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I labirintici itinerari della pedagogia della persona dalla prospettiva di Alberto Granese

II Letture critiche di John Dewey: la voce personalista

III. Pragmatisti e pedagogisti laici lettori del personalismo

3.2 I labirintici itinerari della pedagogia della persona dalla prospettiva di Alberto Granese

Alberto Granese, insigne pedagogista italiano contemporaneo, affronta ad ampio raggio i problemi e le sfide emergenti e complesse della pedagogia del primo decennio del XXI secolo, in una prospettiva che è capace di guardare al passato per proiettarsi sul futuro alla luce di una contemporaneità dinamica e articolata nella quale la riflessione sull’educazione necessita di continui aggiornamenti in relazione alle sfide sempre nuove che la società scientifico- tecnologica pone e impone al pensare pedagogico.

Un punto cruciale affrontato dal Granese, punto di partenza e fondamento teoretico per qualsiasi riflessione pedagogica, è la sua concezione della pedagogia e della filosofia dell’educazione, alla luce di una definizione di filosofia come “la riflessività autonomamente dispiegata di un pensare per problemi che si profilano e si propongono secondo necessità”201. Egli, infatti, non intende identificare la teorizzazione pedagogica con la filosofia dell’educazione, ma propone una “pedagogia critica”, distinta da una non bene identificata e, per alcuni aspetti residuale, filosofia dell’educazione, che egli considera disciplina di incerte e recenti origini, senza vera e specifica storia o con una storia più immaginaria che reale. Considerazione che trova riscontro nell’ “indebolimento” del pensiero filosofico, ormai non più in grado di farsi carico dei problemi di sua stretta competenza e che “tanto meno sembra abilitato a farsi carico dei problemi dell’educazione”202.

Sostiene il pedagogista sardo che se la locuzione “filosofia dell’educazione” dovesse far pensare a una delle dépandances che la “casa” della filosofia mette a disposizione dei suoi ospiti più o meno occasionali e graditi, vi sarebbe motivo, per gli stessi filosofi, di esprimere dubbi e perplessità. E se la pedagogia, presentandosi in veste filosofica, volesse ricorrere a una sorta di nobilitante “camouflage”, le ragioni del dubbio e del disaccordo, diverrebbero ancora più forti.

201 Granese A., (2008), La conversazione educativa. Eclisse e rinnovamento della ragione pedagogica, Armando,

Roma, p. 8.

150 L’idea della pedagogia critica, portata avanti da Granese, di porre, in

alternativa alla filosofia dell’educazione e alla pedagogia filosofica, il concetto di “filosofie pedagogiche” corrisponde all’esigenza che, nella seconda metà del secolo scorso si è apertamente manifestata, di conciliare il rigore filosofico (la filosofia “scientifica”, declinata in senso metodologico antispeculativo e antimetafisico), la consapevolezza debolistica dei limiti della razionalità filosofica, e il richiamo di quella intrinseca connessione tra “filia” e “sofia” che è il contrassegno del filosofico assunto in tutta la sua complessità, nella pienezza, originaria e storica, del suo significato.

Nel libro del 2008 La conversazione educativa. Eclisse e rinnovamento della ragione pedagogica, il pedagogista sardo prosegue la sua serrata critica alla filosofia dell’educazione definendola un’entità fittizia, collocata nel catalogo delle discipline accademiche, in una posizione di marginalità e quasi di “apartheid” rispetto alle discipline filosofiche vere e proprie. La categoria della formazione deve essere letta, pertanto, in relazione ai problemi connessi alle nuove configurazioni delle teorie e delle pratiche educative nel teatro di una globalità connotata da prospettive di sviluppo planetario in ciò che attiene ai mutamenti d’ordine economico, civile e culturale, affiancati da contraddizioni e squilibri non facilmente sanabili.

In un’accurata analisi retrospettiva, necessaria e basilare al fine di una globale comprensione delle sfide della presente temperie culturale (stimmung), Granese denuncia come, a partire dal secondo dopoguerra, i pedagogisti italiani, pur con alcune significative eccezioni, abbiano rinunciato a considerarrsi “pensatori” (cioè interessati al medio e al lungo periodo e quindi tentati di astrarsi dal “presente”) e si siano orientati, per “amore di concretezza” e per contribuire a decisioni di governo, alla considerazione dei problemi del breve e brevissimo periodo, trascurando, o abbandonando, quella delle tematiche del medio e lungo periodo. Questa opzione si è tradotta, (cosa che non è avvenuta per altre discipline e tanto meno per quelle scientifiche) in una sfasata e perniciosa distinzione, o separazione, fra il teorico e il pratico, fra l’astratto e il concreto. Ciò ha falsato anche, in molti casi, i rapporti, nella stessa disciplina pedagogica, fra ricerca di base e interessi applicativi. Per di più i pedagogisti, ponendo al centro della loro attenzione i problemi del periodo breve e brevissimo, si sono trovati a competere, in condizione di

151 svantaggio, con gli specialisti delle discipline un tempo considerate “ancelle”

della pedagogia. La perdita delle radici storiche e il disinteresse per il sincronico-tematico, che non è l’immediato del breve periodo, ha nociuto sensibilmente alla disciplina pedagogica impedendole di contribuire all’approfondimento dei temi emersi e dibattuti in ambito filosofico che oggettivamente li riguardavano proprio in quanto pedagogisti.

Si deve osservare che, per il pedagogista cagliaritano, una considerazione critica dei motivi di un pensiero pedagogico evoluto e maturo avrebbe consentito di approfondire il discorso sulla razionalità scientifica e sui suoi limiti, avrebbe favorito una riflessione più significativa circa i rapporti fra i giudizi di fatto e i giudizi di valore, fra le prescrizioni e le descrizioni, fra le strutture, le trasformazioni e i mutamenti, lo statico e dinamico, l’ordine e il disordine (entropia ed entalpia). Avrebbe reso possibile una comprensione più adeguata dei motivi e delle istanze di movimenti come lo strutturalismo, l’ermeneutica, il pragmatismo, la fenomenologia e la neoscolastica203.

Il tentativo di porre in essere una “pedagogia critica”, di cui Granese è un illustre rappresentate e quasi un “padre fondatore”, come egli stesso si definisce, in quanto coordinatore per più di dieci anni un gruppo di ricerca di interesse nazionale che aveva nelle sue insegne proprio questa locuzione, ha contribuito, entro certi limiti, a superare l’impasse e a riequilibrare i rapporti fra le due discipline, ma si deve ribadire che decenni di reciproca e più o meno esplicita delegittimazione, hanno indebolito e impoverito sia la disciplina pedagogica che quella filosofica. Ciò ha avuto come esito un rapporto squilibrato, scompensato e asimmetrico fra le due discipline. Mentre alcuni pedagogisti si richiamavano ai grandi temi della filosofia e interpellavano i rappresentanti e i protagonisti del pensiero filosofico moderno-contemporaneo, raramente i filosofi si sentirono impegnati a un comportamento di reciprocità.

I legami tra le due discipline possono essere riallacciati nei termini di una “nuova alleanza”, la quale, più ancora che come interazione o transazione, (nel senso dell’ultimo Dewey), si configuri e si proponga in termini di “interfecondità”(il termine “interfecondità” ha cittadinanza nell’antropologia fisica e in quella culturale: i soggetti umani sono interfecondi sia

203

Granese A., Filosofie pedagogiche. Ciclo seminariale di specializzazione e di ricerca sull’educazione e sulla

152 biologicamente che culturalmente). L’interfecondità, tuttavia, non è solo un

dato di fatto, ma deve essere perseguita e realizzata. Granese la interpreta come una potenzialità (l’endogamia non giova ai soggetti umani così come non giova alla discipline umanistiche e scientifiche), da sfruttare al fine di una crescita, individuale, collettiva, culturale, nel reciproco riconoscimento che vi sono motivi e problemi di filosofia fondamentale nella pedagogia, così come vi sono problemi di pedagogia fondamentale nella filosofia.

Parlare di pedagogia filosofica, dunque, porta con sé il rischio di accreditare indebitamente l’idea di una pedagogia che opera il già menzionato “camouflage”, vestendo arbitrariamente i panni della filosofia; al rischio opposto ci si espone nel momento in cui, parlando di filosofia dell’educazione, s’incorre nell’obiezione che può esserci una filosofia di ogni cosa e che la filosofia dell’educazione può configurarsi come la già menzionata fattispecie di una “philosophia minor”, quali potrebbero essere una filosofia della produzione industriale, della finanza, del commercio, del turismo ecc.

Si farebbe torto, con questo, sia alla filosofia che alla pedagogia, sicché il parlare di “filosofie pedagogiche” può assumere una valenza riparatrice e di recupero non conservativo di passaggi, momenti e modelli concettuali da ricostruirsi con un’attenta ricognizione storica, associata a un’impegnativa elaborazione teorica. Se una pedagogia separata dalla filosofia risulta gravemente impoverita e indebolita, mortificata e mutilata sul piano culturale, una pedagogia ingenuamente e subordinatamente filosofica si espone a obiezioni insormontabili, all’addebito della “reductio in aliud genus” e a una inevitabile marginalizzazione204.

Non si può non tener presente, inoltre, che la filosofia non è l’unica forma di teorizzazione pedagogica, così come la filosofia della scienza è ben lungi dal poter essere considerata l’unica forma di teorizzazione scientifica. Una teoria scientifica (elaborata nel campo della fisica, della chimica, delle discipline mediche ecc.) non è riconducibile “sic et simpliciter” a una filosofia della scienza, e questo vale anche per una pedagogia che ambisca a definirsi scientifica, nei termini di una scienza dell’educazione.

153 Alberto Granese cita John Dewey per dimostrare, con un esempio

concreto, che il pedagogista statunitense non ha praticato una filosofia dell’educazione, né ha proposto modelli di pedagogia filosofica. Si è occupato autorevolmente di problemi pedagogici ed è stato un pedagogista di valore e statura universalmente riconosciuti, ma le sue teorizzazioni (da Scuola e Società, al Mio credo pedagogico, a Democrazia e educazione) non possono essere considerate modelli di filosofia dell’educazione o di pedagogia filosofica. Molto significativamente Dewey ha voluto distinguere, nelle sue opere più importanti (dalla Ricerca della certezza a Natura e condotta dell’uomo, alla Logica, teoria dell’indagine) tra il “filosofico” e il “pedagogico”, evitando le commistioni teoriche derivanti dai concetti di pedagogia filosofica e di filosofia dell’educazione205.

Il presupposto della non riducibilità della filosofia alla pedagogia o della pedagogia alla filosofia è, dunque, irrinunciabile.

Ciò che è fondamentale promuovere è l’esplicitazione delle pedagogie implicite nei modelli filosofici, sul presupposto che filosofia e pedagogia sono forme distinte di teorizzazione delle quali, quella pedagogica attiene direttamente ai problemi e ai modi dell’agire formativo, mentre l’altra offre, o mette a disposizione del pedagogista elementi della propria autonoma teorizzazione utili a garantire un miglior fondamento dell’altrettanto autonoma teorizzazione pedagogica. Da ciò si evince che il problema educativo non è affrontabile riduttivamente come un problema filosofico o scientifico.

In molti casi, il riferimento della pedagogia alla filosofia si concreta nella ricerca del fondamento epistemologico del pensare e del teorizzare pedagogico, mentre si trascura di rilevare e di analizzare la già menzionata valenza pedagogica dei modelli di pensiero filosofico e quindi di individuare per un verso le filosofie pedagogiche e per l’altro di accertare quali contributi all’autonoma teorizzazione pedagogica (che deve riferirsi alle concrete pratiche di formazione) esse possano offrire206.

205

Granese A., Riflessione integrativa sul progetto seminariale “Pensiero filosofico, sapere pedagogico. Seminario di

Specializzazione e di Ricerca sull’Educazione e sulla Formazione. Un confronto tra Filosofia, Scienze Umane e Pratica Educativa”, Roma, Febbraio – Giugno 2014.

206

154 La post-modernità, ritiene Alberto Granese, richiede un

oltrepassamento della pedagogia tradizionale, greco-europea e più generalmente occidentale, dei suoi paradigmi e pratiche corrispondenti, per inserire la pedagogia in un’ottica planetaria, con uno sguardo, però, che sia sempre retrospettivo da un lato, e prospettico dall’altro.

La scienza contemporanea, nelle sue specificazioni e specializzazioni, sembra eccedere irriducibilmente il sapere filosofico, anche se resta alla filosofia, forse più come pretesa che come capacità effettiva ed effettivamente riconosciuta, una possibilità di comprensione e di inclusione della scientificità positiva: complessi e dall’origine lontana, dunque, i rapporti tra pedagogia filosofica e pedagogia scientifica.

Interessante e ricco di spunti critici è il riferimento che Granese fa al pensiero teologico, poco frequentato da filosofi e pedagogisti, e spesso giudicato incompatibile con altre modalità di approccio alle realtà “ultime e penultime”, come le definisce lo stesso Granese riprendendo un’espressione di Bonhöffer. La teologia, infatti, continua il professore di Cagliari, sembra allontanare dal pensiero critico, sviluppandosi su presupposti di affidamento fideistico e poco attendibile come disciplina teorica, tale comunque da privilegiare un pedagogismo catechistico rispetto ad una pedagogicità critico- concettuale. In parte e fino ad un certo punto il pensiero critico si è presentato con un programma di liquidazione della metafisica, considerata non-critica per definizione; in altra parte, e in altra fase, la metafisica è stata rimessa in gioco e riconsiderata come presupposto ed esercizio del pensiero critico. Teorizzazioni recenti della razionalità e dei suoi limiti hanno mostrato con chiarezza a quali variazioni sia esposta la nozione di pensiero critico e quali reversioni di prospettiva e veri e propri capovolgimenti e ritorsioni siano possibili in questo campo. All’esercizio programmato e metodico della razionalità si è spesso venuta alternando e talvolta contrapponendo, evidenzia Granese, la critica della razionalità, ambito nel quale la riflessione e la letteratura teologica, praticamente ignorate per una pretesa laicità, soprattutto in Italia, possono offrire una rappresentazione problematica, non condizionata da opzioni di tipo fideistico.

Nella visione di Granese, la pedagogia potrebbe reagire alla crisi della razionalità classica restaurando e riabilitando la stessa razionalità scientifica,

155 evidenziando il vantaggio che la scienza, anche sperimentale, empirica,

ipotetico – deduttiva potrebbe ricavare dal riconoscimento della sua valenza e della sua funzione pedagogica, non solo in senso lato, ma strutturalmente come pratica di formazione e servizio reso sul terreno delle pratiche umane generalmente configurate207. Da tale esigenza emerge la necessità di decostruire o de-ontologizzare la distanza tra teoria e pratica, le quali non sono entità, territori o ambiti precisamente delimitabili, in quanto il teorizzare è, per un verso, un “modus” dell’agire, anche semplicemente dell’ “accadere” formativo, e per l’altro è proprio dell’agire formativo, nella sua complessità universalizzante, offrire di volta in volta la chiave di decodificazione del teorico in termini di prassi (Granese sottolinea come anche nella concezione teologica si assiste alla priorità del Verbo, la cui diffusione universale non è un fatto cognitivistico o cognitivo, ma peculiarmente pratico – soteriologico: “Diligere est major deiformatio quam intelligere” secondo la citazione che Granese fa del francescano Consalvo di Balboa, a cui il mistico Eckart obiettava che si è graditi a Dio proprio in virtù del sapere: “aliquis praecise est Deo gratus quia sciens”)208.

Ovviamente nel pensiero di Granese il ripensamento della razionalità non può in alcun modo tradursi in una rinuncia mistico-irrazionale dell’esercizio del pensiero critico. Se da un lato è necessario un disconoscimento del carattere ultimo e finale della criticità e della conoscenza, dall’altro è altrettanto fondamentale sottolineare l’esigenza di un illimitato affidamento e incremento di queste due fondamentali “potenze del fare”, tenendo presente, però, il primato della cura sulla conoscenza e dell’uomo inteso come fine. Interessante è, a questo punto, la relazione che Granese intreccia tra l’atto di fede e il pensiero critico: il “credere per comprendere”, al quale si può polemicamente contrapporre il “valutare e soppesare con accuratezza e prudenza prima di assumere una decisione”, non esclude, anzi implica l’esercizio della critica. Se l’opzione di fede non esclude la critica e allo stesso tempo la fede non è mai il risultato garantito dell’esercizio della critica, la connessione tra le due è sottile e troppe volte trascurata: spingere la critica fino al punto di criticare la fede come atteggiamento acritico significa

207

Ibidem, pp. 28 – 29.

156 non riconoscere che la fede, già per definizione, riposa su un a-priori di

intelligenza precritica, non avendo logicamente diritto di chiamarsi fede il credere ad una evidenza conseguita per via dimostrativa. Bisogna ricordare, inoltre, che alle origini della pedagogia moderna e contemporanea si collocano posizioni teoriche che rimandano ai trascendentalisti americani come R. W. Emerson e a James e Pierce, precursori del pragmatismo.

Per Alberto Granese lo specifico della pedagogia sta nel suo cuore critico-radicale che orienta in termini “trascendentali” gli altri saperi e che intende districarsi attraverso procedimenti ermeneutici nel “labirinto” della pedagogia e nella “porta stretta” dell’educazione. Secondo Granese la metafora del labirinto vuole essere concepita come:

“metafora della conoscibilità condizionata, con l’orgoglio e il sentimento di sfida dell’Ulisse dantesco, con l’umiltà ambivalente e sdegnosa di un Lessing, o come riconoscimento di uno scarto della ragione finita rispetto alle certezze proclamate al di fuori della verificabilità mondana e appunto per questo proposte come contenuti di verità indubitabile”209.

Le metafore del labirinto e della porta stretta sono complementari, ma differenti:

“La figura del labirinto è per molti aspetti tipicamente post-moderna, mentre quella della porta stretta offre indicazioni di ripensamento critico della cosiddetta post- modernità in cui una pedagogia radicale può riuscire utile a far chiarezza” – perché questa teoreticità serve a segnalare – “vizi ed equivoci della filosofia di ispirazione postmoderna richiamando linee di meditazione filosofica lungo le quali le ambivalenze della modernità e quelle delle argomentazioni prodotte in vista del suo superamento, al fine di delimitarlo, appaiono evidenti”210.

Collocato sul versante laico, ma in un’ottica di approfondimento dei diversi contesti in cui l’idea personalista ha preso corpo e delle oscillazioni di interpretazione e di significato a cui ha dato luogo, Alberto Granese sottolinea la particolare rilevanza che la tematica assume nell’ambito dell’educazione e

209

Granese A., (1993), Il labirinto e la porta stretta. Saggio di pedagogia critica, La Nuova Italia, Firenze, p. 26.

157 della pedagogia: “il nodo problematico del personalismo” è di natura

pedagogica, e se correttamente e non restrittivamente inteso, il problema della persona si caratterizza come il problema pedagogico per eccellenza e anche come il problema filosofico per eccellenza211.

Come l’autore ha affermato nel suo volume Il labirinto e la porta stretta del 1993, l’esistenza di un personalismo pedagogico non è solo il frutto dell’applicazione alla pedagogia del personalismo più generalmente inteso, ma è la base di una seria analisi, filosofica e scientifica, del problema della persona.212

In questa analisi la persona è individuata come:

“il luogo di conversione degli eventi in azioni, l’ambito insondabile in cui si compie la trasmutazione di ciò che è dato in ciò che è scelto, voluto, assunto come proprio […]. È intrinseco alla persona costituirsi attraverso l’educazione. Qualcosa viene fatto con la coltivazione e la cura che concreta e testimonia una dipendenza, ma ciò che l’educazione consegue deve tradursi in una libera e consapevole autodeterminazione […]. In mancanza di questa trasvalutazione non si dà persona né educazione, e quindi le due cose stanno e vanno insieme: solo ciò che è persona è propriamente educabile, solo ciò che è educabile […] è propriamente persona”213.

Quanto Granese sostiene in merito alla specificità del personalismo pedagogico è inquadrato in una prospettiva volta a distinguere i cosiddetti “itinerari del pensiero personalistico”, i diversi modi di intendere e di affermare o no una teoria della persona assunta come centro teorico o pratico, tematica intorno alla quale “il pensiero moderno contemporaneo occidentale […] si è sbizzarrito […] tanto da creare una sorta di labirinto di percorsi in cui è facile smarrirsi e un groviglio di posizioni in cui è difficile districarsi”214.

Nella reinterpretazione attuata dall’autore è posta in evidenza la differenza tra personalismo cristiano e personalismi non cristiani laddove si riconosce che, nel primo, la persona ha il proprio “vincolo” con la trascendenza

211Granese A., (1994), Il concetto di persona in filosofia e pedagogia, in G. Flores D’Arcais (a cura di), Pedagogie

personalistiche e/o pedagogia della persona, La Scuola, Brescia, pp.170-171.

212 Granese A., (1993), Il labirinto e la porta stretta, La Nuova Italia, Firenze, p. 224. 213

Ibidem, p. 245.

158 e che, pertanto, da un punto di vista cristiano, il concetto di persona è

inscindibile dalla creaturalità e dalla dipendenza.

Nell’ottica di Granese non solo non c’è coincidenza tra individualismo e personalismo, ma i principi delle tesi personalistiche sono per molti aspetti l’esatto contrario dell’idea liberale di libertà dell’individuo. Il carattere del personalismo cristiano, in particolare, è quello di essere vincolante, al punto da fare della persona “un presidio di resistenza”, non solo per la sua intrinseca irriducibilità, ma anche, e soprattutto, per la sua creaturalità e dipendenza agapica dal Dio Creatore.

L’ammissione che vi sia “qualcosa di molto più sostanziale” che fonda la persona traspare anche dalla rilevazione che ciò che accade nell’uomo, anche educativamente, non è l’uomo, così come non lo è ciò che materialmente costituisce l’uomo. Potremmo dire, con Granese, che cervello, sistema nervoso periferico, sistema endocrino ecc. costituiscono l’uomo, ma non la persona umana, e bisognerebbe indagare le ragioni per cui è grammaticalmente ammissibile dire “persona umana”, quasi che potesse esservi una persona non- umana o che l’uomo non fosse necessariamente “ex vi termini” persona 215.

Questa sottolineatura da parte della pedagogia laica può essere interpretata in termini di riconoscimento di una componente di specificità e di particolarità della persona che sfugge alla considerazione e all’indagine condotta esclusivamente sulla base della realtà naturale. Si tratta di una sorta di “rivendicazione” di una specificità personale che va al di là di ogni schematica