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il reclamo contro il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento

L’art. 22, della legge fallimentare previgente, prevedeva che “il Tribunale, che respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, provvede con decreto motivato.

Contro il decreto il creditore istante può, entro quindici giorni dalla comunicazione, proporre reclamo alla corte d’appello, la quale provvede in camera di consiglio, sentiti il creditore istante e il debitore.

Se la corte d’appello accoglie il ricorso, rimette d’ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento”. 332

Dalla lettura della norma si deduceva che, già nella disciplina previgente, nel caso di decisione negativa, il Tribunale adottava un provvedimento che assumeva la forma del decreto. Esso doveva essere motivato e comunicato alle parti.

Al creditore istante, infatti, era riconosciuta la facoltà di proporre reclamo alla corte d’appello, ma la fase di gravame si svolgeva sempre nel solco della cognizione sommaria in quanto il giudice di secondo grado procedeva in camera di consiglio. Risultava essere del tutto evidente che, a differenza di quanto accadeva nel caso di Sentenza dichiarativa di fallimento, nell’ipotesi di rigetto della relativa istanza non si prevedeva l’eventualità di una cognizione piena.

Ci si trovava di fronte ad un caso nel quale sia la fase per la dichiarazione di fallimento, di cui all’art. 15 della legge fallimentare previgente,333 che quella successiva di gravame, ex art. 22 della suddetta legge, si svolgevano nella forma sommaria334.

332Art. 22, versione originaria, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267.

333 Art. 15, versione originaria, della legge fallimentare: “Il tribunale, prima di

dichiarare il fallimento, può ordinare la comparizione dell’imprenditore in Camera di Consiglio e sentirlo anche in confronto dei creditori istanti”.

334 Vedi Corte Cassazione 13 settembre 1985, n. 4685, in Giust. Civ. Mass., 1985,

Di conseguenza anche dinanzi alla corte di appello veniva ad essere seguito un procedimento che si attuava secondo le regole proprie del rito camerale, ovvero degli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile: “i provvedimenti che devono essere pronunciati in camera di consiglio hanno la forma del decreto, il giudice nel relativo procedimento può assumere informazioni335 e i decreti possono essere in ogni tempo modificati o revocati”.336

Per la dottrina,337 il fatto che il Tribunale, in caso di decisione negativa, adottava un provvedimento nella forma del decreto si poneva in assoluta coerenza con le caratteristiche tipiche del rito camerale, rispetto a quanto non faceva la sentenza dichiarativa di fallimento. La ragione che, secondo l’opinione unanime degli Autori dell’epoca, giustificava una simile diversità di forma risiedeva nel fatto che, mentre alla sentenza veniva riconosciuta l’idoneità al giudicato, in quanto essa andava ad incidere sui diritti soggettivi e sullo stesso status del debitore, al decreto, invece, non era attribuita l’idoneità al giudicato in quanto, in capo ai legittimati attivi, non esisteva un diritto soggettivo a chiedere il fallimento, di conseguenza anche il relativo

Con tale pronuncia la Corte ha affermato che “il provvedimento, con il quale la Corte d’Appello, respingendo il reclamo proposto ai sensi dell’art. 22 della legge fallimentare, confermi il decreto del tribunale di rigetto dell’istanza di fallimento, è privo di contenuto decisorio e di carattere definitivo, e conclude un procedimento di tipo camerale”.

In dottrina vedi R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Ι, Milano, 1974, p. 641.

335

Vedi Corte Appello Roma 17 novembre 1953, in Dir. Fall., 1953, ΙΙ, p. 713; Corte Appello Napoli 31 luglio 1965, in Dir. Fall., 1965, ΙΙ, p. 608.

In entrambe le pronunce è affermata l’ammissibilità della richiesta d’ufficio d’informazioni, quindi si afferma il principio secondo il quale, anche nel giudizio presso la Corte d’Appello susseguente a reclamo, vige il principio inquisitorio.

336 Il rito camerale disciplinato agli artt. 737 e ss. del codice di procedura civile, per

le caratteristiche delineate, è nato per essere applicato all’ambito della volontaria giurisdizione. In realtà la sua applicazione è stata estesa anche alla tutela dei diritti.

337 Vedi M.FERRO, la legge fallimentare, commentario teorico pratico, II, Padova,

2011, p.22; F. CANAZZA, sub art 22, Lo Cascio, 2008, p.175; C. CECCHELLA, Il diritto fallimentare riformato, Il Sole 24 ore S. p. A., 2007, p. 86.

provvedimento, non andando ad incidere su diritti soggettivi, assumeva, legittimamente, la forma del decreto.

Il creditore istante, quindi, in caso di rigetto dell’istanza di fallimento, poteva proporre reclamo, ex art. 22, oppure riproporre la domanda, nella speranza che il Tribunale revocasse il precedente diniego.

Anche la giurisprudenza di legittimità, in prevalenza, riteneva che il decreto non era idoneo all’efficacia di giudicato. A titolo esemplificativo è opportuno citare la sentenza 27 novembre 2001, n. 15018338, con la quale la Corte di Cassazione aveva statuito che sul decreto emesso dalla Corte d’Appello, ex art. 22 della legge fallimentare previgente, non poteva configurarsi il giudicato in quanto “non esisteva un diritto del creditore al fallimento del proprio debitore, in stato d’insolvenza, ma solo una legittimazione del creditore a proporre istanza di fallimento dell’imprenditore insolvente. La Corte, inoltre, aggiungeva che l’insolvenza dell’impresa, come già aveva rilevato la dottrina, era un fatto che interessava tutti: interessava l’ordinamento, perché l’impresa fa parte dell’organizzazione economica generale e, quindi, il suo dissesto incideva su quest’ultima, richiedendo la necessaria eliminazione dell’impresa; interessava i creditori, per la possibile disintegrazione del patrimonio del debitore insolvente e per la possibile violazione della par condicio creditorum; interessava lo stesso debitore che non voleva aggravare il proprio dissesto, né vedere disperso il suo patrimonio nel disordine di una miriade di azioni esecutive individuali. La Corte aveva concluso affermando che, in questa pluralità d’interessi coinvolti, l’istanza di fallimento non implicava nessuna valutazione sul diritto del creditore a partecipare al concorso (valutazione che verrà effettuata soltanto nel momento in cui il creditore presenti la domanda di ammissione al passivo) e la sua posizione veniva valutata soltanto incidentalmente, ai fini della legittimazione all’istanza di fallimento. La riprova di ciò

stava nel fatto che era sempre possibile che, il credito vantato dall’istante per il fallimento, venisse poi escluso dallo stato passivo in sede di verifica”.

Era sulla base di tali argomentazioni che la Suprema Corte aveva sostenuto la tesi della inattitudine al giudicato del decreto emesso dalla Corte d’Appello, a seguito del reclamo proposto contro il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento, pronunciato dal tribunale.

L’inattitudine al giudicato comportava l’impossibilità di configurare una preclusione da cosa giudicata con riferimento al credito fatto valere, alla qualità, in capo al debitore, di soggetto fallibile ed allo stato d’insolvenza dello stesso. Di conseguenza, dopo un provvedimento di rigetto emesso ai sensi dell’art. 22, era possibile dichiarare il fallimento, d’ufficio o su istanza di un diverso creditore, sulla base della medesima situazione. Anche il medesimo creditore poteva riproporre l’istanza di fallimento fondata, non solo su elementi sopravvenuti o preesistenti e non dedotti, ma anche su di una prospettazione identica a quella respinta.

Pertanto, tale provvedimento non poteva essere oggetto di ricorso straordinario in cassazione, ex art. 111339 Costituzione, in quanto privo dei caratteri della decisorietà e della definitività. Questi attributi erano stati definiti dalla stessa Corte di Cassazione nella pronuncia precedente, nella quale aveva affermato che essi si sostanziano, rispettivamente, “nella risoluzione di una controversia su diritti soggettivi” e “nell’attitudine del provvedimento a pregiudicare, con l’efficacia propria del giudicato340, quei diritti”.

339 Ex art. 111 Costituzione i provvedimenti giurisdizionali aventi forma diversa da

quella della sentenza sono impugnabili con il ricorso straorinario in Cassazione soltanto quando presentano i caratteri della decisorietà e della definitività.

340 Ex art. 2909 c.c. la cosa giudicata fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o

Era sulla base di tali definizioni che la Suprema Corte, nel caso di specie, aveva ritenuto fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale, in quanto relativo ad un provvedimento privo di natura decisoria. In definitiva, con tale pronuncia, l’organo competente aveva negato la ricorribilità per Cassazione, in via straordinaria, tanto del provvedimento di rigetto quanto del provvedimento di accoglimento del reclamo, emesso dalla Corte d’Appello, avverso il decreto del tribunale che ha respinto l’istanza di fallimento.

È opportuno precisare che, se l’orientamento sopra esposto era quello prevalente nella giurisprudenza di legittimità, nello stesso tempo, non erano mancate pronunce di segno opposto. Tuttavia quest’ultime erano rimaste isolate. A tal proposito è opportuno citare la sentenza del 18 gennaio 2000, n. 474341, con la quale la Corte di Cassazione aveva affermato che, il decreto con il quale la Corte d’Appello rigettava il reclamo, proposto contro il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento emesso dal Tribunale, era idoneo a conseguire l’efficacia di giudicato sulla base di diverse ragioni: “anzitutto aveva riconosciuto carattere sostanzialmente contenzioso alla procedura e ciò sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 20 luglio 1999, n. 328342, con la

341 Corte di Cassazione 18 gennaio 2000, n. 474, in Foro it. , 2000, I, p. 2232 342 Corte Costituzionale 20 luglio 1999, n. 328, in Dir. Fall. , 1999, II, p. 673.

Con tale pronuncia la Corte ha affermato che, “in ragione del principio di parità delle armi, la legittimazione a proporre reclamo avverso il decreto di rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento deve essere riconosciuta al debitore, nei cui confronti l’istanza è proposta, negli stessi termini in cui è riconosciuta al creditore istante in quanto il provvedimento negativo non appare necessariamente limitato al rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento ma può abbracciare anche la statuizione, consequenziale a detto rigetto, su eventuali domande proposte dal debitore, ovvero la condanna al rimborso delle spese o al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata. È in relazione a tale più ampio contenuto che, il precludere al debitore la legittimazione al reclamo accordandola, invece, al creditore, veniva, secondo quanto dichiarato dalla Consulta, a determinare un evidente e ingiustificato squilibrio tra le parti in causa. Il principio sancito dall’art. 3, comma 1, Cost., posto in correlazione con quello di cui all’art. 24 Cost., implica necessariamente, come ha affermato la Corte in tale sentenza, la piena uguaglianza delle parti stesse dinanzi al giudice ed impone al legislatore di disciplinare la distribuzione di poteri, doveri ed oneri processuali secondo criteri di pieno equilibrio. Tali considerazioni, ha concluso la Corte, non possono non valere anche riguardo al procedimento, di natura

quale essa aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, secondo comma, della legge fallimentare, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non attribuiva al debitore, nei cui confronti era stato proposto ricorso per la dichiarazione di fallimento, la legittimazione a proporre reclamo alla corte di appello avverso il decreto di rigetto di tale ricorso, in relazione al mancato accoglimento delle domande proposte dallo stesso debitore, al fine di consentire la possibilità a quest’ultimo di proporre il reclamo sia in ordine al rimborso delle spese sia in ordine al risarcimento dei danni da responsabilità processuale aggravata; in secondo luogo aveva affermato che la facoltà attribuita al creditore di esercitare un’attività presso il Tribunale fallimentare al fine di conseguire un provvedimento giurisdizionale, nella specie la sanzione d’insolvenza, era espressione di un diritto di azione processuale e, quindi, il provvedimento che lo negava era attinente alla materia dei diritti; infine aveva previsto che se l’iniziativa del creditore non poteva esprimersi attraverso l’azione diretta a promuovere la procedura, in quanto il creditore non ne aveva la disponibilità, quindi era sulla base di presupposti di fatto che l’iniziativa del soggetto legittimato si dimostrava priva di fondamento, a diverse conclusioni si doveva giungere quando la proponibilità dell’istanza veniva negata in astratto, in relazione alla qualità del soggetto debitore343, in quanto in tal caso era sulla base di profili di diritto e non di fatto, e come tali non suscettibili di mutevoli apprezzamenti, in relazione allo stato degli atti, che la proponibilità dell’istanza veniva ad essere negata”.

sostanzialmente contenziosa, introdotto dal ricorso del creditore per la dichiarazione di fallimento, essendo indubbia la contrapposizione di posizione ed interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all’istanza di fallimento”.

343 Nel caso di specie la Corte d’Appello aveva emesso il decreto di rigetto per

mancanza del potere d’impulso da parte dello stesso creditore in ragione della qualificazione giuridica del debitore che s’identificava in una società cooperativa edilizia che aveva perseguito finalità esclusivamente mutualistiche e che, non avendo svolto attività commerciale in senso proprio, era stata ritenuta esente da ogni procedura concorsuale.

Era sulla base di tali ragioni che una parte della giurisprudenza non aveva condiviso la tesi della inattitudine al giudicato del decreto emesso dalla Corte d’Appello, ex art. 22 della legge fallimentare previgente. Di conseguenza quest’ultimo poteva essere oggetto di ricorso in cassazione ex art. 111 Costituzione. Tale orientamento minoritario era stato ripreso e, nello stesso tempo, criticato dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza n. 15018 del 2001344. Essa aveva espressamente dichiarato che “la ragione fondata sul carattere sostanzialmente contenzioso del procedimento, appariva fragile in quanto, tale argomentazione, veniva ad essere collegata, come si evince dalla sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, alla contrapposizione di posizione ed interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all’istanza di fallimento. Tuttavia, tale contrapposizione poteva manifestarsi anche nella giurisdizione volontaria, quindi, non consentiva, di per sé sola, di ricondurre il procedimento per la dichiarazione di fallimento alla giurisdizione contenziosa dei diritti; con riferimento alla seconda ragione, la Suprema Corte aveva affermato che quando sono in gioco diritti processuali, mancavano i caratteri della decisorietà e definitività poiché, in tal caso, l’efficacia della sentenza si produceva solo all’interno del processo, senza acquisire rilevanza al di fuori di esso. In particolare, essa aveva precisato che pur dovendosi riconoscere che alle norme che regolano il processo, corrispondono diritti soggettivi delle parti, tuttavia la pronuncia sull’osservanza o meno di tali norme non poteva assumere autonoma valenza decisoria, quando non vi era anche risoluzione di una controversia su diritti soggettivi. Tuttavia la Consulta aveva specificato che, quest’ultimo aspetto, operava solo sul piano della proponibilità del ricorso straordinario, essendo, invece, neutro sul piano della configurabilità di una preclusione da giudicato. Infine, rispetto all’ultima ragione, essa aveva dichiarato che la

decisione di una questione di diritto, sulla base di elementi in concreto non controversi e non controvertibili, non valeva a trasformare in giurisdizione contenziosa su diritti soggettivi, una giurisdizione che tale in ipotesi non sia”.

Continuando l’esame della scarna disciplina contenuta nell’art. 22 della legge fallimentare previgente, era opportuno sottolineare che se da un lato la legittimazione attiva era stata estesa al debitore, in ragione di quanto aveva statuito la Corte Costituzionale con sentenza n. 328 del 1999345, dall’altro lato la giurisprudenza aveva negato una simile estensione al pubblico ministero. In particolare, con sentenza 26 maggio 1967, n. 1160346, la Corte di Cassazione aveva statuito che “non era possibile attribuire al p.m. un potere d’azione, essendo stato ritenuto sufficiente il potere dato al tribunale di dichiarare, ex ufficio, il fallimento: potere che, prevalendo, rispetto all’iniziativa del p.m., aveva reso superflua l’attribuzione del potere d’azione a tale ufficio”. Da ciò si desumeva che il p.m. non risultava essere titolare di una vera e propria azione per chiedere il fallimento347 ma, piuttosto, solo di un potere di segnalazione diretto a provocare la dichiarazione di fallimento d’ufficio. Era sulla base di ciò che la giurisprudenza negava la legittimazione a reclamare al p.m.

345 Vedi Corte Costituzionale 20 luglio 1999, n. 328, in Dir. Fall., 1999, ΙΙ, p. 673, il

cui contenuto è già stato oggetto di trattazione nella nota numero 342.

346 Corte di Cassazione 26 maggio 1967, n. 1160, in Foro it., 1967, I, 1139.

347 L’art. 7 della legge fallimentare previgente prevedeva che il p.m. doveva

presentare istanza per la dichiarazione di fallimento nei casi in cui l’insolvenza risultava dalla fuga o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali d’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore. Tuttavia la giurisprudenza, vedi Corte di Cassazione, 15 dicembre 2001, n. 15407, in Il Fall, 2002, p.1295, aveva ritenuto che il p.m. aveva una iniziativa fallimentare di carattere generale in quanto l’art. 7 aveva la sola funzione di indicare quelle ipotesi nella quali la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento doveva essere considerata doverosa per il p.m. La ragione che giustifica una simile interpretazione risiedeva proprio nel fatto che per la giurisprudenza di legittimità il p.m. non risultava essere titolare di un potere di azione in ordine alla richiesta di fallimento bensì di un potere di segnalazione al tribunale affinchè fosse quest’ultimo a provvedere d’ufficio.

Un’ulteriore questione che la giurisprudenza di legittimità, nel regime previgente, aveva dovuto affrontare era stata quella relativa alla statuizione delle spese ex artt. 91 e 96 del c. p. c.348

La Corte di Cassazione, con sentenza 20 novembre 1996, n. 10180349, innanzitutto aveva ribadito che, la pronuncia in ordine alla statuizione delle spese, doveva essere compiuta dall’autorità giudiziaria ogniqualvolta che essa si trovava di fronte ad un provvedimento conclusivo di un procedimento, avente carattere, in senso lato, contenzioso, perché, essendo risolutivo di contrapposte posizioni, consentiva di individuare una parte vittoriosa ed una parte soccombente. Inoltre tale statuizione, come aveva precisato la stessa Corte, prescindeva dalla forma che il provvedimento assumeva.

Alla luce di tale criterio essa aveva stabilito che, il decreto con il quale la Corte d’Appello respingeva il ricorso proposto contro il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento, emesso dal tribunale, doveva contenere la pronuncia sulle spese. E ciò in ragione del fatto che il decreto in questione risultava essere comunque conclusivo della procedura instaurata, nonostante era privo del carattere della decisorietà e della definitività e, quindi, consentiva, alla parte, di riproporre la domanda.

Inoltre, con riferimento al quesito della contenziosità della procedura, la stessa Corte aveva precisato che esso era riscontrabile, in quanto era indubbia la contrapposizione di posizione ed interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all’istanza di fallimento.

Di conseguenza il decreto, per la parte relativa alla statuizione delle spese a carico del creditore istante, era ricorribile in Cassazione ex art.

348 Art. 91 c. p. c.: “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui,

condanna la parte soccombente al rimborso delle spese”; Art. 96 c. p. c.: “se risulta che la parte soccombente ha agito ho resistito in giudizio con colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata”.

111 Cost. in quanto aveva natura di pronuncia definitiva e decisoria su di un diritto soggettivo.

Il previgente testo normativo non aveva, altresì, impedito, alla giurisprudenza, di ritenere che il Tribunale, in caso di rigetto dell’istanza di fallimento, fosse tenuto a provvedere in ordine alla richiesta, formulata dal debitore, di condanna del creditore istante al rimborso delle spese processuali ed al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata.

A tale riguardo emblematica è la sentenza 28 febbraio 2000, n. 2216350 della Corte di Cassazione, con la quale, essa, sì era pronunciata sul ricorso, proposto dal debitore, contro il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, emesso dal Tribunale. Quest’ultimo, nel caso di specie, respingeva il ricorso proposto dal creditore istante ma non provvedeva sulla istanza di condanna, al rimborso delle spese e al risarcimento dei danni, avanzata dallo stesso debitore.

Quest’ultimo aveva fatto valere, come motivo di ricorso, il fatto che il Tribunale, con il provvedimento di rigetto del ricorso, aveva chiuso davanti a sé il procedimento e, quindi, non avendo statuito in ordine alle spese, aveva omesso di applicare il principio generale affermato

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