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I dati che emergono dalla bibliografia a livello nazionale e regionale rispetto all’incidenza del lavoro nero e “grigio” (vedi Capitolo 1) sono stati ampiamente riconfermati nelle interviste, dalle quali emerge una prassi più che consolidata nella retribuzione dei lavoratori in toto o parzialmente “fuori busta”. Fra i rischi di sfruttamento lavorativo, gli ispettori del lavoro non mancano di sottolineare l’abuso «del periodo di prova irregolare»: quella fase iniziale di contatto fra lavoratore e datore di lavoro che sarebbe teoricamente disciplinata e tutelata dalle leggi italiane, ma che nella prassi si svolge completamente “in nero”. Conferma indiretta di ciò viene dall’intervista al presidente di Copagri Brescia, nonché proprietario di una piccola azienda del settore lattiero‐caseario, il quale racconta il caso di un collega che fece venire in azienda un ragazzo indiano perché lavorasse come mungitore, ma evidentemente non si premurò di formalizzare secondo le leggi il periodo di prova del lavoratore, poiché dal racconto dell’intervistato si evince che il datore di lavoro richiese al ragazzo i documenti solo nel momento in cui decise di assumerlo.

Il lavoro nero e grigio non sono fenomeni limitati a questa prima fase del rapporto fra datore di lavoro e lavoratore. Come conferma C. della Cooperativa Lotta «succede di assumere persone irregolari [lavoratori immigrati senza regolare permesso di soggiorno] con la falsa promessa di una regolarizzazione» e poi tenerle invece a

267 Si veda in particolare Perocco F., L’Italia, avanguardia del razzismo europeo in Basso P. (a cura di), Razzismo di stato, op.cit. che prende in esame il problema della compressione del valore del lavoro e del costo sociale della manodopera messi in atto dalla ristrutturazione delle relazioni industriali a favore del capitale e dai meccanismi di razzismo e sessismo utilizzati per metter in concorrenza fra loro i lavoratori, ed esplicita la necessità espressa dal sistema economico vigente di lavoratori sempre meno onerosi e sempre più ricattabili. In termini più ampi il «drastico abbassamento del valore medio della forza lavoro alla scala mondiale» è esplicitamente indicato da Basso (Basso P., Tutto è già scritto, nulla è già deciso in Basso P., Razzismo di stato, op. cit., p. 616) quale misura individuata dal capitale come risposta alla propria insufficiente profittabilità attesa, causa della crisi presente.

lavorare in nero: questo avviene sia perché «le persone spesso accettano di lavorare in condizioni di sfruttamento nel momento in cui hanno come prospettiva la possibilità di essere regolarizzati», che perché per gli immigrati senza permesso il lavoro nero è l’unica forma di sostentamento possibile. Il meccanismo di produzione e riproduzione delle condizioni di ricatto e potenziale sfruttamento lavorativo degli immigrati in Italia già esaminate sono quindi ancora una volta riconfermate. In particolare, come illustrato nel capitolo 2, la Legge n. 189/2002 «ha legato imprescindibilmente il diritto di risiedere in Italia al contemporaneo soddisfacimento di tre requisiti: avere un contratto di lavoro, avere un permesso di soggiorno, avere un alloggio rispondente a determinati parametri (e quindi l’iscrizione all’anagrafe comunale)»268. Tale legge contiene inoltre

una serie di disposizioni a carico del datore di lavoro, come il dover garantire la disponibilità di un alloggio per il lavoratore immigrato e le spese di un eventuale rimpatrio assieme alla previsione che «il lavoratore, al momento dell’avvio delle pratiche per l’ottenimento del permesso di soggiorno, si trovi nel proprio paese di origine», disposizioni che, unite alle lungaggini dell’iter burocratico costituiscono un’importante disincentivo all’assunzione regolare269.

A complicare il quadro rimane la già esaminata incidenza del sommerso che caratterizza il nostro paese, che rende difficile percepire le condizioni di sfruttamento lavorativo cui si è soggetti: come fa notare l’intervistato della Cooperativa Lotta infatti «non sempre c’è la percezione della propria irregolarità perché in un momento come questo, in cui le persone che lavorano in nero, anche italiane, sono molte, diventa difficile per una persona irregolare percepire una differenza nell’impiego: “Lo fanno anche gli italiani il lavoro nero e irregolare, per quale ragione non lo dobbiamo fare anche noi?”».

I principali ostacoli all’emersione vengono individuati nelle situazioni di precarietà economico‐giuridica in cui molti lavoratori immigrati sono confinati dalle

268 Laboratorio di Ricerca sull'Immigrazione e le Trasformazioni Sociali dell'Università Ca' Foscari Venezia, Facilitating Corporate Social Responsibility in the field of Human Trafficking. Mapping the sector. Italy, op. cit., p. 30.

leggi in vigore270. Forte è il fattore di condizionamento legato alla condizione di

necessità economica per cui l’immigrato finisce con l’accettare di lavorare indipendentemente dalla condizione d’irregolarità totale o parziale dell’impiego.

Come gli stessi ispettori del lavoro dichiarano, il lavoratore immigrato «dal momento in cui arriva in Italia e ha la necessità di lavorare, si presta a qualunque tipo di sfruttamento» per cui «essendoci il datore di lavoro disponibile a farlo lavorare, lui va anche senza essere assunto».

Il principale disincentivo all’emersione dal lavoro nero dei lavoratori immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno è la possibilità di veder scattare una denuncia della loro posizione irregolare. Come dichiarato dal segretario provinciale della Flai Cgil di Brescia, ci sono molti condizionamenti di carattere tanto normativo quanto psicologico che portano il lavoratore sfruttato a non intraprendere la strada della denuncia: «il problema è che se non hanno ancora il permesso di soggiorno non c’è ancora la legge che glielo [garantisca, anche] se vengono a denunciare. Adesso col [reato di] caporalato qualcosa hanno messo, però non hanno automaticamente il permesso di soggiorno se denunciano l’attività in nero» e rischiano anzi l’espulsione, come esaminato nel capitolo 2. Va ricordato infatti, come già illustrato nei precedenti capitoli, quello che afferma C. della Cooperativa Lotta e cioè che «al di là di ogni tipo di valutazione» nel puro e semplice lavoro nero non è detto che la persona sia «costretta o sottomessa ad un limite

270 Come riportato dal Laboratorio di Ricerca sull'Immigrazione e le Trasformazioni Sociali dell'Università Ca' Foscari Venezia, Facilitating Corporate Social Responsibility in the field of Human Trafficking. Mapping the sector. Italy, op. cit., p. 30: «un’ampia casistica dimostra che l’attuale legislazione rende la posizione dei lavoratori immigrati vulnerabile e soggetta ai ricatti dei datori di lavoro, e spinge gli stessi lavoratori ad accettare condizioni di lavoro al di fuori della norma – a prescindere dal loro status amministrativo. Numerose ricerche e denunce hanno infatti messo in luce che situazioni di questo genere sono rilevabili tra lavoratori undocumented (che sperano di regolarizzarsi), tra lavoratori documented (che temono di perdere il lavoro e di conseguenza il permesso di soggiorno), tra lavoratori stagionali (che temono di compromettere il rinnovo del permesso di soggiorno per l’anno successivo)»

Si veda inoltre: Borretti B., Da Castel Volturno a Rosarno, op. cit; Medici Senza Frontiere, Una stagione all’inferno, op. cit.

S’invita inoltre a consultare la nutrita bibliografia richiamata dal Laboratorio di Ricerca sull'Immigrazione e le Trasformazioni Sociali dell'Università Ca' Foscari Venezia, Facilitating Corporate Social Responsibility in the field of Human Trafficking. Mapping the sector. Italy, op. cit. Per esempio: Amnesty International, “Volevamo braccia e sono arrivati uomini”. Sfruttamento lavorativo dei braccianti agricoli migranti in Italia, Amnesty International, Londra, 2012; Gatti F., Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Rizzoli, Milano, 2007; Leogrande A., Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano, 2008; Limoccia L. et alii, Vite bruciate di terra. Donne e immigrati. Storie, testimonianze, proposte contro il caporalato e l'illegalità, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997.

della sua libertà al di la del meccanismo perverso del lavoro nero [in sé] e quindi non ricade all’interno [dell’ambito di applicazione] dell’art. 18».

L’eventualità di non vedersi rinnovato il contratto di lavoro e di conseguenza l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno funge invece da silenziatore delle rivendicazioni cui potrebbero invece dar voce i lavoratori in condizioni di lavoro “grigio”: ovvero nei confronti dei quali è stato stipulato un regolare contratto, ma si fa figurare in busta paga solo parte della retribuzione271. Va infatti ricordato come la

precarietà del lavoratore immigrato sia aggravata dalle previsioni contenute nella legge “Bossi‐Fini” (Legge n. 189/2002), la quale, fra le altre cose, sancisce che la durata del permesso di soggiorno coincida con la durata del contratto di lavoro.

Sono questi elementi funzionali al mantenimento di un consistente numero di lavoratori in una condizione di altissima ricattabilità in cui prosperano le opportunità di sfruttamento lavorativo senza che i soggetti deboli del rapporto possano credibilmente pensare di opporvisi.

Il caporalato etnico, la cui diffusione anche nel Nord Italia (se mai se ne fosse dubitato) è stata confermata dall’intervista al coordinatore dei progetti immigrazione e tratta della Cooperativa Lotta, è un’ulteriore potente «elemento di controllo e di gestione» dei lavoratori immigrati. Come afferma l’intervistato nel riportare l’esempio di un’ottantina di persone che lavoravano con permesso di soggiorno falso [comprato] ed in condizioni di sfruttamento nel settore della logistica lombarda: «Queste persone erano state portate apposta dai loro paesi [in Italia] per essere sfruttate, [ma] poche di loro hanno denunciato anche perché in questa situazione esistono sempre persone della stessa nazionalità che fungono da elemento di controllo e di gestione della presenza irregolare [nella] azienda».

Rilevare queste criticità non significa ignorare l’importantissimo attivismo di cui si sono rese protagoniste molte associazioni di immigrati ed altrettante aggregazioni spontanee di lavoratori, anzi, alla luce degli ostacoli di ogni sorta che queste hanno dovuto superare, la loro voce acquista semmai una valenza maggiore. È il caso di ricordare non solo le rivolte dei braccianti di Rosarno o di tutti gli altri grandi e piccoli fatti di cronaca

271 È logico ipotizzare che il salario dichiarato ammonti in tal caso come minimo a quanto stabilito per legge quale salario annuale soglia per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

cui la spettacolarizzazione propria dei media di questi anni ha dato risalto, ma anche l’importanza che acquisisce il gesto coraggioso di un singolo lavoratore. In quest’ottica è rilevante riportare il racconto del coordinatore dei progetti immigrazione e tratta della Cooperativa Lotta che riferisce di come la tragica situazione di molte persone «trafficate dall’India in Italia per lavorare nei ristoranti» e successivamente impiegate da un’azienda che costruiva controsoffittature sia uscita allo scoperto solo in quanto «una di queste persone è scappata dalla fabbrica ed è andata al sindacato».

Questo gesto è tanto più significativo se consideriamo, come illustra il responsabile dei progetti Tratta e Immigrazione della Cooperativa Lotta, quanto sia «difficile che le persone emergano o che tutelino i propri diritti perché c’è molta difficoltà [soprattutto] da parte delle persone irregolari a sentirsi portatori di diritti». Il contesto generale è dunque quello di una diffusa difficoltà di percezione della propria titolarità rispetto a molti diritti legati alla legislazione sul lavoro e non solo, difficoltà accentuata nei soggetti immigrati “irregolari”272 ma presente anche fra i lavoratori italiani che, al pari

dei lavoratori stranieri, tante volte si avvedono dell’assenza di tutele collegata a rapporti di lavoro nel sommerso economico solo a seguito di un evento traumatico come un incidente sul posto di lavoro o il mancato riconoscimento di altri diritti fino ad allora concessi loro dai datori di lavoro sulla base di accordi verbali o comunque non formalizzati273. L’autoconsapevolezza della propria condizione di lavoro non tutelata,

sfruttata, non è qualcosa che si possa dare per scontato, tanto più che «i meccanismi dello sfruttamento si sono affinati» come osserva C.: «le persone guadagnano comunque un buon “salario”274 e quindi la volontà di tutelare i propri diritti diventa meno

pressante».

272 Per effetto di quella lunga palestra dello sfruttamento che per alcuni inizia con il viaggio, prosegue nella criminalizzazione dello status individuale qualora “clandestini” e viene coronata dall’omertoso sistema di ricatti del lavoro sfruttato in ogni sua forma, meccanismo cui si accennava nei precedenti capitoli. 273 Fenomeno cui si riferiscono gli ispettori del lavoro intervistati. 274 Nel senso che per quanto riguarda rapporti di lavoro senza regolare assunzione non si parla di un vero e proprio salario, è lo stesso C. a chiamarlo «un buon fra‐virgolette‐salario».

Processi di ristrutturazione di lungo periodo