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La sposa turca: i limiti e i rischi di fallimento dell’identità rizomatica

FAMIGLIA E COMUNITÀ: RETI E CIRCOL

1. La sposa turca: i limiti e i rischi di fallimento dell’identità rizomatica

Fin dal prologo, La sposa turca si pone come un film dall’identità molteplice. La lingua del titolo e gran parte delle case di produzione, infatti, sono legate alla Germania, ma la prima inquadratura che vediamo è quella di un’orchestra, in campo medio su una spiaggia, con alle spalle il panorama di Istanbul. Quello dell’orchestra è un elemento fondamentale nella costruzione del film, dal momento che si pone come esplicita punteggiatura all’interno della narrazione; inoltre, le canzoni utilizzate e la scarsa gestualità dei musicisti e della cantante, che sembrano raccontare una storia già vissuta, un fato già scritto, li configurano come narratori intradiegetici della storia che ci viene proposta. Ma due sono gli elementi della canzone immediatamente eccedenti rispetto alla linearità dei legami narrativi: il fatto che la storia sia raccontata da un punto di vista femminile, e che parli del dolore di un amore non corrisposto218. In questo modo, infatti, il prologo si scontra con la prima sequenza del

film, che termina con una dissolvenza al nero (quasi a fare da secondo prologo) e che è ambientata ad Amburgo, vede l’uso di una canzone post-punk (I Feel You del gruppo inglese Depeche Mode) e ha per protagonista un uomo, Cahit (Birol Ünel).

Tramite questo doppio prologo, dunque, il film propone una serie di elementi interessanti, primo fra tutti lo “scontro” fra Turchia e Germania, apparentemente basato su una dialettica binaria ed oppositiva: da un lato il femminile, il sentimento, l’immobilità (che troviamo nell’uso della macchina fissa e nei pochi gesti di coloro che sono inquadrati), la luce, l’ampiezza del paesaggio, la musica popolare tradizionale; dall’altro il maschile, l’incapacità di esprimere le emozioni, la violenza, il buio, gli ambienti chiusi (persino una delle inquadrature più lunghe in automobile è

ambientata in un tunnel), la musica contemporanea “trasgressiva” ed “elitaria” (quel tipo di post- punk ha successo solo in alcune aree del Nord Europa e solo presso alcuni gruppi culturali). Ma, persino in questo dualismo, ci sono degli elementi che devono farci dubitare di una opposizione netta fra queste due realtà: da un lato, il fatto che l’orchestra della prima inquadratura non è turca e neppure tradizionale, bensì si tratta di una famosa orchestra romena diretta da Selim Sesler219;

dall’altro, gli incontri, sia pure infruttuosi, di Cahit prima con Seref (Güven Kiraç) e poi con Maren (Catrin Striebeck), che segnalano come l’uomo non sia necessariamente solo e incapace di esprimere emozioni, ma al contrario è stato in grado di istituire dei rapporti di amicizia.

Inoltre, questa ipotetica opposizione istituisce un importante precedente che darà vita alla struttura stessa del film, ovvero la continua oscillazione fra inquadrature distanziate, statiche, di lunga durata, con i personaggi in posizioni attentamente coreografate, e inquadrature brevi, ravvicinate, unite da un montaggio ricco di jump cuts (e talvolta anche di freeze frames), che raffigurano i personaggi mentre si muovono in modo scomposto. Questa dicotomia non vede però un’alternanza costante fra i due tipi di approccio, che anzi sono persino compresenti all’interno di una stessa sequenza; e, come vedremo meglio in seguito, è legata alla veicolazione di un certo tipo di costruzione narrativa. In altre parole, la presenza di un montaggio frammentato è legata a quei picchi emotivi che sono l’irrazionale motore della storia, e determinano una narrazione sempre più caotica e priva di causalità (basti pensare alla serie di mezze figure e primi piani di Cahit che balla in modo folle nel momento in cui si scopre innamorato di Sibel, poche sequenze prima che questi uccida Niko).

In questo modo, le dinamiche visive ed emotive del film riflettono in modo consapevole il caos che connota i movimenti identitari della protagonista, rizoma sperduto in un mondo di radici che la costringono, la martirizzano, la fermano e cercano di ricondurla alla crescita in un’unica direzione, quella della profondità. Ritengo che questa sia una delle prospettive più interessanti da cui guardare ad un film molto discusso, che è stato ritenuto una sorta di manifesto delle nuove generazioni tedesche di origine turca, e le cui posizioni sono state ampiamente dibattute (soprattutto, ci si è chiesto se sia “conservatore” o “trasgressivo”)220. Quello che mi propongo di

fare in questo paragrafo è cercare di andare oltre le definizioni più semplicistiche, cercando di

219 Per quanto riguarda il dualismo nelle scelte musicali proposte dal film, nonché l’ambiguità che non porta a una

semplice contrapposizione fra i due generi musicali in favore di una crescente ibridità, cfr. Cfr. Polona Petek, “Enabling Collisions: Re-Thinking Multiculturalism Through Fatih Akin’s Gegen die Wand/Head On”, «Studies in European Cinema», vol. 4, n. 3, 2007, pp. 182-183.

220 Cfr. ibid., pp. 179-181; ma anche Giovannella Rendi, “Il ‘nuovo’ cinema tedesco è ancora turco?”, in Olaf Möller e

Giovanni Spagnoletti, a cura di, Oltre il muro. Il cinema tedesco contemporaneo, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 117-130, e in particolare pp. 123-125.

rendere un quadro complesso delle possibilità proposte dal film tramite l’analisi dei rapporti fra i personaggi e della messa in scena delle situazioni.

Mi sembra infatti che, anziché cercare di andare alla “radice” del problema dell’incontro fra culture e posizioni diverse, il film si sforzi di rimanere sulla “superficie”, ovvero nell’ambito della performatività quotidiana dei suoi protagonisti, senza attribuire mai un significato univoco a nessuna delle sue manifestazioni. Il continuo movimento a cui vorrebbero aderire i personaggi, e soprattutto Sibel (Sibel Kekilli), si attualizza dunque anche nelle inquadrature più statiche, o addirittura nell’assenza di rappresentazione (ad esempio nel caso degli invisibili rapporti sessuali della donna al di fuori del matrimonio). Pensiamo ad esempio al primo incontro fra Cahit e Sibel, nella seconda (macro-)sequenza. Dopo alcuni dettagli di un interno piuttosto squallido inquadrato con la macchina a mano, che scopriremo appartenere al reparto psichiatrico in cui Cahit e Sibel sono stati ricoverati, ci viene mostrato il dettaglio delle mani fasciate di una donna, da cui la macchina da presa si solleva verso il primo piano largo, frontale. In questo modo, Sibel viene introdotta tramite il dualismo che già segna la superficie del suo corpo: da un lato il dolore dei suoi polsi tagliati, dall’altro la fiducia e la sicurezza contenuti nel suo sorriso e nel suo sguardo mobile e diretto. Questo dualismo non è un’opposizione, ma un movimento di emozioni e posizioni diverse di questa donna nel mondo; non per nulla la macchina da presa si alza a collegare le due parti del suo corpo, separate nello spirito ma necessariamente compresenti: due aspetti della stessa donna, che si articoleranno in ulteriori ramificazioni della sua personalità. Anche nelle due occasioni in cui vedremo Sibel tagliarsi le vene, la sua identità rimarrà molteplice: se da un lato seguirà il consiglio di Cahit sul modo “corretto” di tagliarle per uccidersi (per lungo e non di traverso, come aveva fatto la prima volta), dall’altro il suo desiderio di annullamento è indissolubilmente legato alla sua costante brama di vivere appieno la vita. Non solo la morte diviene parte della vita stessa, e non l’assenza di vita, ma soprattutto il tentativo di morire, sempre messo in atto in modo da essere rinviato (nel primo caso il suicidio avviene in pubblico, dunque non può che essere evitato; nel secondo, è la stessa Sibel a fermare l’emorragia con un asciugamano), è di conseguenza una forma di ribellione alle gabbie imposte dalla struttura sociale in cui è costretta.

Scopriremo ben presto che Sibel ha tentato il suicidio la prima volta per liberarsi dalle restrizioni che le impongono il padre e il fratello, musulmani tradizionalisti che non accettano l’idea che frequenti degli uomini. Per questo motivo, Akin è stato accusato di riprendere gli stereotipi “occidentali” della visione delle famiglie turche in Europa e di proporre ancora una volta l’opposizione turco-musulmano-arcaico-represso contro tedesco-non religioso-moderno-libero. Ma

la presentazione della famiglia di Sibel viene fatta attraverso un totale dei suoi membri seduti a un tavolo nella mensa dell’ospedale221; l’intero discorso del padre e poi quello del fratello non sono

sviluppati tramite un campo-controcampo, ma una serie inquadrature con distanze variabili e da due prospettive diverse che mantengono in campo tutti e quattro i personaggi, e talvolta anche Cahit che li osserva da un altro tavolo. Nonostante il desiderio espresso da Sibel di uscire dalla sua famiglia, di essere indipendente, la giovane sa di farne comunque parte, e non vuole allontanarsene del tutto; per questo motivo, sei mesi dopo il matrimonio, convincerà Cahit a partecipare a una serata con il fratello, i suoi amici e le loro mogli. E, nel momento in cui Cahit avrà ucciso Niko, e Sibel dovrà sfuggire a Ylmaz che probabilmente vuole ucciderla per salvare l’onore della famiglia, la fuga sarà costruita inizialmente da una serie di panoramiche a schiaffo fra i due, per proseguire in un two shot su due piani in profondità di campo; solo alla fine avremo un campo-controcampo fra Sibel e Ylmaz. Questa successione determina con precisione il momento in cui Sibel non può più ritenersi parte della sua famiglia, ed è anche il momento in cui ha nuovamente inizio la sua auto-distruzione.

Di conseguenza, la protagonista del film non è costruita semplicemente dall’opposizione fra una cultura di appartenenza, “altra”, arcaica, tradizionalista, codificata, a cui opporsi tramite l’ingresso in una cultura di acquisizione, “occidentale”, moderna, libera, aperta. Il film stesso, al contrario, propone il comportamento di Sibel come un tentativo di liberarsi di ogni contrapposizione, e di far convivere attraverso il suo corpo e i suoi comportamenti aspetti diversi di culture diverse, come il legame con la famiglia (un valore ritenuto “tradizionale”), il tentativo di formare un matrimonio diverso rispetto alle abitudini, il desiderio di apertura al mondo (che comprende anche la promiscuità e l’uso di droghe e alcol, ma anche i piaceri della cucina, della bellezza, dell’amicizia) e la consapevolezza di non essere isolata. Soprattutto per quanto riguarda gli accordi con cui mette in piedi il suo matrimonio con Cahit, e di conseguenza le sue relazioni extraconiugali, Sibel ricorda il modo in cui è costruita la protagonista di Nuit et jour (Chantal Akerman, 1991), pur trattandosi di un film molto diverso rispetto a quello di Akin, con una consapevolezza da parte della regista tutta indirizzata a decostruire le convenzioni sulla rappresentazione dei rapporti amorosi. Eppure, in entrambi i casi, la protagonista porta avanti

The attempt to experience reality outside of representation, that is to free [herself] from the dominant images of love, marriage and the nuclear family, in favour of desire per se. [Her] utopic search is fostered by the belief that is possible to think the self as an entity whose desires are not regulated, but follow an instinctive pleasure

221 Si tratta, oltre che di Sibel, della madre Birsen (Aysel Iscan), del padre Yunus (Demir Gökgöl) e del fratello Ylmaz

principle222.

Pur nelle differenze fra i due film, che comprendono il fatto che in Nuit et jour il matrimonio fra Julie e Jack è assolutamente felice, e i due sono follemente innamorati, Julie e Sibel condividono la stessa ricerca del desiderio e del piacere al di fuori di ogni regolamentazione, senza però vivere il raggiungimento del loro scopo come una trasgressione: “The film shows that it is not a matter of juxtaposing the “norm” to its “transgression”, but of placing, side by side, two different forms of transgression. (…) No laws applies to Julie, since she is perpetually enthralled by her sexual desire”223. Sia il matrimonio che le relazioni al di fuori di esso si propongono come “trasgressioni”

alla regola eterosessuale monogama, che ha per modello la famiglia nucleare borghese moderna. Ma mentre il film di Akerman decostruisce in modo radicale il dualismo fra “legge” e “desiderio” che è alla radice di ogni messa in forma dell’amore romantico, nel caso di Akin abbiamo una posizione molto più ambigua, come dimostra il fatto che quello fra i protagonisti sia solo un matrimonio di convenienza, e che l’ingresso dei sentimenti nella sfera sessuale porta alla gelosia e alla violenza. Ma il sogno da cui partono sia Julie che Sibel è lo stesso: scardinare le posizioni tradizionaliste, annullando la validità di ogni “norma” e rifiutando ogni scala di valori prestabilita (fra cui quella per cui il tradimento sessuale è un “peccato”, o quanto meno una “colpa”).

Per questo rifiuto di ogni accettazione di un’unica scala di valori, ritengo che l’identità di Sibel possa essere associata all’“identità rizomatica” proposta da Édouard Glissant. Il concetto di “rizoma” è stato elaborato da Deleuze e Guattari224 per designare un tipo di pensiero filosofico che

vada contro la verticalità trascendentale della profondità, in favore di una sua ramificazione nell’”immanenza assoluta” della superficie, in un continuo movimento circolare che impedisce ogni strutturazione e ogni istituzionalizzazione225. Glissant riprende questo concetto per lavorare però

sull’identità nelle più complesse realtà contemporanee. In particolare, riflette sulla molteplicità delle culture che danno vita ai soggetti post-coloniali, proponendo una visione che si sviluppi non più verso lo scontro fra “dominanti” e “dominati”, ma verso una compresenza relazionale delle culture stesse. In questo senso, propone l’idea di una “identità come rizoma, (…) come radice che si incontra con altre radici”, in cui “gli elementi culturali più lontani ed eterogenei possano, in alcune circostanze, essere messi in relazione. Con risultati imprevedibili”226. Il mondo intero potrebbe

222 Veronica Pravadelli, Performance, Rewriting, Identity, cit., p. 259. 223 Ibid., p. 265.

224 Gilles Deleuze e Felix Guattari, “Rizoma”, Millepiani, sez. I, cit..

225 Per una breve discussione del concetto di “rizoma”, cfr. Salvo Vaccaro, “Rizomatica”, in Michele Cometa, a cura di,

Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, pp. 351-356.

dunque essere segnato dalle reti di “identità relazionali”, aperte all’altro senza per questo annullarsi in un adeguamento acritico alle posizioni diverse dalla propria227; in questo modo, la compresenza

armonica delle differenze viene garantita dal fatto che le varie posizioni non si propongono in nessun modo come privilegiate, come le uniche legittimate in una prospettiva trascendentale da un mito fondatore unico, da una Genesi divina.

Nessun dominio e nessuna sottomissione assoluta, da parte degli individui come delle culture molteplici che ne formano l’identità: proprio questo mi sembra il sogno proposto da La

sposa turca attraverso il personaggio di Sibel. Per questo motivo, l’“occidentalizzazione” della

donna non è mai assoluta, dal momento che resta legata alla sua famiglia; ma, allo stesso modo, rifiuta di adeguarsi passivamente alle prospettive “tradizionaliste” da questa proposte. Ancora, per questo motivo il suo matrimonio con Cahit è possibile, dal momento che egli stesso non appartiene alla comunità turca pur rimanendo in contatto con essa tramite il suo legame con Seref, e dal momento che non si tratterà mai di un matrimonio tradizionale, ma di una transazione, un contratto stipulato per il bene di entrambi. Eppure, come vedremo, il fatto che Cahit appartenga alla generazione precedente gli impedisce di aderire al sogno di molteplicità di Sibel; al contrario, è “ancora” preda del dualismo culturale e sessuale, dando origine alla fine del matrimonio come del sogno di libertà di cui è portatore.

Come abbiamo iniziato a vedere, il testo stesso si pone però come un testo rizomatico, relazionale; da un lato, infatti, la struttura a capitoli dettata dalla presenza dell’orchestra permette una sistematizzazione del racconto, assieme al rispetto del succedersi cronologico degli eventi. Ma dall’altra parte, le ellissi e la debolezza del legame di causa-effetto dal punto di vista narrativo (quanto tempo passa fra l’incontro fra Cahit e Sibel e il loro matrimonio? Cosa gli ha fatto scegliere di accettare la proposta di Sibel? Quanto tempo trascorre Cahit in prigione dopo l’omicidio? Chi è il compagno di Sibel a Istanbul? Queste sono solo alcune delle domande che restano senza una risposta esplicita da parte della narrazione), e soprattutto la compresenza di modi diversi di messa in scena anche all’interno della stessa sequenza, ci impediscono di portare avanti un’analisi che spieghi in modo completo tutti gli aspetti e i sensi del testo. La sposa turca fa dunque parte di quei racconti che secondo Glissant segnano proprio le società “di creolizzazione”228, e che per questo

227 In un altro passo dello stesso testo, la Relazione viene definita come “apertura e relatività”; ibid., p. 81.

228 Ho già esposto i miei dubbi per quanto riguarda l’uso del termine “creolizzazione” e il suo esclusivo riferimento

alle realtà creole dei Caraibi francofoni nell’introduzione di questo capitolo; ciò non toglie che ritengo interessanti gli sviluppi che possono discendere dal significato che questo termine assume (quello di una realtà caratterizzata dalla molteplicità rizomatica delle identità). Per questo motivo, oltre che per una maggiore semplicità di esposizione, continuerò ad usarlo, pur mantenendo le mie perplessità e il desiderio di non escludere realtà linguistiche o culturali diverse.

motivo rifiutano ogni legame con una Genesi trascendente in funzione di una compresenza di storie diverse senza che nessuna prevalga sulle altre:

Per quanto riguarda le società in cui non esiste un mito fondatore, se non come prestito – sto quindi parlando di società composite, di società di creolizzazione – la nozione di identità si realizza intorno alla rete della Relazione che comprende l’altro come colui che opera un processo di deduzione. Queste culture cominciano direttamente dal racconto che, per paradosso, è già una pratica della deviazione. Il racconto devia in questo modo dalla propensione a collegarsi a una Genesi, dall’inflessibilità della filiazione, dall’ombra delle legittimità fondatrici. E quando l’oralità del racconto continuerà nella fissazione della scrittura (…) manterrà questa deviazione a raggiera che determinerà un’altra configurazione dello scritto, da cui sarà eliminato l’assoluto ontologico. Cosa sarà dunque la coscienza storica, se non la pulsione caotica verso le congiunzioni di tutte le storie, ma senza che nessuna di esse, e questa è una delle qualità migliori del caos, possa prevalere con una legittimità assoluta?229

In questo brano, oltre alla molteplice varietà e validità di tutti i racconti proposti, emerge un altro elemento particolarmente interessante nella teoria di Glissant, ovvero la sua posizione sul caos, che lo porta a parlare della realtà contemporanea come di “caos-mondo”230. Partendo dalla riflessione

scientifica sui “sistemi deterministi erratici”, in cui il moltiplicarsi delle variabili e soprattutto l’introduzione della variabile tempo determinano una “legge dell’imprevedibilità”, Glissant “sogna” un mondo in cui il “pensiero dell’ambiguità” permetta di “adattarsi poeticamente” all’imprevedibilità delle relazioni, dando vita a un immaginario tramite il quale il soggetto può essere costantemente in relazione con le altre diversità del mondo, indipendentemente dalla sua posizione spazio-temporale (“vivere in un luogo eppure essere in relazione con la totalità-mondo”). Ovvero, in un mondo in cui le erranze e l’imprevedibilità sono legge, non ha più senso cercare di organizzare la realtà e i rapporti in un sistema trascendentale e gerarchico prevalente sugli altri (come nella modernità); al contrario, un immaginario basato sulla Relazione, sull’intreccio pur nel mantenimento della diversità, in cui ogni parte è alla pari col tutto e i sistemi di valori “fluttuano” con consapevolezza, potrebbe portare a una convivenza fertile e vivace fra le varie realtà.

Da qui un possibile quadro della realtà contemporanea nel concetto di “caos-mondo”:

Chiamo caos-mondo (…) lo choc, l’intreccio, le repulsioni, le attrazioni, le connivenze, le opposizioni, i

229 Édouard Glissant, Poetica del diverso, cit., p. 48.

230 L’esposizione della riflessione sul “caos-mondo”, da cui sono tratti la terminologia e i passaggi citati in seguito, è

contenuta nel capitolo “Il caos-mondo: per un’estetica della Relazione”, ibid., pp. 61-81. La “teoria del caos” è stata usata, a proposito della costruzione di modelli di interpretazione del mondo contemporaneo, anche da Arjun Appadurai, Modernità in polvere, cit., pp. 68-70.

conflitti fra le culture dei popoli, nella totalità-mondo contemporanea. Di conseguenza, la definizione o,