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Elementi di comparazione

4.2 Violare le regole di guerra.

Alla fine della guerra dei Trent’anni che sconvolse buona parte del suolo europeo nel XVII secolo, i governanti europei si resero conto che il conflitto aveva provocato un così enorme carico di lutti e violenze da rendere difficoltosa la ripresa delle attività economiche e sociali, nonchè dei normali quanto indispensabili rapporti tra gli stati. Nel tentativo di creare un argine alla violenza, tra le nazioni si instaurò un tacito patto che con il tempo si trasformò nello jus publicum europaeum. Così la guerra assunse le caratteristiche di una pratica esercitata da organismi statuali tra loro riconosciuti e sottoposta a precise regole quali l’inizio e la fine delle ostilità, le legittime forme di belligeranza, la stretta definizione dei confini del campo di battaglia, il trattamento dei prigionieri e dei feriti, la clausura dei combattenti, cioè l’individuazione dei soggetti autorizzati all’uso delle armi e l’esclusione di tutti gli altri dalla violenza. Questo non solo ridusse la durezza dei combattimenti, ma permise la ripresa delle relazioni internazionali al termine di ogni scontro.

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111 L’istituzione di regole rispettate da tutti i contendenti fu resa possibile grazie all’affermarsi degli stati assoluti, cioè di forme di governo dotate di un’amministrazione centrale e capaci di stabilire e far rispettare leggi e norme all’interno dei propri confini, nonchè di mantenere relazioni stabili con i governi confinanti. Sulla base di tali principi, in caso di conflitto tra nazioni con le stesse caratteristiche e con lo stesso livello di civiltà, era lo jus publicum europaeum a regolare lo svolgimento delle azioni belliche. Anche la definizione di «guerra» venne circoscritta alle lotte fra stati sovrani che si riconoscevano reciprocamente, relegando tutte le altre forme di violenza a contesti non riconosciuti dal diritto: ribellione, pirateria, terrorismo. Laddove vi fosse stata l’infrazione di tali regole – e l’abbiamo visto nel dibattito circa la legittimità della guerra partigiana - oppure il conflitto fosse stato scatenato contro popolazioni considerate barbare o infedeli, ogni forma di violenza sarebbe divenuta lecita.

Le guerre napoleoniche costituirono la prima occasione nella quale le regole di guerra definite dagli stati furono infrante170. Progressivamente, nel corso del XIX secolo l’Europa assistè a scontri non più tra sovrani ma tra popoli, e lo jus publicum europaeum che aveva posto un freno alla violenza illimitata non riuscì più a trovare un’efficace applicazione. L’avvento delle guerre di massa e l’invenzione di nuove e più terrificanti armi da guerra resero sempre più concreta la possibilità di un’escalation della violenza ai danni delle popolazioni civili, e questo alimentò il dibattito pubblico sui diritti civili e personali - tra cui il diritto alla salvaguardia dei soggetti non belligeranti - e sul trattamento dei prigionieri e dei feriti. Gli stati si videro costretti così a impegnarsi in una nuova regolamentazione e codificazione delle forme legittime dei combattimenti; dare cioè forma scritta e cogente ad uno ius in bello la cui natura consuetudinaria non poteva più offrire alcuna garanzia di protezione ai soggetti avulsi all’uso delle armi.

Dopo l’istituzione della Croce Rossa Internazionale nel 1863, si giunse a una prima convenzione firmata a Ginevra nel 1864 riguardante «il miglioramento delle condizioni dei militari feriti in guerra». Successivamente, in base all’idea che l’unico obiettivo legittimo della guerra non fosse l’annientamento totale del nemico ma solo il suo indebolimento, al congresso di San Pietroburgo del 1868 i governi europei convennero unanimemente nel bandire tutte le armi atte a cagionare sofferenze inutili; alla successiva conferenza di Bruxelles (1874) vennero invece stabiliti diritti e doveri dei paesi neutrali.

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Sulla crisi delle regole della guerra e della convivenza internazionale a partire dal XIX secolo, cfr. Alessandro Colombo, La guerra ineguale, Il Mulino, Bologna 2006.

112 Nella convenzione dell’Aja del 1899, promossa dallo zar Nicola II, furono deliberati alcuni divieti tra cui l’uso di gas e veleni, il bombardamento di città indifese, di edifici d’arte e di culto, e degli ospedali; si determinarono inoltre i caratteri distintivi degli eserciti e dei corpi volontari, e si giunse a un accordo di massima riguardo al trattamento dei prigionieri di guerra. In attesa dell’emanazione di un codice maggiormente vincolante, fu deciso infine di inserire una clausola, suggerita dal tedesco Friedrich Fromhold Martens, che poneva civili e soldati «sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti, come risultano dagli usi stabiliti dai popoli civili, dalle leggi dell’umanità e dai dettami della coscienza pubblica». L’intento della Convenzione era chiaro: regolamentare la violenza della guerra così da non infierire inutilmente né sui combattenti né sulla popolazione.

Oltre alla codificazione della condotta bellica, il crescente movimento di opinione circa il rispetto dei diritti umani spinse gli stati nazionali a firmare altri due accordi: la Convenzione di Ginevra del 1906, relativa al «miglioramento della sorte dei feriti e malati negli eserciti di campagna», e la Convenzione dell’Aja del 1907 nella quale furono sancite le regole del diritto bellico internazionale.

Nonostante le limitazioni che le nazioni volontariamente si erano imposte, con la Prima guerra mondiale crebbe in maniera esponenziale il numero delle vittime e dei feriti. I soldati, logorati da lunghi periodi di esposizione alle intemperie nelle centinaia di chilometri di trincee, morirono a migliaia a causa dei gas asfissianti e dei bombardamenti. Inoltre, grazie alla gittata sempre più lunga dei cannoni e alle primitive incursioni aeree, si ridusse la distinzione tra il campo di battaglia e le zone abitate, in misura tale che il coinvolgimento delle popolazioni civili non potè più essere considerato una eccezionale conseguenza della guerra. Tuttavia, la violenza scatenatasi durante il primo conflitto mondiale stimolò il desiderio di ripristinare quelle «regole d’onore» tanto declamate e sottoscritte nelle

Convenzioni d’anteguerra. Di conseguenza nel 1929 fu firmata una ulteriore convenzione di Ginevra, alla quale peraltro mancò l’adesione dell’Unione Sovietica, che stabilì norme e principi relativamente al «trattamento dei prigionieri di guerra», preceduta nel 1925 da un Protocollo che vietava l’uso dei gas tossici.

Rimase nondimeno opinione comune degli stati che i limiti e gli obblighi fissati nelle Convenzioni fossero applicabili soltanto laddove fosse stato rispettato il criterio della reciprocità: durante le guerre coloniali le potenze imperialiste si sentirono autorizzate a trascurare le norme internazionali e ad usare ogni forma di violenza avessero ritenuta

113 necessaria, dall’uso dei gas ai massacri di civili, data la natura “barbara” degli eserciti e dei popoli che si volevano soggiogare.

Nel 1917 con la Rivoluzione russa si aprirono ulteriori scenari che riguardarono non più i confini geografici ma quelli ideologici: la stagione delle lotte intestine per la conquista del potere si aprì in Italia nel 1918 con il conflitto tra fascismo e democrazia liberale per proseguire in Germania tra la socialdemocrazia e il nazionalsocialismo; l’inizio degli anni Quaranta vide infine lo scontro titanico tra nazismo e comunismo per la conquista dello spazio vitale. La diversa ideologia delle parti in lotta rappresentò per alcuni il pretesto per infrangere i precetti convenzionali, considerando non soddisfatto il principio della reciprocità. Da parte sua il nazionalsocialismo, accanto al criterio ideologico, considerò anche la differenza di “razza” un buon motivo per violare le norme dettate dagli accordi internazionali.

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale rappresentò il momento in cui la violenza, che con fatica l’Europa aveva cercato di confinare all’interno di regole cogenti, venne esercitata senza alcun limite, specialmente sul fronte orientale dove le truppe germaniche agirono con brutalità persino sui civili, sfoderando il pregiudizio della «sub-umanità» dei popoli slavi; inoltre la mancata sottoscrizione da parte dell’Unione Sovietica della convenzione di Ginevra del 1929 fornì ai nazisti la scusa per non rispettare le norme internazionali sul trattamento dei feriti e dei prigionieri di guerra.

È nelle steppe russe che si concretizza la tendenza verso l’estremo teorizzata da Karl von Clausewitz, cioè la volontà e la necessità di mettere in campo tutto ciò che può contribuire alla vittoria finale, anche le azioni più violente e brutali. Tuttavia Clausewitz riconosceva che tale ipotesi è solo teorica perché nella realtà una molteplicità di fattori concorrono naturalmente alla limitazione della violenza, quelli che Alessandro Colombo definisce «freni clausewitziani»171. Una prima categoria di freni è costituita dai limiti naturali quali il tempo, il clima, le stagioni, la configurazione del terreno di scontro, freni che una più o meno avanzata tecnologia potrebbe ridurne l’influenza; una seconda categoria è rappresentata dagli obiettivi da raggiungere e una terza consiste nel grado di capacità oppositiva del nemico. Ai deterrenti sopra descritti dobbiamo aggiungere un’altra serie di ostacoli al pieno dispiegamento della violenza, cioè quelli che Colombo chiama «freni

114 groziani». Tra di essi vi è proprio lo jus in bello, cioè il rispetto delle convenzioni internazionali, fattore indispensabile per il mantenimento delle relazioni tra gli stati.

Per Hitler, gli obiettivi dell’invasione dell’Unione Sovietica non erano alcune conquiste territoriali e il successivo ripristino delle relazioni diplomatiche: lo scopo dell’aggressione era la conquista «totale» degli immensi spazi russi e delle risorse naturali, nonchè l’asservimento del suo popolo di Untermenschen. Si trattava di un traguardo estremo, e per raggiungerlo il regime nazista mise in campo tutti i mezzi che aveva a disposizione, compreso lo sfruttamento e il massacro delle popolazioni civili. Se la violenza conobbe dei limiti, questi, come dichiara Chris Bellamy

derivarono dalla logistica, dal terreno, dal clima, come pure dalle limitate capacità di resistenza di uomini e animali (nella fattispecie dei cavalli), più che dalle leggi e consuetudini di guerra.172

Secondo il pensiero nazista inoltre, il popolo russo non possedeva il livello razziale, culturale e ideologico sufficiente per essere considerato un nemico «alla pari»; in assenza pertanto delle condizioni di reciprocità, l’esercito tedesco si sentì legittimato a contravvenire alle regole belliche convenute a livello internazionale e a scartare ogni possibilità di limitare l’esercizio della forza, così da giungere alla vittoria finale.

È evidente quindi che né il secondo freno clausewitziano (la limitatezza degli obiettivi) né tantomeno il rispetto delle regole belliche (i freni groziani) furono presi in considerazione dall’esercito tedesco per condurre la guerra limitando l’esercizio della violenza a un circoscritto campo di battaglia. La conclusione dell’orgia di violenza che Wehrmacht e SS scatenò sul popolo russo ebbe conclusione solamente quando il terzo freno clausewitziano, cioè la potenza del nemico, aggiunto ai limiti indicati da Bellamy, fu capace di ricacciare i nazisti al di là della Vistola.

In alcune occasioni comunque le regole delle relazioni internazionali furono rispettate. L’esempio più vistoso si verificò all’inizio della guerra quando l’invasione improvvisa del suolo russo imprigionò i molti cittadini sovietici che, dato il patto di non aggressione tra i due paesi, risiedevano in Germania. Molti di essi furono deportati nei campi di concentramento ma all’ambasciatore fu permesso di far ritorno a Mosca. Fa notare Bellamy che «Persino nella più assoluta delle guerre andavano tenuti aperti i canali

172

Chris Bellamy, Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 2007, p. 25.

115 negoziali, altrimenti nessuno si sarebbe potuto arrendere»173. A milioni di civili russi il nazismo riservò ben altro trattamento.

Diversamente dalla campagna di Russia, l’invasione dei paesi occidentali era iniziata con l’osservanza delle convenzioni tradizionali, norme che anche gli eserciti regolari impegnati nella difesa ritenevano di dover rispettare, come pure, entro certi limiti, le organizzazioni resistenziali. Infatti, come sostiene Lagrou,

Sembra che nell’Europa occidentale occupata una larga maggioranza della popolazione continuasse a riconoscere il legittimo monopolio della violenza da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti in divisa, anche se essi appartenevano alle forze di occupazione straniere. […] A livello di rappresentazione, persino nei ranghi dei comunisti francesi, il tabù relativo all’uccisione di militari da parte dei civili al di fuori del contesto di uno scontro regolare conserva ancora parte della sua forza.174

In virtù di questo monopolio, la violenza attuata in nome di uno Stato ben definito è avallata dalle norme del diritto internazionale. Da ciò consegue la convinzione che ogni azione violenta commessa da un esercito regolare nell’ambito di una guerra correttamente dichiarata venga considerata legittima non solo agli occhi dell’opinione internazionale, ma anche, come sostiene Pezzino, dalle «popolazioni costrette a subirla. È convinzione profondamente radicata quella della “naturalità” della violenza, quando è comandata ed effettuata in nome dello Stato»175. Tale legittimazione porta inevitabilmente alla sensazione di impunità da parte del soldato che tende a nascondersi dietro la scala gerarchica per giustificare le sue azioni, una «zona franca» tuttavia non riconosciuta al patriota mosso esclusivamente dai propri ideali e sprovvisto di contrassegni che siano indifferentemente una divisa o una bandiera.

Se la lotta partigiana possa considerarsi una forma legittima di belligeranza è la questione intorno alla quale ruota la liceità dei comportamenti antiguerriglia adottati dall’esercito nazista. Alla domanda Gentile risponde affermativamente, poichè l’impiego della violenza e la distruzione di vite umane in determinati contesti, come il ripristino dell’ordine o del diritto, oppure la lotta contro l’oppressione e i regimi dispotici, non

173 Bellamy, Guerra assoluta, cit., p. 25.

174 Pieter Lagrou, La “guerra irregolare” e le norme della violenza legittima nell’Europa del Novecento, in

Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit. p. 97.

175

116 possono essere considerati atti illegittimi se commessi da eserciti che non sono espressione diretta di uno Stato. Malgrado ciò le forme civili di resistenza hanno da sempre subito una dura repressione da parte degli eserciti invasori, fin dalla dominazione napoleonica della Spagna nel 1808, la guerra franco-prussiana del 1870, le guerre indiane in America e soprattutto durante le guerre coloniali in Africa. In ognuna di queste vicende la violenza fu esercitata non solo sugli insorti ma anche sui civili, considerati complici e fiancheggiatori dei movimenti patriottici.

Pertanto i crimini perpetrati dai nazisti nei confronti della popolazione inerme e dei partigiani catturati costituirono incontestabilmente gravi violazioni delle Convenzioni dell’Aja del 1907 e di Ginevra del 1929, nella totale trasgressione pure delle norme prescritte dal Codice penale militare di guerra tedesco, soprattutto in tema di trattamento dei prigionieri di guerra e dei civili estranei alle operazioni militari. La tendenza delle truppe naziste all’inosservanza delle regole del diritto internazionale fu evidente fin dal settembre 1939 con l’attacco alla Polonia e venne confermata tragicamente durante tutto il conflitto mondiale, sia sul fronte orientale che su quello italiano.

Per quanto riguarda la rappresaglia, essa è un istituto di diritto pubblico internazionale che rende lecito l’uso della forza da parte di uno Stato nei confronti di un altro Stato come risposta a un torto subito. Si tratta di uno strumento di autotutela peraltro limitato dalla Carta delle Nazioni Unite del 1946; di una contromisura violenta che lo stato offeso ha il diritto e l’obbligo (verso i propri cittadini) di adottare ogni qualvolta l’offesa avviene in contrasto con norme convenzionali, consuetudinarie o deliberate da organi internazionali. Una volta subita una violazione, lo stato offeso consegue il potere di attuare comportamenti violenti di norma vietati ma divenuti adesso legittimi in quanto reazione a un illecito altrui.

Nel medioevo la rappresaglia concedeva il diritto, da parte di un cittadino che avesse subito un torto dall’abitante di un altro comune, di rivalersi violentemente su un qualsiasi cittadino di quel comune. Successivamente, in età moderna, la facoltà di applicare la rappresaglia fu avocato dallo Stato, limitandone e circoscrivendone l’uso legittimo mediante regole e consuetudini che Ettore Gallo così riassume:

1) deve rispondere a un criterio di proporzionalità tra violazione subita e contromisura, sia nella qualità che negli effetti;

117 2) non può essere esercitata da uno Stato contro privati cittadini, rivestendo natura di rapporto da Stato a Stato;

3) deve rappresentare una risposta a un fatto oggettivamente ritenuto illecito;

4) che il suo impiego sia preceduto dal tentativo di scoprire i colpevoli dell’atto illecito176 . Ritengo sia il caso di aggiungere un quinto limite, cioè che l’azione di rappresaglia non abbia carattere punitivo ma risarcitorio, dato che «le misure di autotutela non hanno come scopo caratteristico quello di punire […]; esse sono fondamentalmente dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato, ossia a far cessare l’illecito»177

.

Il ricorso alla rappresaglia da parte degli eserciti tedesco e italiano nei territori da loro occupati avvenne sulla scorta della presunta irregolarità delle azioni da parte dei civili armati, inseriti quindi in un contesto al di fuori di ogni regola e convenzione. Dobbiamo però osservare che la ritorsione non fu mai attuata in presenza delle condizioni sopra citate, tranne forse l’assenza di divise o segni distintivi che segnalassero lo stato di belligeranza dei ribelli e la loro estraneità a un esercito nazionale. Ma Gallo contesta la presunta illegittimità della Resistenza opponendo la natura fortemente nuova ed eccezionale della lotta partigiana nata come risposta ad una azione bellica, quella nazifascista, anch’essa del tutto nuova ed esercitata mediante misure e metodologie eccedenti ogni consuetudine e trattato internazionale.

L’espressione della Resistenza è stata altra cosa, del tutto nuova come fenomeno paramilitare, che aveva necessariamente, in territorio fermamente e crudelmente occupato, un carattere essenziale e vitale: la clandestinità.178

Tale opinione è confermata anche dalla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 che all’art. 44, comma 3, giudica legittima l’azione militare di un combattente sprovvisto di qualsiasi segno distintivo purchè esponga le armi ben in vista durante l’attacco violento.

Per Claudio Pavone gli atti di ritorsione sui civili operati dalle truppe nazifasciste furono «uno sconvolgente fatto regressivo»179, violando quel principio che vede la rappresaglia un istituto prettamente interstatale.

176

Cfr. Ettore Gallo, Diritto e legislazione di guerra, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, cit.

177 Benedetto Conforti, Diritto internazionale. Editoriale scientifica, Napoli 1987, p. 354.

178 Gallo, Diritto e legislazione di guerra, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della

Resistenza, cit., p. 353.

118 Nell’immediato dopoguerra la giustizia militare ritenne fosse da escludere che agli eccidi si potesse applicare l'istituto della repressione collettiva di cui all'art. 50 della Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907, contenuto nella sezione III intitolata «De l'autorité militaire sur le territoire de l'Etat ennemi», secondo cui: «Aucune peine collective,

pécuniaire ou autre, ne pourra être édictée contre les populations à raison de faits individuels dont elles ne pourraient être considerées comme solidairement responsables»,

norma recepita nell'art. 65 dell'allegato A (c.d. legge di guerra) al R.d. 8 luglio 1938 n. 1415: «nessuna sanzione collettiva, pecuniaria o di altra specie, può essere inflitta alle popolazioni a causa di fatti individuali, salvoché esse possano esserne ritenute solidamente responsabili». Al processo del 1948 contro Kappler, uno dei responsabili della strage delle Fosse Ardeatine, il tribunale militare rilevò la non applicabilità dell’istituto della repressione collettiva in quanto «Trattasi di una norma eccezionale, la quale opera nel territorio di occupazione quando non si sia giunti a risultati positivi con i normali procedimenti. In sostanza, la responsabilità collettiva può sorgere quando si sia dimostrata impossibile l'individuazione del colpevole o dei colpevoli»180.

Anche secondo il Tribunale supremo militare, nella sentenza del processo al generale Otto Wagener responsabile dell’uccisione nell’isola di Rodi di almeno 46 prigionieri italiani, stabilì che «l'art. 50 ha avuto essenzialmente di mira le pene pecuniarie, pur non escludendo la possibilità che possano essere applicate pene di altra natura, ma non certo quella estrema»181.

180 Tribunale Militare Territoriale di Roma, sentenza n. 631 del 20 luglio 1948,

www.difesa.it/Giustizia_Militare/rassegna/Processi/Nordhorn/Pagine/18Larepressionecollettiva.aspx.

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CONCLUSIONI

Il saggio con cui terminai il corso di laurea triennale aveva come titolo Razzismo e

leggi razziali nell’Italia fascista. Partendo dalle norme «a protezione della razza» imposte

nelle colonie africane dal governo Mussolini, la tesi passava poi a descrivere i processi

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