• Non ci sono risultati.

CORPO E IDENTITÀ: ALIENI IN MUTAZIONE

1. Lamerica: “mediazione”, immaginario, visibilità

L’idea di Appadurai di “sfera pubblica diasporica” può essere particolarmente utile per comprendere la rappresentazione che viene fatta in Lamerica di alcuni aspetti della realtà albanese e del suo modo di relazionarsi a quella italiana. Il film di Amelio, infatti, permette di analizzare il funzionamento della creazione di un immaginario comune tramite i mass media al di fuori delle frontiere nazionali; ma, contemporaneamente, il sogno degli albanesi non si configura secondo l’economia relazionale della mimicry, ovvero di una identificazione legata alla consapevolezza del contesto coloniale102. Al contrario, il film scava nei sogni di tutti i suoi personaggi, compresi gli

“italiani”, dimostrando quanto siano inconsistenti le definizioni nazionali dell’identità e come sia facile invece scivolare da una “realtà” a un’altra.

Lamerica propone uno sguardo problematico sui primi giorni che seguirono l’apertura delle

frontiere albanesi, con lo scoppio di sommosse popolari e le conseguenti ondate di profughi che raggiunsero le coste italiane. Già i titoli di testa introducono una visione complessa della realtà: uno schermo nello schermo mostra infatti un cinegiornale Luce sull’”unione” fra l’Albania e l’Italia fascista, contestualizzando la contemporaneità attraverso le velleità coloniali dell’Impero fascista. Nelle parole del commentatore del cinegiornale, sulle immagini di folle inneggianti ai soldati che accompagnano il Ministro degli Esteri Ciano in parata, viene subito proposta la tematica della penetrazione della cultura italiana nella realtà albanese come elemento di salvezza: “Finalmente, per merito dell’Italia, tra la pura e gagliarda gente d’Albania entra la civiltà”.

Dopo questo prologo che accompagna i titoli di testa, il film risulta diviso in tre parti, di

durata diversa. La prima parte comprende l’arrivo di Fiore (Michele Placido) e Gino (Enrico Lo Verso) nell’Albania del 1991, e i loro tentativi di impiantare una finta fabbrica di scarpe tramite la società Albacalzature per intascare le sovvenzioni statali e lasciare ricadere la responsabilità su un “presidente” prestanome. La seconda parte vede il viaggio di Gino alla ricerca di Spiro (Carmelo Di Mazzarelli), l’anziano prestanome che si è allontanato “per tornare a casa”, e il tentativo di riportarlo a Tirana. L’ultima parte vede Gino ormai abbandonato da Fiore, con tutti i suoi beni sequestrati dalla polizia albanese (che ha scoperto il tentativo di truffa e corruzione), riuscire infine ad imbarcarsi con altri profughi e lo stesso Spiro/Michele alla volta dell’Italia.

La prima parte del film ha come principale protagonista Fiore, uomo avido e paternalista, che fin dal viaggio in jeep da Durazzo a Tirana impone la propria personalità, più attraverso il dialogo e la voce volgare e arrogante che attraverso l’immagine (la macchina da presa cerca infatti di mantenere un certo equilibrio fra i due italiani). L’uomo rifiuta ogni contatto che non sia superficiale con la realtà albanese e la sua popolazione, e lo spettatore si trova spesso al suo fianco, portato a percepire il suo fastidio per lo spreco di forze e di terreno ma anche per l’apparente stupidità dell’intero popolo albanese; questo, infatti, viene considerato da Fiore un insieme di uomini che non sanno affrontare la vita – perché non sanno come arricchirsi – e pensano che l’Italia sia “il mondo”, ovvero presenti tutte le opportunità di felicità e ricchezza che la loro quotidianità non può offrire, come afferma il loro slogan fuori dal porto di Durazzo. Fiore però pensa di saper usare tanto bene l’oratoria da ingannare coloro che considera “bambini”, e le sue parole roboanti e vuote e il tono sicuro ricordano da vicino il commentatore del cinegiornale fascista che ha accompagnato i titoli di testa. Il suo comportamento si conforma quindi all’atteggiamento coloniale più elementare, secondo il quale l’identità è legata all’appartenenza a un “popolo” ed è fissa e statica; e l’”altro” non può che essere “inferiore”, e di conseguenza malleabile ma anche pericoloso perché “incivile”.

La sua ignoranza, ma anche la vulnerabilità che ne deriva, viene esposta nella quarta sequenza, ambientata in una vecchia prigione politica in cui sono andati a cercare il prestanome. Accompagnati da Selimi, Gino e Fiore seguono un uomo che sembra occuparsi della prigione, anche se i prigionieri sono ormai stati rilasciati. La fotografia scura (sui toni del nero, del grigio e del marrone) e i movimenti sinuosi della Steadicam che segue i personaggi nelle camerate sudice ripropongono la sensazione di asfissia di Fiore, che non sopporta il contatto fisico con quegli uomini sporchi e segnati dalla fatica, che alla fine della sequenza lo circonderanno come volessero aggredirlo, senza che egli possa capire le loro richieste o farsi comprendere a sua volta. La breve

scena è costruita come l’attacco degli zombie in un film dell’orrore, con tanto di mormorio incomprensibile sovrastato dalle urla di Fiore, e con la sua mano che si solleva a chiedere aiuto mentre viene sommerso dal gruppo di uomini. Costruita in modo tanto esplicito, ovviamente, la scena da un lato denuncia il pregiudizio di Fiore, che vede questi anziani resi “inutili” da anni di maltrattamenti come morti viventi, fisicamente attivi ma privi di emozioni umane; dall’altro, ne mostra la vulnerabilità nel momento in cui viene lasciato solo, ponendo lo spettatore al suo fianco, per fargli provare il suo stesso senso di orrore e di soffocamento.

Questo è l’unico momento in cui il dominio di Fiore è messo esplicitamente in discussione; ma proprio a partire da questa scena il film inizia a privilegiare visivamente il personaggio di Gino, fino a lasciarlo protagonista della seconda e soprattutto della terza parte. Fiore, infatti, è posto nella narrazione perché le sue dinamiche colonialiste con gli uomini che incontra possano essere messe in relazione con quelle di Gino. Il giovane ha preso il posto del padre nella società con Fiore, ma i due non sono mai alla pari. Evidentemente Fiore si ritiene il più esperto e capace, e considera Gino un subordinato, una sorta di apprendista a cui insegnare le verità della vita dell’uomo d’affari. Ed effettivamente Gino, nonostante sia aggressivo e arrogante a sua volta, non è adatto a svolgere il ruolo che ha ereditato. A differenza di suo padre, ha troppi scrupoli, sia morali che legali: da un lato convince Fiore a prendere il vecchio detenuto politico Spiro come presidente, perché, dice, “Che lo lasciamo qua?!”; dall’altro teme che arrivino dei controlli nell’edificio diroccato che Fiore ha scelto come fabbrica e che scoprano la truffa.

Ma soprattutto, Gino si mostra di quando in quando prudentemente curioso di conoscere qualcosa della realtà in cui lui e Fiore sono finiti. Diffidente, udiamo la sua voce per la prima volta quando chiede a Selimi chi sia a comandare in Albania in quel momento. In seguito, la sua prima mezza figura stretta ci viene mostrata all’ingresso del lussuoso albergo di Tirana che Selimi ha scelto per lui e Fiore; Gino si ferma stupito quando scopre che stanno trasmettendo una rete televisiva italiana, e nel controcampo ci viene mostrato un programma di intrattenimento pomeridiano, con ragazze in abiti succinti e sgargianti che cantano una canzone allegra e sdolcinata. Per tutto il film, sarà il giovane ad ascoltare alternativamente canzoni popolari albanesi e italiane, e ad essere talvolta accompagnato nel suo viaggio dall’audio o dalle immagini dei programmi televisivi italiani. In questo modo, Gino diviene il punto di contatto fra la cultura popolare italiana e il modo in cui viene affrontata dai personaggi albanesi, sottolineando con il proprio sguardo e la propria posizione le problematiche della rappresentazione univoca e statica di una qualunque “realtà”.

L’aspetto più interessante del film si rivela quando Gino sarà costretto a viaggiare alla ricerca di Spiro, fuggito dall’istituto religioso che Fiore aveva scelto come suo alloggio. In poche sequenze, infatti, Gino scoprirà che Spiro è in realtà Michele Talarico, soldato e disertore siciliano convinto di avere vent’anni e che sia ancora in corso la seconda Guerra Mondiale. In un gioco di rispecchiamenti, le fantasie di Michele saranno vissute da Gino alla stessa stregua di quelle dei giovani albanesi in viaggio verso l’Italia che incontra lungo il suo cammino. Rifiuto, diffidenza, fastidio, ma anche compassione, dipendenza, umanità segneranno i suoi rapporti con tutti gli uomini rappresentati in questo film quasi esclusivamente maschile, con cui Gino è costretto a condividere l’intimità e la visibilità forzata della povertà. Per una serie di vicende, infatti, il giovane si troverà senza jeep, in una terra del tutto sconosciuta, con un anziano che teme che la milizia fascista lo arresti per diserzione, con cui deve tornare a Tirana perché firmi i documenti necessari per l’Albacalzature. La seconda e la terza parte del film, dunque, si configurano come un road movie in cui la paura e la rabbia hanno la meglio sull’avventura, ponendo lo spettatore al di fuori di ogni possibile esotismo nei confronti della ostile realtà albanese. La povertà degli uomini rappresentati viene esposta senza pietà, a sottolineare quello che Appadurai ha definito il “surplus of visibility”103

a cui sono condannati i poveri e i senzatetto. Il teorico fa riferimento in particolare a una metropoli come Bombay, ma la sua analisi sui corpi dei poveri come “social dirt”, sito di concentrazione di immagini di paura, inquinamento, pericolo e sporcizia104 può essere utilizzata anche per il modo in

cui viene mostrata la realtà albanese in Lamerica. Ma mentre Appadurai fa riferimento a questi corpi come oggetto dello sguardo disgustato di quei cittadini che hanno invece diritto all’invisibilità, garantita ad esempio dalle mura domestiche, questo film non si limita a spiare i corpi dei poveri, a renderli oggetto dello sguardo di Gino o dello spettatore.

Le ultime inquadrature, infatti, ambientate come abbiamo detto su un barcone carico di profughi in fuga verso l’Italia, propongono una serie di primi piani di uomini, donne e bambini che guardano direttamente in macchina, restituendoci lo sguardo. In questo modo lo spettatore non solo viene coinvolto umanamente nella loro vicenda, cosa a cui era stato preparato dal percorso di formazione che Gino compie nel suo viaggio, ma soprattutto viene fatto a sua volta oggetto di quello sguardo. Questi corpi di poveri, di profughi, di illusi non chiedono scusa per la loro esistenza, non cercano inutilmente di sottrarsi all’eccesso di visibilità cui sono costretti, ma interpellano direttamente lo spettatore, sfidandolo a giudicarli, chiedendogli di guardare oltre

103 Arjun Appadurai, Illusion of Permanence. Interview with Arjun Appadurai by Perspecta 34, 14 luglio 2002,

«Perspecta 34», giugno 2003; “The Politics of the Visible”, pp. 49-50. Reperibile sul sito www.appadurai.com, ultimo accesso luglio 2008.

l’apparenza stessa della povertà. In questo senso, le ultime inquadrature di Lamerica si avvicinano alle posizioni del performative documentary di cui ha parlato Bill Nichols, in cui l’elaborazione linguistica e formale permette sia di mettere in discussione il “legame indexicale” fra immagine e “realtà”, sia di sottolineare la posizione “etica” e “affettiva” necessaria allo spettatore per evitare di riproporre il rapporto di molto cinema fra “dominante/che guarda” e “dominato/che è guardato”105.

La costruzione di queste inquadrature inoltre getta una nuova luce sull’intero film, creando una sorta di percorso per lo sguardo spettatoriale che va dalla posizione colonialista di Fiore, alla messa in discussione di questa posizione tramite le contraddizioni di Gino fra adesione emotiva e arroganza, per giungere alla consapevolezza dell’impossibilità di identificarsi completamente con la povertà dei profughi tramite uno sguardo in macchina che ripristina la distanza ma propone anche una reciprocità etica ed affettiva fra le differenze106.

Le persone rappresentate in queste inquadrature si fanno portatrici dello stesso immaginario a cui fanno riferimento i giovani che nel corso del film cercano di entrare in contatto con Gino perché confermi i loro sogni di speranza, costruiti su anni di visione (per lo più clandestina) della televisione italiana e di ascolto delle sue canzoni più popolari. Sono gli stessi uomini che incontra sul camion sovraccarico che lo porterà a Tirana, uomini giovani e affamati, che vogliono credere di poter diventare ricchi calciatori, o di poter almeno vivere in case con l’acqua corrente e il telefono, sposati a donne italiane, con figli a cui parlano solo in italiano, in modo che tutti dimentichino che sono albanesi. Quando Gino, irritato dalla loro apparente ingenuità, risponde che l’Italia non ha posto per loro, dimostrano di non essere affatto illusi come si potrebbe credere dalle loro dichiarazioni: “Meglio lavapiatti in Italia che fame in Albania”, dice uno di loro, la cui amara affermazione sarà confermata dalla morte per fame di uno dei passeggeri del camion. Anche se questi giovani cantano Un italiano vero, sono perfettamente consapevoli che non sarà facile trovare un nuovo posto nel mondo. Ma detestano tanto la loro terra, quella sorta di prigione in cui sono stati costretti, privi di contatti col mondo esterno che non fossero prima vagliati e modificati dallo Stato, che non resistono alla tentazione di sentirsi liberi e padroni del proprio destino, come le persone che vedono tentare la fortuna nei quiz a premi della televisione italiana. Infatti,

dove l’isolamento dal mondo sembra avere successo e dove il ruolo dell’immaginazione globale è negato alla

105 Per la posizione di Bill Nichols cfr. Veronica Pravadelli, Performance, Rewriting, Identity, cit., in particolare pp.

95-99 e 215-216.

106 In questo senso, la reciprocità dello sguardo può essere collegata con le posizioni di Emmanuel Lévinas sul

rapporto con l’Altro di cui parlerò nel terzo capitolo; cfr. Veronica Pravadelli, Performance, Rewriting, Identity, cit., p. 216.

gente comune (in posti come l’Albania, la Corea del Nord e la Birmania), quel che sembra emergere è piuttosto un bizzarro realismo di stato, che contiene sempre in sé (…) i desideri a lungo repressi di critica e fuga, come sta succedendo in Albania107.

Il film dunque presenta diversi livelli di immaginario che si intrecciano in una serie di dinamiche complesse rappresentate sia dal linguaggio verbale che da quello cinematografico. Ai due estremi potremmo dire di avere da un lato Fiore e Selimi, puliti, ordinati, scaltri, grandi oratori, tanto arroganti da non poter essere un punto di riferimento o comunque figure paterne; dall’altro gli anonimi mendicanti e i manifestanti, sempre uomini, sporchi e fastidiosi, spesso più spietati dello stesso Fiore, anche se le loro azioni potrebbero essere più comprensibili (pensiamo ai bambini che aggrediscono Michele per rubargli le scarpe), che non cercano tanto di comunicare quanto di sopravvivere. A livelli intermedi si collocano Gino, Michele e i giovani albanesi privi di nome ma non di carattere che incontrano nel loro viaggio.

È su questi personaggi che si gioca il concetto di identità personale e nazionalità. Gino infatti insiste continuamente sul suo essere “italiano” come elemento di differenziazione rispetto a chi lo circonda, oltre che per sfuggire alla polizia. Ma nel corso del suo viaggio, sarà sempre più legato visivamente agli uomini che incontra, finché nelle ultime inquadrature sarà indistinguibile dalla folla attorno a lui. Uno dei momenti che segnano la transizione fisica di Gino è il viaggio sul camion sovraffollato verso Tirana; privati di ogni intimità e schiacciati fra quei corpi, i due italiani divengono sempre più sporchi e laceri, e se la macchina da presa non li privilegiasse, lo spettatore non sarebbe in grado di distinguerli dal gruppo. In questo senso divengono fondamentali le inquadrature in cui alcuni giovani albanesi indossano a turno gli occhiali da sole di Gino per pavoneggiarsi con quel bene di lusso: non solo la merce perde così il proprio senso di status symbol, visto il contesto in cui viene utilizzata; ma anche Gino, spogliato di quel simbolo, inizia a perdere il senso della propria “diversità”, almeno agli occhi dello spettatore. I segni della ricchezza si rivelano giocattoli, travestimenti che possono essere scambiati, mostrando la costruzione dell’”italianità” di Gino soprattutto in funzione della struttura sociale in cui è inserito, ovvero in funzione di una sua ipotetica ricchezza economica rispetto agli altri.

Al contrario, Michele non vede alcuna differenza fra sé e i giovani albanesi, convinto che siano tutti soldati italiani che viaggiano a guerra finita per tornare a casa; basti pensare ai suoi tentativi di conversazione con il giovane che di lì a poco morirà di fame, il quale prima è ostile, ma poi gli rivela che sta andando a prendere una nave. Per Michele prendere una nave vicino Napoli (è

lì che Gino gli ha detto che sono diretti) significa solo una cosa: salpare per l’America, grande terra di ricchezza in cui c’è posto per tutti, ed è ciò che continuerà a credere fino alla fine del film. In questo modo, non solo l’Italia e l’America immaginate dai migranti si sovrappongono, ma soprattutto si mostra il meccanismo che ha portato intere generazioni di uomini ad emigrare: il sogno di una vita di ricchezza trasmesso dalla cultura popolare, dai racconti che di quei luoghi venivano fatti (dalle lettere come dalle canzoni, dalla radio, dal cinema, dalla televisione – che in questo contesto diviene un cinema piccolo, come dice Michele).

D’altra parte, come ha sottolineato sempre Appadurai, per le classi sociali più povere la mobilità e la diaspora non sono tanto una scelta soggettiva quanto realtà di cui le persone sono oggetto, anche se i nuovi mezzi di comunicazione offrono due possibilità contemporaneamente: da un lato, permettono di creare comunità indipendentemente dalle distanze fisiche dei loro componenti; dall’altro, permettono di immaginare posti nuovi verso cui spostarsi, realtà diverse in cui costruire nuove comunità: “per gli emigranti, sia le pratiche di adattamento a nuovi ambienti sia l’impulso a muoversi o a tornare sono fortemente influenzati da un immaginario mass-mediatico che spesso travalica lo spazio nazionale”108.

Di conseguenza, il sogno americano di Michele e dei suoi parenti nel passato e il sogno italiano dei giovani albanesi sono accostati, ma al contempo tenuti distinti: Michele sa che per andare in America c’è bisogno di denaro, come dice al moribondo sul camion, e sa anche che per quanto l’America sia grande e ricca le cose non sono facili; anche i giovani albanesi che parlano con Gino sanno che dovranno lavorare, ma sembrano volersi convincere che basti superare la traversata per continuare a sopravvivere, che sicuramente troveranno un lavoro e non avranno bisogno di avere con sé del denaro. L’Italia consumistica riflessa nei programmi televisivi (basti pensare al programma che viene mostrato nel bar in cui Gino va a cercare del cibo, OK, il prezzo è

giusto, quiz a premi in cui i concorrenti dovevano indovinare il prezzo dei beni per poterli vincere)

attira come una calamita dei giovani cresciuti nella chiusura di una dittatura comunista, rendendoli capaci di passare sopra alla disoccupazione, alla miseria, alla corruzione che fanno parte anche della realtà italiana. Come scrive Stuart Hall, in un saggio che riflette fra l’altro sull’idea di “cultura popolare”,

Il ruolo del “popolare” nella cultura popolare è di fissare l’autenticità delle forme popolari, di radicare queste forme nelle esperienze di quelle comunità da cui traggono la loro forza, di consentirci di considerarle come espressioni di una vita sociale subordinata particolare che resiste al suo essere permanentemente (ri)creata

come bassa e come esterna.

Tuttavia, nel momento in cui la cultura popolare diviene storicamente la forma dominante della cultura globale si costituisce anche come lo scenario, par excellence, della mercificazione e di quelle industrie dove la cultura entra direttamente nei circuiti della tecnologia dominante: i circuiti del potere e del capitale. È questo lo spazio dell’omologazione, quello in cui lo stereotipo e la ripetizione meccanica elaborano spietatamente il materiale e le esperienze che esso attira nella sua rete, dove il controllo sulle narrazioni e sulle rappresentazioni passa nelle mani delle burocrazie culturali consolidate, a volte senza un sussurro.109