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Le formule anti-inganno nei giuramenti di alleanza ─

1. Capitolo primo Il giuramento e i rapporti sociali ─

1.2 Le formule anti-inganno nei giuramenti di alleanza ─

Ho concluso il precedente paragrafo analizzando in che modo il giuramento di alleanza pronunciato dalle donne in Lisistrata viene percepito dagli altri personaggi portati sulla scena da Aristofane. Sulla base di solide questioni di natura storica, ho anche concluso che la συνωμοσία messa in scena nella commedia viene considerata una minaccia al regime democratico della città.

Proviamo ora ad analizzare la funzione del giuramento di Lisistrata, spostando il fuoco verso le dinamiche interne al gruppo di cui la protagonista della commedia è, come abbiamo visto, a capo. E' possibile inferire che il ricorso alla formulazione di un giuramento di alleanza abbia non solo la funzione di garantire l'impegno di ognuna delle donne a porre fine alla guerra del Peloponneso, ma anche quella di tutelare ognuna di esse da eventuali inganni tramati dalle rispettive compagne?77

Nel rispondere a questa domanda affronterò il tema portante di questo paragrafo, ovvero l'uso di particolari formule diffuse in numerosi trattati epigrafici e letterari, che sono state presentate per la prima volta all'attenzione degli studiosi con il nome di anti-deceit clauses.78

Come possono essere definite le clausole anti-inganno? Esse costituiscono, in sostanza, una serie di espressioni (morfologicamente: avverbi o aggettivi) inserite all'interno di un trattato (e, talvolta, anche all'interno del testo giuratorio stesso), per evitare qualunque infrazione alle clausole di un patto che potrebbe essere messa in atto da una delle parti coinvolte nella stipulazione del trattato.79 L'uso di queste clausole in diverse testimonianze epigrafiche e letterarie testimonia l'importanza del giuramento sia come strumento per conferire validità alla sanzione di un accordo sia come strumento per garantire l'effettiva realizzazione del patto stesso.80

Nel corpus di Aristofane vi è traccia di due clausole anti-inganno che prenderò in esame nel corso della trattazione di questo paragrafo. La prima di queste ricorre in Lys. 168-9, una decina di versi prima dell'inizio del rituale giuratorio vero e proprio. In questo punto della commedia, si

77 Sul tema della diplomazia in Grecia antica segnalo i seguenti contributi: Adcock/Mosley 1975; Cresci/Gazzano/Orsi

2002; Bederman 2001; Low 2007.

78 L'espressione fu coniata dallo studioso britannico Wheeler (1984) che per primo ha studiato queste formule. Benché

allo studioso si debba attribuire il merito di aver rintracciato il numero dei trattati epigrafici riportanti queste formule anti-inganno e di aver introdotto, parallelamente, il concetto di ὅρκος σοφιστικός, si deve alla ripresa di questo tema da parte di Gazzano (2005) la precisazione delle circostanze specifiche in cui tali formule ricorrono. Di questa materia si sono occupati, in seguito, anche Sommerstein/Bayliss 2013, pp. 199-201 (in cui è usata alternativamente anche l'espressione ‟escape clauses”), e Bolmarchich (b) 2007, pp. 31-8. La ripresa della matrice sofista del fenomeno suddetto è amplificata da Bederman 2011, il quale afferma (p. 69): ‟Some writers have suggested that as belief in the very existence of the gods wanted in Ancient Greece, under the influence of the sophists, oaths in general (but particularly in international undertakings) lost their previous authority”.

79

Cfr. Gazzano 2005, p. 14: ‟l'uso di anti-deceit clauses sarebbe da ascrivere alla precisa volontà- da parte degli stati contraenti- di evitare ogni possibile circonvenzione del giuramento: tale puntuale esigenza spiegherebbe la relativa rarità di simili formule nei documenti pervenuti”. D'altronde, se si segue l'analisi condotta da Lonis sui trattati del VI-V secolo a.C., è legittimo concordare con lo studioso che: ‟(...) il est évident que la validité des engagements internatiaux a dépendu (…) du rapport des forces. Aucun serment ne peut prévaler contre la tentation de modifier ce rapport quand les circonstances y sont favorables” (1980, p. 280).

80

assiste all'incontro segreto delle donne sull'acropoli ateniese. Una volte compiute da Lisistrata le premesse dovute (consistenti nella spiegazione dello scopo cui soggiacerà l'imminente formulazione del giuramento di alleanza e castità), la spartana Lampitò, qui in funzione di araldo di Sparta, afferma quanto segue:

καὶ τὼς μὲν ἁμὼς ἄνδρας ἁμὲς πείσομες πάντα δικαίως ἄδολον εἰράναν ἄγην E noi convinceremo i nostri uomini

a rispettare la pace con giustizia e senza inganni.

Benché il binomio aggettivo-avverbio espresso dal personaggio rappresenti un'eccezione nel panorama delle attestazioni delle clausole anti-inganno, è evidente che in questo passaggio Aristofane si rifaccia all'uso di una anti-deceit clause.81 Il senso delle parole di Lampitò è chiaro: il popolo spartano si impegnerà a soddisfare le condizioni della pace che essa e le compagne stabiliranno con l'imminente rito giuratorio. Questo intento è da ricercarsi nel valore dell'aggettivo ἄδολον; se, infatti, δικαίως evoca la nozione di δικη che garantisce il leale mantenimento dei patti (in quanto stabiliti invocando a tutela di essi gli dei), il termine ἄδολον insiste su un piano, per così dire, più umano. Esso indica, in altre parole, che non vi dovrà essere alcun tentativo di sovvertire dolosamente l'ordine stabilito dalla sanzione del patto.82 A quale scopo, potremmo domandarci, collocare in questo preciso punto dell'intreccio comico la ripresa di una formula anti-inganno? E perché attribuire questa espressione a Lampitò?

Per rispondere ad entrambe le domande è necessario procedere ad una storicizzazione della questione. In riferimento alle fonti epigrafiche, Gazzano ha ipotizzato, parzialmente in disaccordo con Wheeler, che l'uso di queste formule non costituisse una procedura applicata de iure ad ogni trattato in fase di stipulazione ma occorresse in particolari circostanze concernenti, nel caso specifico, la natura del rapporto fra i contraenti.83 A questa conclusione contribuiscono sia il carattere non regolarizzato di queste formule, sia la ricostruzione storica che fa da cornice a molti trattati, datati al lungo periodo fra il VI secolo a.C e la tarda età ellenistica. Sulla base di queste ricostruzioni, dunque, sembra di poter asserire che le suddette formule garantivano il rispetto delle condizioni di alleanza da parte dei contraenti, laddove sussistessero legittimi motivi per dubitare dell'onestà dei contraenti stessi. Questi motivi riguardano il timore da parte di un alleato egemonicamente inferiore di una sopraffazione futura da parte di una πόλις più potente (con la quale aveva stipulato un'alleanza),84 oppure, in alcuni casi, la volontà esplicita di

81 Cfr. Gazzano 2005, pp. 20-1: ‟Al di là della cautela, sempre d'obbligo di fronte ai testi comici, la testimonianza

aristofanea appare degna di nota, giacché la finalità senz'altro parodistica dell'espressione δίκαιος ἄδολος milita a favore della sua appartenenza al linguaggio tecnico dei trattati”.

82 Gazzano 2005, p. 15: ‟(...) dalla semplice rassegna delle locuzioni emerge il dato evidente che nei testi epigrafici la

clausola appare composta in genere almeno da una coppia di termini, dei quali sovente l'uno ha significato in sé positivo (…), mentre nell'altro la connotazione 'non negativa' è conferita dall'α privativo”.

83 Si veda Gazzano 2005, p. 14.

84 Si pensi al trattato fra Serdaioi e Sibariti in cui si legge (SV II 120 = ML 10): ἀρμόχθεν οἰ Συβαρῖ-/ται κ᾽ οἰ

σύμμαχοι κ᾽ οἰ/Σερδαῖοι ἐπὶ φιλότατ-/τι πισταῖ κ᾽ ἀδόλοι ἀε-/ίδιον∙ πρόξενοι ὀ Ζε-/ὺς κ᾽ Ὀπόλον κ᾽ ἆλλοι θ-/εοὶ καὶ πόλις Ποσειδα-/νία (‟I Sibariti e gli alleati, i Serdaioi,/furono uniti in conformità ad un'/alleanza fedele e priva di inganno,/per sempre. Protettori siano Zeus,/Opolo, gli altri dei e la città di/ Posidonia”). Vedi su questo Giangiulio

scongiurare ribellioni e sedizioni che avevano spezzato un pregresso rapporto di alleanza.85 Simili considerazioni, dunque, sono valide anche per la Lisistrata di Aristofane. Innanzitutto, infatti, quello stipulato dalle donne è, come ho già illustrato nel precedente paragrafo, un accordo interstatale in cui i membri coinvolti svolgono una funzione araldica, in quanto fanno le veci delle rispettive πόλεις di provenienza.

Un secondo punto di contatto fra il testo aristofaneo e le testimonianze epigrafiche a nostra disposizione è costituito dalla specifica natura dei rapporti fra le contraenti, in particolare fra Lampitò, in funzione di legato spartano, e Lisistrata, Mirrina e Cleonice, in quanto esponenti della comunità degli Ateniesi. Sotto questo profilo, dunque, bisogna ammettere che Aristofane abbia contaminato il proprio testo con la realtà storico-politica contemporanea alla rappresentazione della commedia. Il riferimento storico che soggiace ai vv. 618-9 della commedia è, infatti, alla doppia infrazione da parte degli Spartani dei patti sanciti con la stipulazione della cosiddetta pace di Nicia.

Riesaminiamo l'argomento per sommi capi. Nonostante la chiarezza del testo del giuramento (almeno nella versione offerta da Tucidide)86, secondo cui non era più consentita una riapertura delle ostilità né l'ideazione di alcuna macchinazione a scopo di offesa (5.18.4: ὅπλα δὲ μὴ ἐξέστω ἐπιφέρειν ἐπὶ πημονῇ μήτε Λακεδαιμονίους καὶ τοὺς ξυμμάχους ἐπ᾽ Ἀθηναίους καὶ τοὺς ξυμμάχους μὴτε Ἀθηναίους καὶ τοὺς ξυμμάχους ἐπὶ Λακεδαιμονίους καὶ τοὺς ξυμμάχους, μήτε τέχνῃ μήτε μηχανῇ μηδεμιᾷ ‟Non sia poi più consentito rivolgere le armi con atteggiamento ostile, né per gli Spartani ed i loro alleati contro gli Ateniesi, né per gli Ateniesi ed i loro alleati contro gli Spartani, con nessun artificio o macchinazione”), e secondo cui i contraenti giuravano fedeltà ai patti (5.18.9: ἐμμενῶ ταῖς ξυνθήκαις καὶ ταῖς σπονδαῖς ταῖσδε δικαίως καὶ ἀδόλως87 ‟Resterò fedele a questi patti e a queste libagioni con giustizia e senza inganno”), gli Spartani non restituirono la città di Anfipoli perché non la reputarono una condizione favorevole alla loro causa e a quella degli alleati di Sparta (5.21.2: οἱ δ᾽οὐκ ἤθελον, νομίζοντες οὐκ ἐπιτηδείας εἶναι). In aggiunta, vi fu una ulteriore infrazione allorquando gli Spartani si allearono con la Beozia nonostante avessero da poco stipulato una seconda alleanza con gli Ateniesi, con la quale si intendeva vietare ad entrambe le πόλεις di stringere relazioni di φιλία con altre città greche (5.39).88

Dato il retroscena storico che ho succintamente richiamato alla memoria, l'uso di una formula 1992 (pp. 32-3), in cui il trattato fra Sibariti e Serdaioi è da intendersi come fondamento di ‟un' entita superstatale (...) in cui la πόλις è al centro di una serie di rapporti di alleanza stabiliti con ciascuna delle comunità facenti parte della symmachia (...)”. Si pensi anche al trattato fra Ateniesi e Reggini. In riferimento al mancato mantenimento dei patti da parte dei Reggini (di cui vi è una menzione in Tucidide 3.86 e 6.44), si veda il contributo di Bolmarcich (b) 2007 (p. 37). Secondo la studiosa non vi è possibilità di decretare la colpevolezza dei Reggini giacché costoro hanno unicamente compiuto una ‟violation by omission”, consistente nel non ‟fulfill the Athenian request for aid”.

85 Si pensi al trattato fra Taso e Neapolis (post 407 a.C.), in cui gli abitanti di Taso, dopo la convenzione dell'arbitrato

di Paro, si impegnano ad accorrere in aiuto degli abitanti di Neapolis allorquando questi ultimi ne reclamino il bisogno (IG XII 5.109 4-5: βοηθήσω παντὶ σθένει τοῖς ἐμμένοσι τ]-/τῆις συνθήκηις), e di non respingerli (8-9: καὶ οὐκ ἐξελέω τοὺς Νεο]-/πολίτας).

86

Vedi Gazzano 2005, p. 20: ‟Come è stato sottolineato (…) si tratta di pure trascrizioni diplomatiche dagli originali, senza alcun tentativo di rielaborazione stilistica da parte dello storico”.

87 Cfr. Gazzano 2005, p. 19: “Particolarmente significativa appare in questa prospettiva la testimonianza di Tucidide, il

quale adopera l'aggettivo ἄδολος e l'avverbio ἄδόλως (…) unicamente nel riferire à la lettre il dettato di alcuni accordi interstatali, stipulati tutti nella medesima temperie politica e militare, quali la tregua annuale del 423 fra Atene e Sparta, il trattato della 'pace di Nicia' (...)”.

88

anti-inganno da parte di Lampitò risulta funzionale, di conseguenza, anche in termini drammaturgici. In quanto ambasciatrice della comunità spartana, infatti, essa più delle altre compagne è motivata a garantire il rispetto dei patti da parte di Sparta, una πόλις notoriamente spergiura ed infedele ai trattati.89

Alla luce di questo, allora, è inevitabile pensare all'indubbio effetto comico che questa battuta doveva produrre nel pubblico dei cittadini ateniesi presenti alla messa in scena della Lisistrata. Pubblico e autore potevano infatti basarsi sulla chiara memoria di un evento storico recente come quello evocato, giacché infatti, se prestiamo fede a quanto Tucidide riporta, l'infrazione da parte spartana della doppia pace di Nicia fu messa per iscritto su una stele per volere di Alcibiade (5.56.3: Ἀθηναῖοι δὲ Ἀλκιβιάδου πείσαντος τῇ μὲν Λακωνικῇ στήλῃ ὑπέγραψαν ὅτι οὐκ ἐνέμειναν οἱ Λακεδαιμόνιοι τοῖς ὅρκοις).90

Nella memoria degli Ateniesi e nella realtà materiale (per così dire) della stele eretta per volere della assemblea, lo spergiuro degli Spartani doveva rappresentare un monito a non riporre più fiducia nei giuramenti pattizi stipulati con Sparta, anche a condizione che nei termini del giuramento inserito nell'accordo fossero presenti esplicite clausole anti-inganno.

89 Cfr. Bederman 2001, p. 156: ‟The Peace of Nicias was a strategic gambit by Sparta, one that would later pay great

dividends”.

90

Cfr. Sommerstein/Torrance 2014, p. 265: ‟This was an unprecedented action at the time, but finally, and publicly, declared the Peace of Nicias broken”. Su questo si veda Bolmarcich 2007, pp. 481-2. Che la pubblica incisione ed erezione di una stele riportante questo episodio storico fosse di dominio pubblico è testimoniato dal dialogo fra il commissario e Lisistrata (Lys. 513-4), in cui quest'ultima racconta di come le donne ateniesi siano lasciate nella ignoranza delle vicende politiche della loro città allorquando chiedono ai propri mariti ‟'Cosa avete deciso di scrivere sulla stele, oggi in assemblea, riguardo al trattato di pace?'” ('Τὶ βεβούλευται περὶ τῶν σπονδῶν ἐν τῇ στήλῃ παραγράψαι/ἐν τῷ δήμῳ τήμερον ὑμῖν;'), e ricevοno in risposta: ‟'Che te ne importa?'” ('Τί δὲ σοὶ τοῦτ᾽;').

1.2.1 Uccelli 629-36

Il secondo esempio dell'uso aristofaneo di una clausola anti-inganno è rintracciabile in un passaggio degli Uccelli, e più precisamente quello in cui l'Upupa si fa convincere dagli umani Pisetero ed Evelpide a fondare una nuova città (la futura Nubicuculia), nella quale convivranno in armonia uccelli ed uomini e dove i primi saranno i nuovi dei venerati dagli ultimi.

Dopo una premessa espressa in trimetri giambici, l'Upupa si esprime nei seguenti metri lirici (629-36): ἐπαυχήσας δὲ τοῖσι σοῖς λόγοις ἐπηπείλησα καὶ κατώμοσα, ἐὰν σὺ παρ᾽ἐμὲ θέμενος ὁμόφρονας λόγους δίκαιος ἄδολος ὅσιος ἐπὶ θεοὺς ἴῃς, ἐμοὶ φρονῶν ξυνῳδά, μὴ πολὺν χρόνον θεοὺς ἔτι σκῆπτρα τἀμὰ τρίψειν.

Esultando per le tue parole

giuro e minaccio che qualora tu, con giustizia, senza inganno ed in modo rispettoso del sacro, avendo stretto]

con me un accordo all'unisono con i miei pensieri, ti scagli contro gli dei, non per molto tempo ancora gli dei logoreranno il mio scettro.

Diversamente dal passo di Lisistrata precedentemente analizzato (in cui compare eccezionalmente una coppia composta da un aggettivo e da un avverbio), nel passaggio degli Uccelli si nota la presenza di tre aggettivi di cui solo i primi due (δίκαιος e ἄδολος) costituiscono la ripresa di una formula anti-inganno.

Perché quest'ultima ricorre necessariamente in questa sede e per quali ragioni viene pronunciata dall'Upupa? La ragione sembra consistere in una naturale diffidenza nutrita dalla stirpe degli uccelli nei confronti del genere umano. Una tale diffidenza è infatti riconoscibile nelle parole con cui il corifeo esprime il proprio dolore nell'udire del patto stipulato fra il loro compagno (l'Upupa) e i due uomini (327-35):

ἔα ἔα∙ προσδεδόμεθ᾽ἀνόσιά᾽ἐπάθομεν ∙ ὃς γὰρ φίλος ἦν ὁμότροφά θ᾽ἡμῖν ἐνέμετο πεδία παρ’ ἡμῖν, παρέβη μὲν θεσμοὺς ἀρχαίους, παρέβη δ᾽ ὅρκους ὀρνίθων.

ἐς δὲ δόλον ἐκάλεσε, παρέβαλέ τ᾽ ἐμὲ παρὰ γένος ἀνόσιον, ὅπερ ἐξότ᾽ ἐγενέτ᾽ ἐπ᾽ ἐμοὶ πολέμιον ἐτράφη.

Ahi ahi!

Siamo stati traditi e abbiamo subito un atto scellerato: chi era infatti un amico, che è cresciuto insieme a noi

e che assieme a noi errava per i campi, tradì le antiche leggi,

tradì i giuramenti degli uccelli.

Ci ha attirati verso un inganno, ci ha gettato in pasto ad una razza empia che, da quando nacque, nemica si è scagliata contro di noi.

Prestiamo attenzione alle parole usate dal corifeo. Se l'Upupa è accusata di tradimento (προσδεδόμεθ᾽), di diserzione della passata amicizia con i compagni con i quali è cresciuta (ὃς γὰρ φίλος ἦν ὁμότροφά θ᾽ἡμῖν), di infrazione delle leggi passate (παρέβη μὲν θεσμοὺς ἀρχαίους) e di trasgressione dei vincoli giuratori (παρέβη δ᾽ ὅρκους ὀρνίθων), è perché si è alleata con un genere, quello degli uomini, corrotto e ostile. Bisogna anche prendere in considerazione il fatto che per descrivere l'empietà degli uomini sono usati gli stessi aggettivi presenti nella formula anti-inganno pronunciata in precedenza dall'Upupa. Il genere umano è infatti definito ἀνόσιον e il solo fatto di stringere un accordo con gli uomini equivale ad incorrere in un inganno (ἐς δὲ δόλον ἐκάλεσε). Il ricorrere di una formula anti-inganno in questa sede sembra essere ancora una volta coerente con le caratteristiche di questo fenomeno, evidenti nelle fonti epigrafiche cui ho accennato. Per comprendere questo, dobbiamo pensare all'alleanza fra Pisetero e l'Upupa non nei termini di una coalizione fra due individui singoli, ma in quelli di un'alleanza fra i rappresentanti di due comunità, quella umana e quella dei volatili.91 In virtù di queste considerazioni, senza tralasciare la fondamentale diffidenza degli uccelli verso la buona fede degli uomini, sembrano essere necessari sia il ricorso ad un giuramento ufficiale da parte dei due contraenti (un giuramento, questo, non reso esplicito nel testo ma supponibile sulla base delle parole dell'Upupa), sia l'uso di una formula anti-inganno che ribadisca la sacralità e la solennità del patto sancito e ne scongiurino l'infrazione.

Una breve conclusione alla trattazione di questo paragrafo chioserà gli aspetti che conciliano i due passaggi aristofanei attorno al tema delle anti-deceit clauses. Sotto un profilo formale, i due passi concordano nell'uso formulare di due vocaboli che risultano essere i più diffusi nell'ambito dei trattati epigrafici a noi pervenuti.92 In secondo luogo, vi sono condizioni che legittimano necessariamente il ricorso alle sopraddette formule, ovvero il timore che gli Spartani, da una parte, e la società degli uomini, dall'altra, vengano meno ai vincoli pattizi fissati con la prestazione di un giuramento.

91 Zanetto/Del Corno 20056 (prima ed. 1987), ad 197: ‟La posizione di Upupa-Tereo rispetto agli uccelli si configura come quella di un primus inter pares”.

Alla luce di queste considerazioni, credo che la mia trattazione debba rispondere ad un'altra domanda. Il ricorso ad una formula che garantisca l'adempimento delle clausole giuratorie da parte di una o più parti contraenti un trattato è l'unico mezzo perché questo obiettivo venga realizzato? In altre parole: quale ulteriore strumento i cittadini delle varie πόλεις greche hanno escogitato per rendere vincolante un giuramento ancor più di quanto esso lo sia di per sé?

1.3: I giuramenti epicori in Aristofane

Alle domande con le quali si è concluso il precedente paragrafo risponderò nelle prossime pagine evocando l'importante concetto dei giuramenti epicori, ovvero quelle formulazioni giuratorie che vengono espresse a beneficio di una specifica χῶρα. Possiamo già asserire preliminarmente che per realizzare un giuramento epicorio è sufficiente invocare a testimonianza della propria prestazione la divinità rappresentativa della χῶρα in questione, e sulla quale essa esercita il proprio dominio ed il proprio diritto di patrona.

Per quanto concerne questa mia trattazione prenderò in considerazione i versi 212-8 di Pace, in cui si legge quanto segue:

κεἰ μὲν οἱ Λακωνικοὶ ὑπερβάλοιντο μικρόν, ἔλεγον ἂν ταδί∙ ῾ναὶ τὼ σιὼ νῦν Ὡττικίων δωσεῖ δίκαν.᾽ εἰ δ᾽ αὖ τι πράξαιτ᾽ ἀγαθόν, Ἀττικωνικοί, κἄλθοιεν οἱ Λάκωνες εἰρήνης πέρι, ἐλέγετ᾽ ἂν ὑμεῖς εὐθύς∙ ‘ἐξαπατώμεθα, νὴ τὴν Ἀθηνᾶν.᾽ e se gli Spartani avevano la meglio, dicevano questo:

‟per i due dei, ora l'Attichetto ce la pagherà”. Se invece qualcosa di buono veniva fatto e giungevano gli Spartani con richieste di pace, voi subito a dire: ‟veniamo ingannati, in nome di Atena”.

A parlare è Ermes nella sua funzione di messaggero degli dei. Nel passo il dio risponde ad uno sconcertato Trigeo che, nella speranza di chiedere aiuto agli dei per risolvere la guerra del Peloponneso (ma avendo trovato l'Olimpo deserto), chiede ad Ermes dove si siano trasferiti gli immortali. Costoro, è la risposta, hanno abbandonato le loro dimore sull'alto Olimpo avendo perso ogni fiducia in merito alla pacificazione fra le città greche.

Nel riportare il dialogo sopraddetto, Ermes attribuisce agli Spartani e agli Ateniesi due giuramenti informali garantiti dall'invocazione rispettivamente dei due gemelli (Castore e Polluce) e di Atena.93 Le due formulazioni giuratorie sono tra loro differenti; nel caso degli Spartani, infatti, i Dioscuri sono invocati perché siano testimoni di un giuramento promissivo di carattere minatorio, mentre nel caso degli Ateniesi la dea patrona, Atena, viene invocata a

93 Rinvio ad alcuni fra i più interessanti ed innovativi contributi sul culto dei Dioscuri: Hermary 1978; Parker 1989;

Sanders 1992; Burkert 20032 (prima ed. it. 1984, ed.or. Stuttgart 1977), pp. 400-3; Richer 2006, p. 239ss.; Lippolis 2009.

garanzia di un giuramento assertorio, in cui è evidente il sentimento di pericolo percepito dai cittadini di Atene. Ciò che tuttavia accomuna questi due giuramenti è il fatto che ad essere chiamate in gioco siano le divinità che più rappresentano le comunità di Sparta e Atene nel loro specifico valore politico e militare.

Il mio scopo consiste, in sostanza, nel constatare se il contesto in cui vengono pronunciati i giuramenti in nome di Atene e dei Dioscuri nel passaggio di Pace possa essere messo a confronto con le circostanze in cui si registrano le invocazioni giuratorie di queste divinità in altre testimonianze della letteratura greca. In secondo luogo, prenderò in considerazione le specifiche caratteristiche di queste divinità che sottintendono all'invocazione giuratoria contenuta nel passaggio aristofaneo.

Iniziamo dai gemelli di Tindaro. E' necessario sottolineare sin da subito che non possediamo dati certi sul modus iurandi attivo presso Sparta. Il mio intento, tuttavia, è quello di fornire sufficienti prove che possano legittimare l'ipotesi secondo la quale Castore e Polluce, nella formula specifica τὼ σιώ, costituiscano il referente ideale per un tradizionale (per così dire) giuramento spartano. Vi sono infatti solo 16 attestazioni letterarie in cui l'espressione τὼ σιώ caratterizza una formulazione giuratoria94 e 10 di esse, in accordo con la classificazione eseguita dai ricercatori dell'Università di Nottingham, sono contenute nel corpus aristofaneo. Questi dieci riferimenti, tra cui quello con cui la trattazione di questo paragrafo si è aperta, sono appunto

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