Prima di essere posto sul mezzo per il trasporto a valle, il blocco doveva inevitabilmente essere sollevato. La soluzione più antica e semplice era quella del meccanismo della leva che consentiva il sollevamento di qualche centimetro. Nel giro di pochi anni questa faticosa tecnica verrà sostituita e perfezionata con il martinetto a leva, il quale permetteva di sollevare progressivamente il blocco fino a un’altezza di venti centimetri. Alla fine del Medioevo questi strumenti erano conosciuti come martinetti a vite e a cremagliera che venivano azionati da una semplice manovella.
Altro meccanismo, ancora più semplice, di sollevamento era l’utilizzo del piano inclinato, che permetteva di trascinare il blocco fino a qualche metro di altezza.
Attraverso fonti greche vengono menzionate alcune macchine che permettevano di sollevare il masso dall’alto all’interno di cantieri di costruzione. Una descrizione accurata di tali meccanismi si può rintracciare nel decimo libro di Vitruvio, il quale ci spiega che si trattava di sistemi con funi e pulegge che venivano azionate da argani mossi manualmente una leva109.
Macchinari molto analoghi, tra i quali un martinetto a vite, vennero utilizzati per la costruzione di Santa Maria del Fiore a Firenze, tutt’oggi osservabili presso il Museo dell’opera del Duomo.
Tra le tecniche di trasporto, utilizzate già dai tempi dei Romani, vi fu quella dell’ “abbrivatura”. Questa era una tecnica poco redditizia, perché consisteva nel far ruzzolare a caduta libera i blocchi lungo le pendici del monte o precisamente lungo i canaloni riempiti dagli scarti marmiferi
108 Ibidem
43 (“ravaneti”); in tal modo il blocco si scheggiava o si disintegrava quasi completamente, terminando più delle volte la propria corsa all’interno dei canali. I resti recuperati venivano riquadrati anche se di materiale da lavorare c’e ne rimaneva ben poco.
Altra tecnica antichissima che perdurò nei secoli immutata e venne utilizzata fino agli anni Sessanta del Novecento, fu quella della “lizzatura” 110.
Il blocco o i blocchi, che solitamente avevano un peso che oscillava tra le quindici o venticinque tonnellate, venivano preparati attraverso un’adeguata riquadratura e tagliati in dimensioni più adeguate per il trasporto111.
Passaggio successivo era quello della sollevazione dei blocchi attraverso l’uso di martinetti che venivano applicati lateralmente in modo da poter inserire al di sotto due slitte di quercia o di faggio lunghe da sei a dodici metri (“lizze”), che venivano fatte poggiare a loro volta su delle traverse di legno ingrassato o saponato (“parati”).
Il carico veniva poi legato con tre lunghi spezzoni di cavi sulla slitta (“canapi”) che servivano per frenarlo lungo la discesa. La lizzatura veniva effettuata su un tracciato preparato, largo qualche metro la cui pendenza poteva superare il cento per cento, lungo il quale erano impiantati nella roccia viva a distanza di alcune decine di metri e in curva corti pali di legno duro (“piri”) dove venivano avvolti in spire i cavi, prima utilizzati di canapa e poi successivamente di ferro, che permettevano di frenare il carico. Una volta che il carico iniziava a discendere, grazie all’uso di leve, la “compagnia di lizza”, guidata dal più importante degli operai, il capo-lizza, il quale era responsabile di disporre i parati davanti alla lizza che avanzava e ad impartire i comandi su ogni operazione, attraverso le tipiche grida in dialetto carrarese112. Nel frattempo il “capo-lizza” che seguiva da vicino tale delicata operazione, gridava ai “molatori”, coloro che erano addetti a regolare l’andamento dei “canapi” sui “piri”, la condizione d’avanzamento. La discesa dei blocchi avveniva con una regolare continuità, sia attraverso la velocità delle operazione degli addetti in cava, sia attraverso la sincronizzazione e l’organizzazione delle varie fasi113. Quando un palo di frizione era troppo lontano, il cavo veniva sciolto e fatto passare a un palo più basso, facendo in modo che i cavi fossero sempre in funzione e tesi.
Questa apparente semplice tecnica portava a valle il prezioso carico, ma a volte a causa delle funi che si spezzavano, oppure di un errore degli operatori, si trasformava in una macchina di morte.
110
LUCIANA eTIZIANO MANNONI, Il marmo materia e cultura, Genova, Sager Editrice, 1978, p.97
Gli antichi Egizi più di tremila anni fa avevano ideato l’idea di trasportare sculture in marmo di diverse centinai di tonnellate, legate a delle slitte di legno trainate oppure frenate da corde.
111
MARIA GRAZIA CHICCA, Il marmo e l’oro, Livorno, Roberto Meiattini Editore, 1998
112
LUCIANA eTIZIANO MANNONI, Il marmo materia e cultura, Genova, Sager Editrice, 1978
44 Lo stesso Michelangelo ne sperimentò tale tecnica e ne lasciò testimonianza nelle sue lettere da Carrara:
“ […] Siamo stati a uno grandissimo pericolo della vita tutti che eravamo attorno. Uno ci si è dinocolato e morto subito, io ci sono stato per mettere la vita”114.
La lizzatura giungeva fino ai poggi caricatori, situati in zone accessibili dove potevano arrivare i carri trainati dai buoi. I poggi erano rialzati rispetto al piano stradale, in modo che il carro potesse avvicinarsi sotto al blocco e ne risultasse così facilitato il caricamento. I carri da trasporto erano carri molto massicci e robusti, con le ruote cerchiate in ferro ed erano larghe per evitare di fare pesanti solchi lungo le strade. Nella parte posteriore era fissata una martinicca, un rudimentale freno, costituito da una traversa di legno che per mezzo di una vite poteva essere stretta contro le ruote stesse, ottenendo un buon effetto frenante. Se la pendenza era eccessiva, si metteva sul retro del carro un pesante blocco da trascinare che grazie al suo attrito ne aumentava la capacità frenante. Il carro veniva trainato da coppie di buoi che variavano di numero in base al peso da trasportare. Essi giungevano fino al mare, dove i blocchi venivano passati sulle naves lapidariae. La morfologia della costa costituita da fondali bassi e sabbiosi costrinse i caricatori a trovare soluzione alternative. Le navi venivano trainate a secco sulla spiaggia sotto le bighe di carico, una volta caricati i blocchi, la sabbia veniva tolta al di sotto della nave creando un canale che permettesse il loro varo in mare. L’operazione della varata della nave era agevolata dalle stesse maree115.
Il trasporto di lastre dalle segherie al mare avveniva attraverso l’utilizzo di un carro a fondo basso trainato da una coppia di buoi, con grandi ruote e con sponde molto alte, per mantenere il carico in verticale, era chiamata “mambruca”.
Queste tecniche primitive rimasero quasi invariate fino all’avvento delle scoperte energetiche che migliorarono e velocizzarono le fasi di produzione caratterizzata dalla civiltà dell’era industriale del XIX e XX secolo.
114 COSTANTINO PAOLICCHI, Michelangelo. Sogni di marmo, Pontedera, Tipografia Bandecchi & Vivaldi Editori, 2005 115 LUCIANA e TIZIANO MANNONI, Il marmo materia e cultura, Genova, Sager Editrice, 1978
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