infoltimento delle formazioni partigiane, ma seminò violenza e terrore sulla popolazione inerme nel tentativo di minare il morale delle bande.

Sempre nel 1997 esce un altro lavoro di Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia

1943-44, che fin dall’inizio punta l’indice sul pericoloso tentativo di stendere un velo sulla

violenza dell’occupazione nazista e sulla controversa collaborazione della RSI in nome di una, peraltro auspicabile, riconciliazione nazionale. Per l’autore attribuire l’intera responsabilità dei massacri alle truppe naziste, trascurando i tanti episodi di complicità da parte dei fascisti italiani, non raffigura che un nocivo «abbellimento della realtà storica»22, funzionale a manovre revisioniste riscontrabili anche in Germania.

Un altro degli aspetti salienti dell’opera dell’autore tedesco è il capovolgimento dell’oggetto della ricerca storica, rappresentato tradizionalmente dall’esercito nazista nel suo insieme, che nelle pagine di Klinkhammer diventano invece i singoli esecutori dei massacri, abili nel perpetrare la violenza come nell’immaginare comode letture in chiave autoassolutoria in occasione dei processi a loro carico. Per l’autore, puntare i riflettori sugli individui ha permesso in Germania l’avvio di un interessante dibattito circa le responsabilità

21

Andrae, La Wehrmacht in Italia, cit., p. 175.

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19 della Wehrmacht riguardo ai crimini nazisti, consentendo agli storici di controbattere alle stereotipate affermazioni degli ex militari tedeschi di aver combattuto per la patria contro gruppi di fuorilegge e franchi tiratori quali sarebbero stati i partigiani, negando in tal modo la legittimità dell’azione resistenziale. Klinkhammer spiega così le contraddizioni che emergono da simili linee difensive:

mentre molti ex soldati della Wehrmacht si attribuiscono, ancora dopo cinquant’anni e più, una motivazione patriottica per spiegare l’atteggiamento assunto nella lotta contro i partigiani, con la stessa ostinazione la negano a coloro che volevano liberare il proprio paese da una forza d’occupazione distruttiva.23

Quella che l’autore chiama «antropologizzazione» della ricerca storica sulle stragi, permette quindi di analizzare le uccisioni di massa attraverso le azioni dei singoli soldati, gli «uomini comuni» studiati a fondo da Christopher R. Browning, superando la visione “strategica” dei comandanti e dei funzionari nazisti. Klinkhammer sostiene, tuttavia, che nel suo lavoro di ricerca lo storico deve evitare qualsiasi propensione a isolare la morte individuale dal contesto bellico, altrimenti egli correrà il rischio di ostacolare l’emergere di realtà di violenza preordinate e pianificate.

Abbiamo visto in precedenza come Battini e Pezzino giungano alle loro conclusioni analizzando gli episodi stragisti avvenuti in Toscana a partire dalla primavera del 1944. La violenza germanica sui civili tuttavia ebbe inizio nel Sud della penisola italiana all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. A partire da quel giorno le truppe tedesche presenti sul territorio italiano già da molti mesi furono potenziate con altre divisioni per far fronte all’avanzata dell’esercito angloamericano attestatosi, dopo lo sbarco di Salerno del 9 settembre, nei pressi di Cassino. Le prime stragi subite dalla popolazione civile avvennero nel territorio napoletano, determinate da una serie di fattori che Gloria Chianese illustra nel suo saggio Napoli, inserito nel volume curato da Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi Dizionario della Resistenza, Storia e geografia della Liberazione e pubblicato nel 2000. Per la storica partenopea, direttrice degli «Annali della Fondazione Giuseppe Di Vittorio», le stragi e gli eccidi commessi dalla Wehrmacht e dalle SS nel meridione d’Italia, e in particolare nel Napoletano, sono conseguenza diretta della politica di Kesselring mirante al rallentamento dell’avanzata degli alleati. Lo sforzo principale dell’esercito tedesco,

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20 coadiuvato dai fascisti rinfrancati dalla nascita della RSI, si manifestò nel rastrellamento degli uomini da deportare in Germania o nell’Italia settentrionale, nell’evacuazione dei civili dalle zone teatro di operazioni belliche e nella distruzione di attività produttive e infrastrutture.

Per la Chianese le violenze naziste

scaturivano dalla necessità di non tollerare alcuna reazione da parte della popolazione civile e venivano perciò attuate con modalità che andavano ben oltre le forme di violenza legittimate dallo stato di guerra.24

Tenuto conto che il comportamento ostile delle popolazioni meridionali si concretizzò per lo più mediante blande forme di ribellione motivate esclusivamente dal tentativo di proteggere i familiari e i beni di sussistenza, l’autrice esclude recisamente che le uccisioni di civili si siano verificate nell’ambito di rappresaglie contro azioni rivoltose. Al contrario, la studiosa giunge alla conclusione che esse abbiano avuto esclusivamente funzione preventiva: «saccheggi, incendi, fucilazioni seguirono dinamiche proprie di una strategia del terrore che era indirizzata contro i civili, considerati alla stregua di un nemico interno»25.

Dello stesso volume fa parte anche il saggio di Enzo Collotti e Tristano Matta intitolato Rappresaglie, stragi, eccidi. Il loro lavoro inizia con la stima dei civili uccisi in Italia nel corso di eccidi, stragi e rappresaglie per mano della Wehrmacht o delle SS. Si tratta di almeno diecimila vittime, escluso i partigiani, un numero che sovrasta notevolmente quello dei caduti civili in altre zone d’occupazione dell’Europa occidentale dove il fenomeno stragista si rivela di portata più limitata. Nell’individuarne le ragioni, gli autori evidenziano che nè la presunta superiorità razziale nè il “tradimento” dell’8 settembre siano sufficienti da soli a giustificare la sproporzionata violenza che si abbattè sulla popolazione disarmata e inerme. Sicuramente una buona dose di responsabilità ricadde sulla decisione dell’OKW (Comando supremo Forze armate) di contrastare il più possibile l’avanzata delle truppe alleate, trasformando così l’intera Penisola in uno smisurato teatro di guerra. L’intensificarsi delle azioni dei partigiani, inoltre, contribuendo notevolmente alla crescita nelle truppe tedesche di una costante sensazione di insicurezza, espose la popolazione civile all’accusa di connivenza con le bande degli irregolari e alla conseguente repressione. Un

24 Gloria Chianese, Napoli, in Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della

Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, Torino 2000, p. 379.

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21 ultimo motivo che gli autori individuano è il carattere cautelativo della strategia del terrore messa in atto dalle forze tedesche al fine di «prevenire l’esplosione di una potenziale ostilità. La violenza fu esercitata sin dall’inizio come dimostrazione di forza e di superiorità dell’occupante nella prassi quotidiana»26

, a partire dalle disposizioni nei confronti degli ufficiali e dei soldati dell’esercito italiano ai quali fu imposto il disarmo, la deportazione e in molti casi la fucilazione, come avvenne a Cefalonia. Non solo: anche Collotti e Matta riconoscono che le operazioni contro le bande partigiane furono ricondotte alla competenza della Wehrmacht in quanto considerate vere e proprie azioni di guerra contro le quali si rendeva necessario il dispiegamento di reparti militari, «attenuandone fortemente la differenza di comportamento al confronto con le SS e le unità della polizia»27.

Nelle operazioni militari di contrasto alle formazioni dei ribelli tuttavia fu coinvolta anche la popolazione civile allo scopo di

spezzare il consenso o la copertura che le popolazioni offrivano ai partigiani - o i comportamenti che come tali venivano considerati – indipendentemente da gesti attivi di collaborazione. 28

Per i due autori il fenomeno stragista non può essere ricondotto a generiche motivazioni quali la casualità, l’inevitabilità oppure la crudeltà dell’esercito tedesco. Essi concordano con Pezzino e Battini nel riconoscere che la maggior parte delle stragi e degli eccidi sia avvenuta in zone dove la Wehrmacht fu massimamente impegnata nelle operazioni belliche contro gli Alleati e l’organizzazione resistenziale. Essi tuttavia, analizzando le caratteristiche dei diversi massacri, individuano anche altre cause, come ad esempio la pregiudizievole ostilità tedesca all’indomani dell’armistizio, in linea con la volontà di Hitler di punire il tradimento dell’ex alleato. Peraltro gli autori riconoscono che formulare un quadro rigidamente schematico diventa impossibile in presenza di stragi in cui contemporaneamente vengono uccisi partigiani, ostaggi e civili inermi.

Collotti e Matta individuano tre-quattro aree all’interno delle quali si può osservare una omogeneità nelle caratteristiche dei massacri. Una prima area è rappresentata dall’Italia meridionale dove le stragi sarebbero state effettuate in funzione «preventiva», finalizzate cioè a impedire qualsiasi moto di ribellione contro la deportazione e il lavoro coatto, oltre

26 Enzo Collotti, Tristano Matta, Rappresaglie, stragi, eccidi, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di),

Dizionario della Resistenza, cit., p. 255.

27 Ibid., pp. 266-267. 28

(23)

22 che a ostacolare la formazione di sacche resistenziali. All’interno invece della zona compresa tra la bassa valle del Tevere e il Piceno, le cause della repressione germanica andrebbero ricercate nella reazione agli attacchi dei nuclei partigiani. Nell’area attigua al confine orientale, infine, (Carso, Istria e Friuli orientale) il massacro avrebbe rivestito le caratteristiche proprie della «guerra di sterminio», la stessa operata dalla Wehrmacht in Russia e Europa orientale. Un discorso a parte viene fatto per i territori a ridosso della linea Gotica (Toscana e Appennino bolognese), dove si stima sia perito un quarto delle vittime delle stragi naziste in Italia. Collotti e Matta si limitano a riconoscere che in quelle zone il fenomeno stragista ebbe una portata notevolmente superiore a quella delle altre zone del paese, senza tuttavia che ne individuino le cause. Ciò, a mio parere, sta a significare che, riconoscendo anch’essi la difficoltà nell’attribuire origini e motivazioni a massacri solo apparentemente omogenei, gli autori preferiscono mettere in evidenza la vastità del fenomeno stragista in quel territorio senza arrischiarsi in valutazioni difficilmente confermabili se non dopo un lungo e approfondito esame degli atti e delle testimonianze.

Anche le zone cittadine e rurali per i due studiosi evidenziano rispettivamente dei tratti omogenei. Per quanto riguarda le campagne, il fenomeno stragista si scatenò quasi dappertutto durante operazioni di rastrellamento, sfollamento e requisizioni; all’interno degli agglomerati urbani, invece, si è assistito sovente a episodi di violenza contro singoli individui o piccoli gruppi. Inoltre nelle città furono gli organi di polizia (SS, Gestapo, SD, ecc.) a ricorrere alla violenza indiscriminata; nelle aree rurali questo compito spettò soprattutto alla Wehrmacht.

La scansione cronologica degli avvenimenti può rivelarsi indicativa delle cause dei massacri. Collotti e Matta individuano cinque momenti significativi: il primo, da collocarsi a cavallo dell’8 settembre, riguarda gli episodi di violenza verificatisi in Sicilia, Puglia, Basilicata e nel Napoletano, e da ricondurre principalmente al desiderio di rivalsa verso l’ex alleato; il secondo, fino al maggio 1944, si può far risalire all’assestamento dell’occupazione tedesca e alla nascita delle prime formazioni partigiane con i conseguenti episodi di rastrellamento; la terza fase (giugno-ottobre 1944) è caratterizzata dalla crescita esponenziale della violenza contro i civili, determinata dalla reazione nazista alla crescente attività resistenziale. È in quest’ultimo periodo che vengono emanate le direttive draconiane volte a incentivare l’azione di rappresaglia e in cui si evidenzia la più alta concentrazione di eccidi e stragi di tutta l’area centro-settentrionale, dalla Toscana all’arco alpino. Qui gli autori individuano una vera e propria pianificazione dei rastrellamenti e dei conseguenti

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23 massacri, requisizioni e distruzione dei villaggi. La quarta fase, quella relativa all’inverno 1944-45, è contraddistinta da un maggior numero di azioni mirate esclusivamente al debellamento delle bande partigiane, che videro così ridursi la loro capacità offensiva, e da una limitata azione stragista circoscritta ormai alla sola Italia settentrionale. Si ha, infine, una recrudescenza della violenza sui civili nell’ultimo periodo prima della Liberazione (aprile-maggio 1945) corrispondente all’insurrezione generale e alla caotica ritirata dell’esercito tedesco verso il confine; i massacri avvengono particolarmente a ridosso dell’arco alpino orientale, lungo le linee del ripiegamento in direzione dell’Austria. I due storici, per questa fase, tendono a respingere ogni ipotesi di programmazione della violenza: si tratterebbe invece di una riacutizzazione della bramosia di ritorsione, di una pratica di «guerra ai civili» ormai naturalmente assimilata dalle truppe germaniche.

In Italia la politica del massacro portò in alcune zone e in determinati momenti a una «frattura tra popolazioni e partigiani, impedendo a questi ultimi di dispiegare in pieno il proprio potenziale militare»29. È uno dei concetti cardine del saggio di Paolo Pezzino

Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria incluso nel più ampio trattato storiografico

curato da Luca Baldissara e da Pezzino stesso e pubblicato nel 2004 con il titolo Crimini e

memorie di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo. Per l’autore fu

proprio questo uno degli obiettivi che gli ordini dei comandi germanici intendevano raggiungere, avallando e incentivando misure terroristiche nei confronti della cittadinanza inerme. L’atteggiamento criminale dei soldati tedeschi, pertanto, non può essere imputato a pura e semplice follia, come alcuni storici come Leonardo Paggi e Angela Scali tendono a sostenere30, ma a calcolo razionale determinato dalle esigenze strategiche della lotta al movimento resistenziale.

Dopo ogni uccisione di civili così come in occasione delle testimonianze rese dagli ufficiali nazisti nel corso dei processi a loro carico, le giustificazioni del massacro seguono sempre lo stesso cliché: tutti indistintamente facevano parte delle bande armate e, anche se non partecipavano agli assalti, i civili ricoprivano un ruolo importante nell’organizzazione della guerriglia adoperandosi come messaggeri, fornendo assistenza, rifugio e informazioni ai partigiani. Si esprimeranno in questi termini anche il generale Max Simon31, comandante

29 Pezzino, Guerra ai civili, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit., p. 8. 30

Cfr. Leonardo Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996.

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24 della famigerata 16^ SS-Panzer-Grenadier-Division «Reichsführer-SS». Come dichiara Michele Battini in un altro saggio dello stesso volume, le conseguenze di una simile condotta bellica ricadranno su vecchi, donne e bambini che verranno trattati alla stregua di nemici armati, venendo così «a cadere qualsiasi distinzione tra i combattenti e i non combattenti e tra la sfera militare e la sfera civile»32.

Una volta rimossa la differenza tra il nemico e il fuorilegge, da parte dell’invasore non rimaneva altro che la pretesa della resa incondizionata, nel totale dispregio delle norme sancite dalle convenzioni internazionali. Per Pezzino, fu proprio a causa dell’assimilazione civili inermi-partigiani, oltre che della difficoltà per i tedeschi di catturare i veri combattenti tra i boschi e le montagne dove essi solitamente trovavano rifugio, che «le azioni antipartigiane assumevano l’aspetto di rappresaglie contro la popolazione»33

.

Per lo SS-Sturmbannführer Walter Reder che aveva alle spalle esperienze di lotta alla guerriglia partigiana sul fronte orientale, la violenza sui civili non rappresentava altro che la conseguenza incidentale delle azioni militari vere e proprie. Difatti Pezzino individua in alcune stragi naziste come quelle di Vinca, Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema, un dispiegamento dei reparti tedeschi caratteristico delle azioni militari tradizionali, come confermerà lo stesso autore nell’opera Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage pubblicata nel 2008 e dedicata all’analisi del maggiore tra i massacri avvenuti in Toscana. Ma in altre occasioni sia Reder che il generale Peter Eduard Crasemann, responsabile della strage del Padule di Fucecchio, dichiararono che, nonostante l’apparente innocenza, anche donne e bambini ebbero parte attiva negli agguati alle truppe tedesche. È evidente quindi che in realtà la rappresaglia sui civili veniva applicata come punizione per l’aiuto dato alle bande34.

Un’altra testimonianza importante è rappresentata dalla diffusione, alla fine del 1944, del documento intitolato Bandenkampf in der Operationszone Adriatisches Küstenland scritto dal corrispondente di guerra delle SS dottor Hans Schneider-Bosgard, con il quale, dopo aver puntualizzato che gli eserciti e i comandi militari nemici avrebbero abbandonato da tempo le normali regole di guerra per adottare i metodi sleali e disonorevoli della guerriglia, egli giustificava la rappresaglia da parte della Wehrmacht come un indispensabile

32 Michele Battini, I meccanismi della repressione. La responsabilità fondamentale della «Wehrmacht», in

Battini, Pezzino, Guerra ai civili, cit., p. 212.

33 Paolo Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Il Mulino, Bologna 2008, p. 125. 34

Cfr. Pezzino, Guerra ai civili, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit., pp. 11-13.

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25 criterio difensivo35. Il documento citato da Pezzino non rappresenta che la sintesi teorica di quanto era già avvenuto e stava avvenendo nel corso della ritirata verso nord: una costellazione di stragi che sia Kesselring che Reder giudicavano come la necessaria e ineluttabile risposta alla sleale guerriglia partigiana. La responsabilità dei massacri quindi, incidentale o determinata dalla rappresaglia, per gli ufficiali tedeschi sarebbe stata da attribuire solo ed esclusivamente all’utilizzo cinico di donne e bambini da parte dei partigiani, nel contesto di una lotta armata contro le regolari truppe germaniche irrispettosa di ogni regola d’onore. Sotto questo punto di vista l’aggressore diventa vittima ed esercita solo a scopo di legittima difesa la violenza sui civili, divenuti a loro volta aggressori o quantomeno complici di banditi e criminali. Una tesi questa che gli esecutori delle stragi utilizzeranno a piene mani come linea di difesa nei processi del dopoguerra.

Gli ordini della Wehrmacht mirati al contrasto della guerriglia partigiana, ma che prevedevano direttamente o indirettamente anche misure a carico della popolazione, non possono che dimostrare per Pezzino quanto la violenza sui civili facesse parte integrante della strategia di occupazione e di difesa del territorio da parte dei nazisti; una vera e propria «politica delle stragi» di cui si resero conto anche le truppe angloamericane nel risalire la Penisola. Un esempio di legittimazione dell’eccesso di violenza è rappresentato dal famigerato «bando Kesselring» del 17 giugno 1944 in base al quale la garanzia dell’immunità per aver esagerato con le misure repressive veniva promessa dalla più alta carica militare della Wehrmacht in Italia direttamente a ufficiali e truppa.

Sebbene il bando circoscrivesse la non punibilità alle violenze perpetrate in occasione di operazioni contro i nuclei partigiani, questo e altri ordini simili, in soldati ormai avvezzi alla violenza più estrema e in truppe stanche e preoccupate dall’esito infausto della guerra, incentivarono lo stragismo e la rappresaglia indiscriminata anche nelle situazioni in cui non vi era alcuna relazione con l’attività resistenziale. Anzi, analizzando 214 eventi tra stragi (5 o più vittime) ed eccidi (da 2 a 4 vittime) avvenuti in Toscana, Pezzino ha riscontrato che solo il 19,3 per cento furono attuati in risposta ad azioni partigiane, cioè vera rappresaglia. Per il restante ottanta per cento si tratterebbe di uccisioni avvenute in occasione di rastrellamenti, evacuazione e deportazione di cittadini, oppure per ragioni tattiche e di controllo del territorio. Un altro dato saliente riportato dallo storico pisano è che il 39,3 per

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26 cento dei massacri coinvolse donne, anziani e bambini, a ulteriore dimostrazione che nel caso di molti degli eccidi e delle stragi si sia trattato

di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da «bonificare», a priori considerati «partigiani», il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.36

Il significato di questa terrificante proporzione verrà approfondito in un recentissimo lavoro (2016) curato da Pezzino insieme a Gianluca Fulvetti Zone di guerra, geografie di

sangue. L’atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), un’opera che completa

un importantissimo progetto di ricerca del quale tratterò più avanti.

Pezzino cita, come Battini, gli investigatori inglesi i quali giunsero alla conclusione che il fenomeno stragista faceva parte di una deliberata condotta bellica che risentiva delle precedenti esperienze sul fronte orientale e che mirava alla completa sottomissione della popolazione italiana. Inoltre l’autore rileva che, mentre in alcuni episodi la ferocia nazista si riversò solo sulla popolazione maschile, in altri non fu fatta alcuna distinzione né di genere né di età, soprattutto da parte di reparti speciali imbevuti di radicato razzismo e culto della violenza come la divisione «Hermann Göring» e la XVI Divisione corazzata granatieri SS.

Malgrado gli ordini e le direttive dei comandi tendenti a inasprire la repressione sui civili, non vi fu uniformità nei comportamenti dei reparti germanici. In alcuni casi la repressione fu di portata limitata, in altri invece l’azione terroristica si dispiegò ben al di là degli ordini ricevuti, e questo da parte soprattutto dei reparti speciali comandati dagli ufficiali provenienti dall’esperienza brutale sui fronti orientali, oltre che da ambienti profondamente politicizzati.

L’opera di Baldissara e Pezzino introduce un ulteriore elemento già parzialmente esaminato da altri studiosi ma che qui viene elaborato in maniera più profonda: il rapporto massacri - lotta partigiana. Una parte del loro lavoro aspira a dimostrare, analizzando a fondo alcuni dei massacri più significativi avvenuti in Toscana nel 1944, l’inconsistenza del discorso nazionale che si è venuto a creare nel corso dei primi decenni del dopoguerra, secondo cui il partigiano, eroe della guerra di Liberazione, fu appoggiato, sostenuto e confortato dall’intera popolazione a dispetto della violenza che si abbattè su di essa per la

36

Paolo Pezzino, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia. Episodio di Sant’Anna di Stazzema 12 agosto 1944, Scheda monografica 2016, www.straginazifasciste.it.

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27 sua presunta complicità. La convinzione degli autori è che la guerra di Liberazione si sia svolta in realtà in un contesto molto più complesso e spesso contraddittorio, e che il consenso, certamente rilevante, abbia tuttavia assunto diverse sfaccettature a seconda dei luoghi, dei tempi e delle circostanze. Senza dubbio i temi revisionisti degli ultimi anni che vorrebbero un movimento resistenziale isolato dal territorio, avversato dalle comunità e indifferente alle sofferenze delle persone inermi non trovano alcun fondamento né nei documenti, né nelle memorie, né tantomeno nella realtà di un’attività di guerriglia che evidentemente non avrebbe potuto esplicarsi senza il contributo anche minimo da parte della popolazione. Tuttavia il racconto entusiasta della ribellione di un intero Paese ha attinto «liberamente alla realtà, semplificandola e selezionandone esclusivamente gli elementi utili alla costruzione di un discorso politico»37: una narrazione della Resistenza come movimento unitario e patriottico funzionale esclusivamente alle vicende e necessità politiche del dopoguerra. Oggi invece si avverte il bisogno di un approfondimento storiografico che metta in luce tutte le caratteristiche e le ambiguità di un periodo di «guerra civile» durante il quale si confrontarono duramente da una parte gli invasori nazisti e i loro fiancheggiatori della RSI, dall’altra i partigiani e i civili che li sostenevano, circondati entrambi da quella «zona grigia» già identificata da Primo Levi38 costituita da coloro che tentarono di non farsi coinvolgere nelle violenze della guerra mantenendo una sorta di rigida quanto illusoria neutralità.

Sottolinea Pezzino che le tragiche conseguenze della lotta partigiana, cioè le azioni di rappresaglia e di vendetta sulla popolazione civile, rappresentano per i movimenti resistenziali il prezzo da pagare per un più alto fine, quello della vittoria sul nemico invasore. Ma il valore etico e morale della lotta partigiana viene assunto nella sua interezza solo da parte del combattente e del movimento ideologico che lo sostiene; la popolazione civile, al contrario, non sempre ne accetta il costo in termini di sofferenze e di vite umane.

Su questa questione il dibattito era già stato aperto da Gabriele Ranzato il quale nel libro già citato di Collotti, Sandri e Sessi dichiara che «soggiacere al ricatto delle rappresaglie implicava la fine di ogni resistenza armata. La legittimità dell’atto di guerra compiuto non fu tanto di natura giuridica quanto di natura morale»39. Della stessa opinione è anche Enzo Traverso il quale, nel mettere a confronto le grandi azioni resistenziali avvenute

37 Battini, Pezzino, Guerra ai civili, cit., p. XVII.

38 Cfr. Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 24-52.

39

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28 nell’Europa invasa, come l’attentato di Praga contro Heydrich o l’insurrezione del ghetto di Varsavia seguite entrambe dal massacro di civili, si chiede nel saggio A ferro e fuoco. La

guerra civile europea 1914-1945 del 2002 quale grado di legittimità avrebbero avuto le

istituzioni nate all’indomani della Liberazione se gli italiani avessero subito passivamente l’invasione nazista40

. Abbiamo infine già preso nota nelle pagine precedenti che Claudio Pavone tende a minimizzare la parte di responsabilità che i partigiani avrebbero avuto nella repressione scatenata da nazisti sui civili.

Per Pezzino invece non si può negare che in alcune occasioni l’attività partigiana sia stata quanto meno imprudente, in particolar modo quella dei Gap, svolta molto spesso senza valutare attentamente le conseguenze per la popolazione. Per lo studioso l’azione resistenziale svincolata dal contesto civile, può

nascondere la stessa pretesa di irresponsabilità dei soldati regolari nelle azioni di guerra, con la medesima semplificazione di chi, riducendo gli individui ad automi irresponsabili delle proprie azioni, sostiene che gli ufficiali e i soldati tedeschi che si macchiavano di azioni inumane non avevano alternativa al loro comportamento a causa degli ordini draconiani che ricevevano. 41

Il partigiano è consapevole che le sue azioni, pur determinate dalle necessità della dura lotta contro l’invasore straniero, si muovono – almeno formalmente - al di fuori di ogni regola e convenzione internazionale e che certamente provocheranno un forte e smisurato desiderio di rivalsa da parte del nemico. Ma in molti casi proprio la certezza che la risposta dell’oppressore sarà terribile costituirà uno degli obiettivi dell’azione resistenziale, confidando che i civili indecisi, di fronte alla sproporzione della rappresaglia, decideranno finalmente di schierarsi.

A dimostrazione che l’azione armata ebbe la precedenza rispetto all’incolumità dei civili, Pezzino fa riferimento alle azioni punitive esercitate dai reparti delle SS sulle Alpi Apuane. In occasione della strage di Vinca del 24 e 25 agosto 1944 entrambi gli schieramenti, sia partigiani che tedeschi, nei rispettivi rapporti mai fecero menzione dell’orrendo assassinio di 162 persone innocenti, preferendo i primi esaltare l’agguato alle SS che in parte aveva determinato la ritorsione, e i secondi il recuperato controllo del

40 Cfr. Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2002, p.

14.

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