L’utilizzo del marmo prevede due fasi produttive distinte: una prima fase riguarda il procurarsi della materia prima, con la lavorazione diversa a seconda dell’uso cui è destinata.
La seconda fase rientra invece nel mondo delle “arti” nel senso più arcaico del significato, in quelle arti che richiedono maggiormente l’impiego del lavoro manuale. Il lavoro variava da semplici pezzi industriali in serie, alla realizzazione di figure e di ornati. È una piacevole commistione di lavoro fisico e di pensiero, che si nota nell’osservazione dei manufatti eseguiti. Vi è una caratteristica comune a tutti i lavoratori del marmo, scalpellini, cavatori, scultori e segatori è quella della perfetta conoscenza della materia.
La città di Roma prese il diretto e totale controllo delle vallate marmifere carraresi, ancora oggi restano le tracce del lavoro imponente dei Romani, attraverso testimonianze di sculture e di incisioni nei bacini di antica lavorazione101. Le cave coltivate dai Romani erano di proprietà degli imperatori e solo raramente erano possedute da privati. Ogni cava era posta sotto diretta amministrazione di un procuratore dell’imperatore Augusto o di un prefetto appartenente al fisco imperiale dei marmi, era tutto controllato da un centurione, il quale assieme a un presidio di soldati, aveva il compito di mantenere la disciplina e l’ordine del numeroso personale all’interno della cava. Coloro che lavoravano all’interno di questi bacini estrattivi, erano i cavatori organizzati principalmente in corporazioni di uomini liberi, schiavi oppure condannati ( damnati ad metalla). Tra questi si distinguevano i “marmoraii” che erano gli addetti a scavare e a sbozzare il marmo, i “quadratarii” che avevano il compito di sbozzare il blocco e i “sectores serraii” che invece lo segavano, il resto erano un gran numero di uomini che erano addetti al trasporto e ai lavori di manovalanza.
100
LUIGI FICACCI, Carrara Michelangelo e il marmo, Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara, Milano, 24 ORE Motta Cultura, 2008, pp. 97.98
Il Condivi ci tramanda che all’epoca il marchese di Carrara Alberico Malaspina, vista la presa di posizione da parte di Michelangelo di cambiare la fonte di approvvigionamento dei blocchi per le sue opere da Carrara al Monte Altissimo a Seravezza, il marchese e gli stessi cavatori lo interpretarono come un iniziativa “nazionalistica” come un alto
tradimento.
101
ENRICO DOLCI, Attrezzi per l’escavazione da una cava lunense, in Quaderni del centro studi lunensi IV, ( a cura) Antonio Frova, Milano, 2009. Prima dei Romani, gli Etruschi contribuirono alla prima fase di floridezza di Luni.
40 L’estrazione dei marmi nei tempi passati era fondata su un dispendio immenso di forza umana e di tempo, per ottenere risultati relativamente modesti102. Il metodo di lavorazione che veniva utilizzato per estrarre i monoliti può essere testimoniato con certezza anche dagli attrezzi da lavoro che sono giunti fino a noi. Fra questi strumenti si ricorda la picchetta, un martello molto simile a quello dei muratori, molto più robusto e resistente, terminante con una punta aguzza e ricurva fatta di acciaio, con un manico di legno di quercia.
Veniva utilizzata la mazzetta, che aveva un lungo manico, con una testa piatta quadrata da una parte e dall’altra terminante con una punta piramidale di acciaio spesso. Vi era il piccone molto simile a un grosso e pesante martello dritto con una lunga punta. Infine si utilizzavano i cunei i quali avevano la testa più stretta del corpo103.
I Romani cercavano nei fianchi della montagna un masso di modeste dimensioni, per riuscire meglio a lavorarlo e garantirne nel miglior modo possibile il trasporto, infatti le cave che hanno lasciato testimonianza del lavoro romano sono quelle poste presso il fondo delle valli, vicinissime alle strade. Una volta scelto, il blocco veniva staccato sfruttando le fenditure naturali del marmo: vi venivano inseriti i cunei che lo facevano saltare, dopo che erano stati battuti con la testa quadra della mazza.
Una volta che il marmo veniva estratto dalla cava, veniva contrassegnato (questo metodo rimarrà anche successivamente) con iscrizioni indicanti la cava, il nome del soldato o del procuratore e il numero progressivo dei blocchi estratti da un preciso cantiere. Oltre a tale iscrizioni venivano inserite delle medaglie di piombo con l’effigie dell’imperatore accompagnata da una legenda oppure una striscia di piombo con lettere e numeri.
Nel corso dei secoli i cavatori adottarono la stessa tecnica, naturalmente con modifiche che andavano di pari passo con lo sviluppo tecnico.
Venivano sfruttate sempre le fenditure naturali delle rocce: una volta individuate, si potevano inserire in esse con forza dei “cunei” di legno, che venivano bagnati costantemente con acqua; in tal modo si sfruttava la dilatazione naturale del legno, determinando la spaccatura della pietra. Quando lo consentiva la mole, era possibile far uso di enormi leve per separare le parti104.
Prima del completo distacco veniva preparato il terreno di caduta sul quale erano poste alcune sfere di ferro atte a rendere più agevole la rimozione. Spesso i blocchi, che venivano staccati e adagiati sul piazzale della cava, avevano delle dimensioni superiori per l’impiego previsto o possedevano forme irregolari o erano lesionati e quindi non erano più commerciabili. Per renderli utilizzabili
102LUCIANA e TIZIANO MANNONI, Il marmo materia e cultura, Genova, Sager Editrice, 1978 103
RAFFAELE PARETO e GIOVANNI SACHERI, Enciclopedia delle Arti e Industrie, vol II, Torino, Unione Tipografico Editrice, 1880 (ristampa presso Società Editrice Apuana, 1986)
41 dovevano essere lavorati . I blocchi venivano tagliati con pesanti lame di ferro movimentate manualmente e ridotti in dimensioni più adeguate. Una volta preparati per il trasporto venivamo segnati con un numero, datati e riportato il nome del responsabile della cava, oltre all’ indicazione del preciso luogo di estrazione del blocco105. Una volta giunti a destinazione, venivano nuovamente controllati e siglati.