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Le impugnative degli atti degli organi fallimentar

Per comprendere la normativa che, nel sistema previgente, regolava le impugnative degli atti degli organi fallimentari,357 è necessario

356 F. DE SANTIS, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, p.

compiere un discorso preliminare sull’intera disciplina concorsuale dell’epoca.

Il diritto concorsuale delle origini si ispirava al c.d. rito camerale puro, ovvero alle regole contenute negli artt. 737 e ss. del c. p. c..

Di conseguenza, la disciplina fallimentare si caratterizzava per il prevalente impulso ufficioso, le forme erano abbandonate alla discrezionalità del giudice e quest’ultimo esercitava la propria attività al fine di giungere con rapidità all’esito della procedura in quanto il sistema, si preoccupava di tutelare, in via preliminare, la normalità dei rapporti piuttosto che l’esercizio provvisorio dell’impresa.

Una simile impostazione si riscontrava oltre che nell’art. 15 della legge fallimentare, ovvero nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, soprattutto negli artt. 26 e 36 della legge fallimentare previgente358. Dalla lettura di entrambe le disposizioni scaturiva che contro gli atti di amministrazione del curatore e del giudice delegato, (rispetto a quest’ultimo, nel caso di atti giurisdizionali questi erano assoggettati all’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ed alle opposizioni al decreto che rende esecutivo lo stato passivo, quindi si prevedevano diverse vie di sindacato giurisdizionale) qualunque interessato poteva instaurare una verifica giurisdizionale, nelle forme camerali, ai sensi degli artt. 36 e 26 della legge fallimentare previgente.

357 Gli organi fallimentari s’identificano nel curatore, comitato dei creditori, giudice

delegato e tribunale fallimentare.

358 Art. 26 legge fallimentare previgente: “Contro i decreti del giudice delegato, salvo

disposizione contraria, è ammesso reclamo al tribunale entro tre giorni dalla data del decreto, sia da parte del curatore, sia da parte del fallito, del comitato dei creditori e di chiunque vi abbia interesse. Il tribunale decide con decreto in camera di consiglio. Il ricorso non sospende l’esecuzione del decreto” .

Art. 36 legge fallimentare previgente: “Contro gli atti di amministrazione del curatore il fallito e ogni altro interessato possono reclamare al giudice delegato, che decide con decreto motivato. Contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale entro tre giorni dalla data del decreto medesimo. Il tribunale decide con decreto motivato, sentiti il curatore e il reclamante”.

Per quanto riguarda, invece, i decreti emessi dal tribunale fallimentare, l’art. 23359 della legge in questione, non consentiva di assoggettarli ad ulteriori impugnative, nemmeno in forme camerali.

La normativa in esame, quindi, si poneva in netto contrasto con i nuovi principi della Costituzione, in quanto lasciava le garanzie del contradditorio e della difesa alla piena discrezionalità del giudice: era quest’ultimo che, volta per volta, andava a statuire le forme attraverso le quali tali dettami dovevano attuarsi360.

Di fronte ad una simile situazione era scontato l’intervento della Corte Costituzionale: è per tale ragione che si è reso necessario compiere tale discorso preliminare in quanto, nel ricostruire la normativa previgente che regolava le impugnative degli atti degli organi fallimentari, non si poteva non tenere di conto della giurisprudenza costituzionale e di legittimità dell’epoca.

Una prima questione sulla quale la Consulta era dovuta intervenire, era quella relativa al fatto che, molto spesso, le controversie che scaturivano dall’atto di amministrazione o di liquidazione del curatore, o del giudice delegato, coinvolgevano un vero e proprio diritto soggettivo che, tuttavia, veniva ad essere accertato secondo le regole proprie del rito camerale puro. Tale scenario si presentava nel caso di controversia nascente dai piani di riparto poiché, in tale ipotesi, entravano in gioco i diritti soggettivi di ciascun creditore, oppure in sede di liquidazione dei compensi al curatore, agli ausiliari ed ai

359 Art. 23 della legge fallimentare previgente: “il tribunale che ha dichiarato il

fallimento è investito dell’intera procedura fallimentare; provvede sulle controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato; decide sui reclami contro i provvedimenti del giudice delegato. Il tribunale può in ogni tempo sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito e il comitato dei creditori, e surrogare al giudice delegato un altro giudice. I provvedimenti del tribunale nelle materie previste da questo articolo sono pronunciati con decreto non soggetto a gravame” .

360 Vedi C. CECCHELLA, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure

difensori poiché, anche in tale contesto, erano implicati i diritti nascenti dal contratto.

Ecco che allora la Corte Costituzionale, con il suo primo intervento, avvenuto con sentenza 9 luglio 1963, n. 118361, aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo e secondo comma della legge fallimentare previgente, ex artt. 24, primo comma, e 111, secondo comma della Costituzione362, interpretando la norma nel senso di escludere dalle forme camerali le controversie sui diritti, le quali, ovviamente, dovevano essere accertate secondo le forme ordinarie.

Tuttavia fu necessario un ulteriore intervento della Corte Costituzionale poiché, la Corte di Cassazione,363 aveva continuato ad applicare il reclamo camerale, con l’unica possibilità di impugnare il decreto emesso dal tribunale dinanzi al giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 111 Costituzione.

Ecco che allora il giudice di costituzionalità delle leggi, in relazione alle controversie in sede di riparto, con sentenza 23 marzo 1981, n. 42,

361 Corte Costituzionale 9 luglio 1963, n. 118, in www.cortecostituzionale.it.

Con tale pronuncia la Consulta ha affermato che l’art. 26 della legge fallimentare previgente, riguardante il reclamo contro il decreto del giudice delegato al Tribunale, da proporre entro tre giorni, si riferisce soltanto ai poteri di direzione amministrativa del fallimento e s’ispira sia all’esigenza di rendere possibile una revisione dei provvedimenti del giudice, sia all’esigenza di rapidità, il che giustifica il carattere esecutorio del decreto, la brevità del termine per ricorrere e l’esaurimento del reclamo nell’ambito della procedura fallimentare. La stessa norma dell’art. 26 non si riferisce, invece, a provvedimenti emessi dal giudice delegato nell’esercizio di funzioni di cognizione riguardanti diritti soggettivi e ciò risulta: sia dalla struttura del reclamo, caratterizzato da elementi normalmente estranei alla tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi; sia dal raffronto con le forme e garanzie proprie della tutela dei diritti soggettivi. Queste, infatti, esigono la congruità dei termini di decadenza e comportano la decorrenza delle impugnazioni dalla conoscenza dell’atto impugnabile, in ragione della pretesa effettività del diritto di difesa.

362 Art. 111 Costituzione, versione originaria: “Contro le sentenze e contro i

provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra” .

aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 26 della legge fallimentare. A questa si aggiunse una successiva sentenza della Consulta, del 22 novembre 1985, n. 303364, con la quale fu dichiarata l’incostituzionalità della norma in relazione alle controversie sui compensi, a qualunque incaricato, in sede fallimentare. Era con quest’ultima pronuncia che la Corte Costituzionale aveva dato generale rilevanza al principio, ovvero l’esclusione del rito camerale puro per l’accertamento di controversie, scaturenti da atti di amministrazione o di liquidazione del giudice delegato, che avevano ad oggetto diritti soggettivi.

Tuttavia, lo stesso organo costituzionale era dovuto ulteriormente intervenire in relazione al dies a quo, a partire dal quale iniziava a decorrere il termine per proporre il reclamo, in quanto risultava essere coincidente con la data del decreto da reclamare. Si trattava di un elemento che poteva non essere conosciuto dall’interessato con la dovuta diligenza. Questo fece sì che l’organo competente, sempre con sentenza 22 novembre 1985, n. 303365, dichiarasse l’incostituzionalità dell’art. 26 della legge fallimentare, per contrasto con l’art. 24 della Costituzione, anche nella parte relativa al termine a partire dal quale era possibile proporre reclamo ed andando, così, a prevedere un dies a quo coincidente con la comunicazione dell’atto o del provvedimento. Questa volta la statuizione fu resa per i reclami proposti contro i decreti che andavano ad incidere sull’amministrazione di interessi poiché la stessa Corte, nella sentenza in esame, aveva ritenuto che “per i gravami proposti contro i decreti che andavano ad incidere sui diritti soggettivi, il problema in questione risultava essere svuotato di

364 Corte Costituzionale 22 novembre 1985, n. 303, in Giur. It. , I, 1, p. 46.

Con tale pronuncia la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 26 della legge fallimentare previgente, per contrasto con l’art. 24 , primo e secondo comma della Costituzione, nella parte in cui assoggettava il decreto, con il quale il giudice delegato liquidava il compenso, a qualsiasi incaricato, per l’opera prestata nell’interesse del fallimento, al reclamo camerale dinnanzi al tribunale.

contenuto, a seguito della declaratoria d’incostituzionalità che aveva coinvolto il reclamo”. La terminologia adoperata si riferiva ad una declaratoria d’incostituzionalità che aveva un effetto totalizzante e non parziale.

Da tutte queste pronunce d’incostituzionalità derivava un duplice regime, a seconda che l’atto di gestione o di liquidazione, del patrimonio del fallito, andasse o meno ad incidere su di un diritto soggettivo: nel primo caso, la controversia avrebbe dovuto accertarsi con processo a cognizione piena di diritto comune in quanto, l’intenzione della Corte Costituzionale, era di eliminare il rito camerale puro dall’ambito della tutela dei diritti, nel secondo caso, invece, la controversia avrebbe dovuto seguire le forme camerali con la peculiarità che, il termine a partire dal quale era possibile proporre reclamo, coincideva con la comunicazione del provvedimento o dell’atto.

Di fronte ad un simile scenario la Corte di Cassazione aveva elaborato un primo indirizzo,366 in ragione del quale si consentiva solo il ricorso straordinario ex art. 111 Costituzione. Questa impostazione sottraeva l’atto o il provvedimento ad un accertamento pieno del fatto poiché, secondo tale indirizzo, le pronunce d’incostituzionalità avrebbero abrogato il reclamo. Di conseguenza, si veniva a creare un sistema meno garantistico poiché era consentita una verifica del provvedimento solo per motivi di legittimità.

La giurisprudenza, tuttavia, aveva elaborato un ulteriore orientamento367 secondo il quale, i decreti c.d. decisori del giudice

366 Corte di Cassazione, sez. un. , 10 maggio 1982, n. 2879, in Foro it. , 1982, I, c.

2226.

367 Tale orientamento si è venuto a delineare a partire dalla Corte di Cassazione, sez.

un. , 9 aprile 1984, n. 2255, in Foro it., 1984, Ι, p. 2239.

Con tale pronuncia la Corte ha affermato che “con la sentenza n. 42 del 1981 della Corte Costituzionale non è stato espunto dall’ordinamento l’art. 26 della legge fallimentare ma ne sono stati solo caducati alcuni aspetti pregiudizievoli. In particolare, non è venuta meno la sequenza decreto del giudice delegato-decreto del tribunale-ricorso per cassazione, ma il vuoto legislativo venutosi a creare dopo

delegato, ovvero quelli che avevano ad oggetto diritti soggettivi, erano sia reclamabili che ricorribili in cassazione, ex art. 111 della Costituzione. Le pronunce d’incostituzionalità, quindi, secondo tale indirizzo, non avevano abrogato il reclamo anche se esso doveva essere adattato ad alcune garanzie fondamentali. In tal modo si garantiva una piena verifica, dei decreti in questione, sia per motivi di legittimità che di merito.

Era questa la tendenza che si era consolidata e diffusa.

La stessa Corte di Cassazione, nella pronuncia 11 dicembre 1987, n. 9212368, aveva individuato un primo correttivo da apportare al rito camerale, disciplinato dalla legge fallimentare, quando esso doveva essere applicato per l’accertamento dei decreti che andavano ad incidere sui diritti soggettivi, ovvero il termine per reclamare non era di tre giorni ma di dieci, come previsto all’art. 739 del c. p. c.,369 e il dies a quo coincideva, in coerenza con la Corte Costituzionale, con la comunicazione del provvedimento da reclamare.

Un ulteriore adattamento fu quello della notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza a qualunque contro interessato,

l’intervento della Consulta deve colmarsi ricorrendo agli artt. 737-742 bis c. p. c.. Pertanto avverso il decreto decisorio del giudice delegato è consentito reclamo al tribunale entro il termine di dieci giorni di cui all’art. 739, comma due, prima parte, c. p. c., decorrenti dal deposito del decreto; il tribunale poi è tenuto ad osservare il principio del contraddittorio stabilito dall’art. 739 c. p. c. ed è obbligato a motivare il decreto. Contro il decreto del tribunale è ammesso ricorso per cassazione ex art. 111 Costituzione, secondo comma. La giurisprudenza successiva si è allineata a tale indirizzo.

Vedi anche Corte di Cassazione, sez. un. , 11 dicembre 1987, n. 9212, in Il fall., 1988, p. 328 ss.

Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha statuito che “l’istituto del reclamo come rimedio previsto dall’art. 26 legge fallimentare anche per i provvedimenti del giudice delegato con contenuto decisorio su diritti soggettivi, non è stato espunto dall’ordinamento giuridico per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 42 del 1981 e n. 303 del 1985 ma è rimasto in vigore secondo il procedimento individuato anche se assoggettato a correttivi” .

368 Corte di Cassazione 11 dicembre 1987, n. 9212, ibidem.

369 Art. 739, secondo comma, codice di procedura civile: “il reclamo deve essere

proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se è dato in confronto di più parti.

previamente identificabile, a garanzia del contraddittorio. Si prevedeva anche l’espletamento di un minimo di istruttoria, se ciò risultava essere necessario. Questo ulteriore elemento trovava la sua giustificazione nel fatto che nell’ordinamento già esisteva il principio del contraddittorio, anche per i procedimenti che si svolgevano in camera di consiglio, quindi, ciò aveva portato la Giurisprudenza370 ad imporre al tribunale l’obbligo di sentire, oltre al reclamante, anche il curatore, il fallito, il comitato dei creditori ed eventualmente altri contro interessati che ne facevano richiesta, a pena di nullità del provvedimento.

Tuttavia non tutti i giudici di legittimità erano d’accordo rispetto a quest’ultimo profilo. C’era, infatti, chi371 aveva sostenuto che “non vi era dubbio che l’audizione delle parti in camera di consiglio era prevista espressamente nell’ordinamento, ma ciò non voleva significare che, in via generale ed in ogni caso, la mancata convocazione delle parti in camera di consiglio si risolveva di per sé e necessariamente in una violazione del diritto di difesa o del principio del contraddittorio. Detta violazione doveva essere accertata in concreto in relazione alla materia, al contenuto dell’atto introduttivo del procedimento, agli interessi coinvolti nel medesimo, alle modalità di svolgimento stabilite dall’organo collegiale ed alle concrete modalità di trattazione e di istruzione adottate”.

Inoltre, sempre con riferimento a questo elemento, un’ultima puntualizzazione si rendeva necessaria in ordine alla identificazione

370 Corte di Cassazione 22 febbraio 1992, n. 2196, in Il fall., 1992, p. 594.

Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha affermato che “ in sede di procedimento di reclamo, regolato dall’art. 26 legge fallimentare, va osservato, a pena di nullità del provvedimento, il principio del contraddittorio che impone al tribunale l’obbligo di sentire, oltre al reclamante, il comitato dei creditori e gli altri contro interessati che ne fanno richiesta”.

371 Corte di Cassazione 16 ottobre 2001, n. 12594, in Foro it. , 2002, I, c. 77.

Con tale pronuncia la Corte di Cassazione ha statuito che “ nel procedimento di reclamo ex art. 26 legge fallimentare, alle parti deve essere assicurato il diritto di difesa e quindi la possibilità di contraddire senza però che questo renda assolutamente necessaria, in difetto di specifica istanza, la convocazione delle parti stesse in camera di consiglio”.

delle parti, rispetto alle quali si rendeva necessaria la notifica, del reclamo e del provvedimento, che ordinava la comparizione di esse, ai fini dell’osservanza del principio del contraddittorio.

In particolare, la Corte di Cassazione con sentenza 1 ottobre 1997, n. 9580372, aveva affermato che “l’osservanza del principio del contraddittorio comportava che, il reclamo ed il provvedimento che ordinavano la comparizione delle parti per la decisione in camera di consiglio, dovevano essere notificati al curatore fallimentare ed ai soggetti che, con riferimento alla specifica materia che costituiva oggetto del giudizio, erano destinatari degli effetti della decisione . In ragione di ciò il giudice di legittimità escludeva, tra quest’ultimi, il comitato dei creditori373 in quanto esso non aveva nessun potere di gestione attiva o di rappresentanza del fallimento, ma solo una funzione interna consultiva e di controllo. Nel caso di specie, poi, la Corte escludeva dai soggetti destinatari della notifica anche il fallito poiché, nel caso in esame, si discuteva in ordine al reclamo proposto avverso il provvedimento del giudice delegato, in tema di piano di riparto ed il fallito, non dovendo essere sentito nella relativa predisposizione, questo comportava come conseguenza che il provvedimento non producesse effetti nei confronti di quest’ultimo”. Infine, la Corte di Cassazione374, sempre nell’ottica di adeguamento del rito camerale disciplinato nella legge fallimentare alle garanzie costituzionali laddove si era di fronte ad un decreto c.d. decisorio,

372 Corte di Cassazione 1 ottobre 1997, n. 9580, in Il fall., 1998, p. 1225.

373 Durante la disciplina previgente il comitato dei creditori deteneva solo funzioni

meramente consultive e di controllo. Oggi, invece, l’organo fallimentare in questione detiene funzioni di amministrazione e di gestione indirette, in particolare tali funzioni le esercita nell’attività tutoria nei confronti degli atti di gestione compiuti dal curatore. Fra queste rientrano l’autorizzazione al piano di liquidazione predisposto dal curatore e all’autorizzazione, su istanza motivata del curatore, agli atti di straordinaria amministrazione.

aveva previsto che quest’ultimo doveva essere motivato, altrimenti, in caso di mancanza, si era di fronte ad una nullità denunciabile.

A conclusione di ciò risultava essere evidente che ciò che la Corte di Cassazione aveva compiuto, a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, era l’elaborazione di un rito che, anche se si basava su di una cognizione sommaria dei fatti, tuttavia risultava essere aderente alle garanzie costituzionali.

Ovviamente tale elaborazione giurisprudenziale trovava applicazione con riguardo ai soli decreti c.d. decisori, ovvero quelli che andavano ad incidere sui diritti soggettivi, in quanto quelli ordinatori, ovvero gli atti che non erano idonei ad incidere su diritti ma piuttosto sull’amministrazione di interessi, erano assoggettati al rito camerale puro disciplinato nella legge fallimentare, con l’unica possibilità di proporre reclamo entro tre giorni dalla comunicazione del provvedimento e non dalla data di esso, in ragione della pronuncia della Corte Costituzionale. In quest’ultimo caso risultava essere altresì esclusa la possibilità di impugnazione, innanzi alla Corte di Cassazione ex art. 111 Costituzione, in quanto il decreto emesso dal Tribunale in sede di reclamo, ex art. 26 della legge fallimentare, risultava essere privo di natura decisoria. E ciò era stato espressamente affermato dal giudice di legittimità nella sentenza 22 maggio 1997, n. 4590375, nella quale fu statuito che “la giurisprudenza di questa Corte, dopo la sentenza delle sezioni unite 9 aprile 1984, n. 2255376, aveva elaborato un orientamento ermeneutico in base al quale, i provvedimenti del giudice delegato e del tribunale, nell’ambito del reclamo ex art. 26 legge fallimentare, andavano distinti a seconda che riguardassero atti interni alla procedura di carattere ordinatorio, inerenti la gestione del

375 Corte di Cassazione 22 maggio 1997, n. 4590, in Il fall., 1998, p.147.

Nel caso di specie si fa riferimento a tre decreti del giudice delegato che costituiscono meri atti interni alla procedura fallimentare, quindi, hanno carattere ordinatorio.

patrimonio fallimentare, oppure atti che presentavano i caratteri della definitività e decisorietà, intesi come idoneità ad incidere su diritti soggettivi. Nel primo caso, il decreto del giudice delegato era reclamabile al tribunale nel termine di tre giorni, decorrente dalla data di comunicazione del provvedimento, e il decreto emesso dal tribunale, in sede di reclamo, non poteva formare oggetto di ricorso per cassazione, nemmeno ai sensi art. 111 Costituzione, perché privo di natura decisoria”.

Terminato l’esame della disciplina previgente sulle impugnative degli atti degli organi fallimentari, possiamo osservare che risultava essere del tutto evidente che lo scenario delineato dalla Corte di Cassazione, oltretutto non in perfetta linea con l’orientamento della Corte Costituzionale, in quanto l’intento di quest’ultima era quello di

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